di Giordano Bruno Guerri
C’è un crudele ma benefico gioco della torre, su Twitter. Fra queste #paroleinviadiestinzione, quale scegliereste di salvare? #addietro #glabro #aulico #voluttà #gnatologo #resilienza #gratologo #giubba #magnetofono #basito. Ha vinto voluttà, e la bellezza della parola mi consola per la sconfitta della mia prediletta, glabro: “Accoglimi nelle tue ascelle glabre.” Non capisco invece cosa c’entri “resilienza”, parola ignota ai più e diventata di moda per sostenere qualunque sciocchezza. C’è da sperare che faccia una brutta fine. L’idea di salvare le #paroleinviadiestinzione nacque quando il mio secondogenio (neologismo) Pietro, sei anni, accarezzandomi le gote disse: “Perché ti fai crescere la barba. Ti accarezzerei meglio senza peli, babbo.” Senza peli? Orrore: glabro, figlio mio, glabro. Oggi Pietro possiede una parola in più, un’arma acuminata in più rispetto ai suoi coetanei – e maggiori – verbosi quanto poveri di lingua. Del genio di Nanni Moretti rimarranno l’attesa dell’alba a occidente, la passeggiata in Vespa, la danza guardando in tv Silvana Mangano e lo schiaffo alla giornalista che parla come un giornale stampato: “Le parole sono importanti!”, e giù un ceffone. “Ma lei è fuori di testa!”, ribatte la percossa, e giù un altro ceffone, più forte: “Ma come parlaaaaaa!!!”

Fra le gioie della vita di cui – forse – resterò privo, c’è percuotere qualcuno per come parla. È una triste, civile, rinuncia. Che cerco di compensare gettando ogni tanto un salvagente alla nostra mamma non ancora diventata mamy, la Lingua Italiana. Il torneo #salviamoneuna è appena iniziato, ma dà già buoni frutti. Ne abbiamo selezionate 400, io e una misteriosa @Crilu42 che mi assiste giocosamente e caritatevolmente. Ogni giorno ne vengono elencate 10, fra cui votarne una. Il voto deve avvenire inserendo la parola in una frase, come “La tua #voluttà m’incanta”. Le vincitrici passeranno a una sfida successiva, fra loro, fino a individuarne una che deve indubbiamente venire resuscitata nell’uso comune.
Il torneo #salviamoneuna è appena iniziato, ma dà già buoni frutti. Ne abbiamo selezionate 400.
Ieri, nella seconda giornata, c’è stata una dura tenzone fra #abiura #infingardo #cinematografo #pleonasmo #beccheria #gnomone #scellerato #tonitruante #graveolente #ammennicolo. Ha vinto infingardo, e me rallegro assai, perché è una meravigliosa, opulenta parola crudelmente schiacciata fra “pigro” e “indolente”, delle quali ha in più l’accenno a una inoperosità furbetta e volontaria, di scelta tattica: ecco, per esempio, il voto di Titti Consalvi, @ttsdpin: “Galileo Galilei: un geniale #pleonasmo tra #scellerata #abiura e #infingarda censura.” Al terzo turno sono in gara #aporia #preconizzare #vezzoso #malandrino #imbrunire #leggiadro #pleonastico #fellone #asciolvere #belluino. Voterò belluino, che merita la salvezza almeno dalla confusione cui è avvinta con beduino, di cui si crede sia un comportamento, mentre attiene alle belve.
Giochi e raffinatezze a parte, la nostra lingua è in grave pericolo. E non tanto perché è poco diffusa. Anzi, possiamo rallegrarci che secondo le statistiche sia la più studiata all’estero, dopo le lingue “utili”: inglese, spagnolo, cinese. Battiamo dunque francese, giapponese, russo, tedesco, ma non per merito di noi viventi: grazie ai pittori, ai musicisti, ai poeti del passato che hanno reso indispensabile conoscere l’italiano per fare certe cose o per gustare a fondo certe bellezze.
Noi viventi, l’italiano lo stiamo massacrando. Non parlo soltanto, badate, dell’invasione degli anglicismi: non più invasione, ma accoglienza entusiasta, come si accolgono i liberatori. La commistione è normale - anzi salutare, come fra gli umani - finché sta in limiti fisiologici. Nessuno più oserebbe discutere su bar (che fra l’altro viene da barra) o su sport. Ma feedback non ci ha liberato dalla schiavitù del riscontro, ci ha sottoposto a un provincialismo appunto da sottomissione: mai rispondere altro - a chi ti chiede un feedback - che fuck you.
Cedere sull’anglosuperfluo significa poi cedere anche sulla stessa struttura della lingua. Avete notato che quasi tutte le lettere, anche le mail, cominciano con un “sono a chiedere, siamo a proporre”? Siamo chi? Sono che? E giù una manata forte, dai Nanni, dagliela, che io non posso. Poi spiega loro che stanno passivamente, inutilmente, erroneamente traducendo I’m. Cioè pensano in inglese senza sapere l’inglese, perché non può conoscere bene una lingua straniera chi non conosce bene la propria. E qui arriviamo al punto davvero dolente.
Feedback non ci ha liberato dalla schiavitù del riscontro, ci ha sottoposto a un provincialismo appunto da sottomissione: mai rispondere altro - a chi ti chiede un feedback - che fuck you.
Un popolo è tale non perché riunito negli stessi confini, sotto le stesse leggi e le stesse tasse, che attengono allo Stato. Un popolo è tale perché ha la stessa lingua e la stessa storia. (Fino a pochi decenni fa ci si metteva anche la stessa religione, oggi ne facciamo a meno.) A difendere la storia ci pensano – più o meno bene – gli storici, e comunque non la si può cambiare, la si può interpretare, più o meno bene. Per la lingua è diverso: se tu, Stato, imponi film italiani in televisione, e in quei film si parla un cattivo italiano, difenderai la produzione italiana, non la cultura e la lingua italiana.
Ma era solo un altro esempio. La vergogna nazionale è venuta da una recentissima deliberazione del MIUR, altrimenti detto Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca. Il 27 dicembre il MIUR ha reso pubblico l’atteso bando per il finanziamento dei progetti universitari di interesse nazionale, imponendo che la domanda debba essere compilata esclusivamente in lingua inglese. Il professor Claudio Marazzini, presidente dell’Accademia della Crusca, ha subito definito la decisione “una follia”. E’ vero, Spagna, Francia, Germania, non farebbero mai scelte di questo tipo. Difendendo la propria lingua i popoli difendono se stessi o – come si banalizza oggi – la propria “identità”. E se in molte discipline scientifiche conoscere l’inglese è quasi indispensabile, è ancora più vero che per i progetti umanistici (non parliamo neppure di quelli linguistici) il ricorso a una lingua straniera appare demenziale. Tanto che nel 2012 venne richiesta una domanda compilata sia in italiano sia inglese, e nel 2015 si lasciò la libertà di adottare l’inglese o l’italiano. “Abolire l’italiano in una domanda rivolta alla pubblica amministrazione è autolesionista e suicida”, ha concluso il saggio e attonito professor Marazzini.
Il 27 dicembre il MIUR ha reso pubblico l’atteso bando per il finanziamento dei progetti universitari di interesse nazionale, imponendo che la domanda debba essere compilata esclusivamente in lingua inglese.
(Oh, non tentate di giocarmi il tiro del retrogrado, rincattucciato nel paesello. I miei figli sono già perfettamente bilingui, e il primogenio a undici anni traduce abbastanza bene - dicono i voti - dall’inglese al cinese.)
Il fatto è che conoscere e usare bene una lingua straniera non deve mai significare la rinuncia alla propria, vero ministro (o ministra, se preferisce) Fedeli (Gentile ministro/a Fedeli, mi preme chiarire subito che non polemizzerò con lei per la sua laurea mancata, importa assai che lei sia laureata, anzi, quando aboliamo finalmente il valore legale del titolo di studio? Né infierirò sugli errori grammaticali o di sintassi che le vengono attribuiti, possono capitare, specialmente dell’eloquio e addirittura nella scrittura frettolosa. Né, tantomeno, farò dell’ironia sulla sua capigliatura, che trovo bella, suggestiva, fantasiosa, tanto che vorrei sentirla sul mio petto glabro, accarezzarla con dolcezza di amico.)
No. Ce l’ho con lei per la risposta che ha dato al professor Marazzini. Lei sostiene che, “a scelta del proponente, la domanda può essere fornita anche una ulteriore versione in lingua italiana”, sottintendendo che si tratta di un vezzo superfluo. Poi definisce la questione della lingua “non rilevantissima”. Infine deve “ricordare che le lingue si definiscono per quelli che sono anche i loro spettri d’impiego. E l’inglese è, semplicemente, la lingua veicolare della comunicazione internazionale fra ricercatrici e ricercatori”. Moretti, dove sei? Salì a bordo, CAZZO!
Certo, “avremo bisogno di migliaia di valutatori attinti anche a banche-dati estere”: immagino che non siano tanti gli italiani in grado di valutare un progetto in inglese. Ma il punto di vero dolore – politico, prima che culturale - è che l’italiano muore, se si accetta così arrendevolmente e a priori che non possa essere la lingua della ricerca: proprio perché nella ricerca prevale l’inglese.
L’italiano muore, se si accetta così arrendevolmente e a priori che non possa essere la lingua della ricerca: proprio perché nella ricerca prevale l’inglese.
È inutile, poi, se non risibile, che lei si compiaccia di iniziative come i test invalsi, durante i quali i docenti aiutano gli studenti, per non fare brutta figura loro, e dunque insegnano a barare; e che nella “Buona Scuola” (sic) sia stato introdotto un tema “linguistico-creativo” dedicato “alla conoscenza e alla pratica della scrittura creativa, della poesia e di altre forme simili di espressione, della lingua italiana, delle sue radici classiche, dei linguaggi e dei dialetti parlati in Italia”. MORETTI!!!
Ministro/a, lei lo sa che moltissimi nostri insegnanti, come moltissimi nostri concittadini, non sono in grado di parlare un buon italiano? Non ho detto scrivere, ho detto parlare. Vuole realizzare una immensa – benefica, storica – riforma, se fra qualche mese le capiterà ancora la ventura di essere ministro/a del MIUR? Introduca in tutte le scuole di ogni ordine e grado l’insegnamento della pronuncia italiana. Che dovrà essere un corso di dizione - primario e obbligatorio, indispensabile per accedere alla cattedra - nelle facoltà che producono docenti: solo così otterremo che i nostri ragazzi, anche quelli che parlano benissimo inglese, che vanno alla conquista del mondo, abbiano su di sé per sempre il bollo della loro provincia di origine.
Ministro Fedeli, introduca in tutte le scuole di ogni ordine e grado l’insegnamento della pronuncia italiana.
Accade che - anche fra chi scrive bene, è colto, legge - la pronuncia dell’italiano faccia a dire poco difetto. Per esempio, due quinti degli italiani pronunciano bosco, stringendo orribilmente la bocca a culo di gallina sulla “o”, altri due terzi la dilatano come se riemergessero da un’apnea secolare, biesplodendo in bosco. Lo stesso per la “e”, in migliaia di parola fra le più comuni, con milioni di persone incapaci di distinguere fra la pesca che sta sugli alberi e quella che si fa nelle acque, con moltiplicazioni miracolose di doppie, con pestilenze micidiali di altre doppie. Ho sentito con le mie orecchie un professore universitario di biologia parlare per ore di topi, e ancora mi chiedo di quali esotici e misteriosi animali si tratti. Se non per l’italiano, lo faccia per l’inglese, ministro/a: ho ragione di credere che quel docente parli allo stesso modo nella lingua di Shakespeare: anche se è al top della ricerca.
Intanto si diverta con noi. Le parole di domani sono #ameno #atavico #uggioso #quid #baciamano #bislacco #desueto #incanutire #ostia #soliloquio #uscio e – senza allusioni - #scriteriato.
@GBGuerri