2 Aprile
Trump invita Putin alla Casa Bianca
Stati Uniti tra Russia e Cina. Si studia un incontro con l'uomo del Cremlino, mentre Pechino risponde alla guerra commerciale con i dazi sulla carne di maiale e altri prodotti. A più di un anno dall'elezione Trump fa Trump e i Never Trump non sanno più che fare. The Donald e il Signor Zeitgeist.
Questo numero di List è stato impaginato il 4 aprile 2018.
Imprevedibile. Spiazzante. La macchina a vapore dell'America. Trump. In 24 ore abbiamo un doppio colpo: 1. La Cina risponde alla guerra commerciale con i dazi sulla carne di maiale (e vedrete quanto è importante tutto questo nella storia americana); 2. Il Presidente ha invitato Vladimir Putin a un incontro alla Casa Bianca. Entrambi i fatti sono l'andamento di uno stesso spartito, la vetta e il precipizio di un'opera in fieri. Non ne conosciamo l'esito. Ma siamo di fronte ai tre uomini che rappresentano la contemporaneità: Donald Trump, Xi Jinping, Vladimir Putin. America, Cina, Russia. Gli ultimi due si parlano, la Russia è stata spinta tra le braccia del suo nemico storico (ascolta su RadioList il dialogo tra il titolare e Fabio Squillante sul poker di Putin) e i leader dei due paesi sono quelli con cui l'America - piaccia o meno - deve scontrarsi e confrontarsi, rompere e parlare. Putin è stato appena rieletto, altri sei anni al Cremlino. Xi Jinping è un uomo da qui all'eternità, potrà restare in carica finché lo vorrà.
Tra i due, c'è Trump, l'imprevisto della Storia, l'uomo che viaggia in sidecar con il Signor Zeitgeist, lo spirito del tempo.
Il vecchio e nuovo gioco della Russia lo abbiamo visto qualche giorno fa su List. La telefonata tra i due è del 20 marzo scorso, due giorni dopo la vittoria elettorale di Putin. Poi sono arrivate le 60 espulsioni di diplomatici russi legate al caso dell'avvelenamento dell'ex spia russa con il gas nervino nel Regno Unito. La risposta di Mosca è stata speculare, 60 diplomatici americani espulsi. Questo non sarà un ostacolo per un incontro, la diplomazia è piena di passaggi simili. Quando ci sono le crisi, è il momento per vedersi.
Logica e...
Questo numero di List è stato impaginato il 4 aprile 2018.
Imprevedibile. Spiazzante. La macchina a vapore dell'America. Trump. In 24 ore abbiamo un doppio colpo: 1. La Cina risponde alla guerra commerciale con i dazi sulla carne di maiale (e vedrete quanto è importante tutto questo nella storia americana); 2. Il Presidente ha invitato Vladimir Putin a un incontro alla Casa Bianca. Entrambi i fatti sono l'andamento di uno stesso spartito, la vetta e il precipizio di un'opera in fieri. Non ne conosciamo l'esito. Ma siamo di fronte ai tre uomini che rappresentano la contemporaneità: Donald Trump, Xi Jinping, Vladimir Putin. America, Cina, Russia. Gli ultimi due si parlano, la Russia è stata spinta tra le braccia del suo nemico storico (ascolta su RadioList il dialogo tra il titolare e Fabio Squillante sul poker di Putin) e i leader dei due paesi sono quelli con cui l'America - piaccia o meno - deve scontrarsi e confrontarsi, rompere e parlare. Putin è stato appena rieletto, altri sei anni al Cremlino. Xi Jinping è un uomo da qui all'eternità, potrà restare in carica finché lo vorrà.
Tra i due, c'è Trump, l'imprevisto della Storia, l'uomo che viaggia in sidecar con il Signor Zeitgeist, lo spirito del tempo.
Il vecchio e nuovo gioco della Russia lo abbiamo visto qualche giorno fa su List. La telefonata tra i due è del 20 marzo scorso, due giorni dopo la vittoria elettorale di Putin. Poi sono arrivate le 60 espulsioni di diplomatici russi legate al caso dell'avvelenamento dell'ex spia russa con il gas nervino nel Regno Unito. La risposta di Mosca è stata speculare, 60 diplomatici americani espulsi. Questo non sarà un ostacolo per un incontro, la diplomazia è piena di passaggi simili. Quando ci sono le crisi, è il momento per vedersi.
Logica e diplomazia: se devi fare la pace con qualcuno, parli con quello con cui sei in guerra, dunque Putin. Lo stesso Trump aveva detto che nella telefonata con Putin si era discusso di un meeting per parlare "della corsa agli armamenti che sta andando fuori controllo". Si vedranno alla Casa Bianca? Stiamo con il taccuino squadernato, non ci può essere niente di più interessante in agenda.
Intanto il romanzo a due mani della guerra commerciale tra Cina e Stati Uniti ha un altro capitolo: questa volta la penna è quella di Pechino che ha risposto alle sanzioni sull'acciaio e l'alluminio di Washington con una serie di dazi all'esportazione di carne di suino americana e altre otto merci (25 per cento), la frutta (15 per cento) e altri centoventi beni di largo consumo di vario tipo.
Quella di Pechino è una risposta "a specchio", un'azione che il governo cinese considera proporzionata e per il momento non destinata ad essere seguita da un'escalation di misure per frenare l'export americano. Naturalmente, siamo dentro una feroce partita a scacchi che si gioca su più livelli.
America First. Il primo livello è quello americano che ha oltre 375 miliardi di dollari di rosso nella bilancia commerciale con la Cina;
China Global. Il secondo livello è quello cinese che ha un surplus mostruoso nella bilancia commerciale con gli Stati Uniti;
United States vs China. Il terzo livello è quello della supremazia mondiale nei prossimi vent'anni sul piano, economico e militare;
United States - Europe - China. Il quarto livello è quello del vaso di coccio, l'Europa, tra i vasi di ferro, Cina e Stati Uniti:
Deep State vs United States. Il quinto livello è quello dell'apparato governativo, militare e industriale, non sottoposto alla sanzione del voto popolare (per questo definito "irresponsabile"), permanente e immanente nella politica americana.
Corporation America vs White House. Il sesto livello è quello delle multinazionali americane (e non) che si oppongono alla politica dei dazi che fino a ieri hanno delocalizzato il lavoro e custodito parte degli utili all'estero. La riforma fiscale di Trump mira al rientro dei capitali e dell'impresa sul suolo degli Stati Uniti.
La Cina colpisce gli americani nel punto che storicamente per loro è sempre stato delicatissimo: allevamento e agricoltura. Nelle pagine de Le mie prime convinzioni (Adelphi), un libro bellissimo di John Maynard Keynes sulle trattative di pace dopo la Prima guerra mondiale, nel 1919 a Versailles, c'è un passaggio illuminante. Nelle trattative al fianco del Presidente americano Wilson c'era Hoover che aveva un problema. Che problema?
In qualità di sovrintendente alle derrate alimentari, aveva promesso agli agricoltori americani un prezzo minimo per la carne di maiale, causandone la sovrapproduzione, con il conseguente crollo dei prezzi. Il Congresso si era rifiutato di stanziare i fondi necessari per mantenere la promessa.
Alla Casa Bianca quando l'allevatore di maiali manifesta il suo scontento, non dormono più la notte. Come curò l'insonnia Hoover? Così, leggiamo insieme una nota di Keynes inviata al Cancelliere dello Scacchiere:
Gli americani hanno proposto che si riversino sulla Germania i grandi stock di pancetta di bassa qualità in nostro possesso, e li si rimpiazzi con stock più freschi e vendibili. Dal punto di vista alimentare sarebbe chiaramente un buon affare per noi. La situazione è curiosa. (...) A ispirare le sue parole (di Wilson, ndr) sono le abbondanti e costose scorte di maiale, da scaricare a ogni costo su qualcuno, nemici o alleati che siano. I sogni di Hoover pullulano di maiali, ed egli si dichiara pronto a tutto pur di scacciare l'incubo"
La pancetta. Gli americani stavano siglando con gli europei una "pace cartaginese" con la Germania che avrebbe condotto dritti alla Seconda guerra mondiale e loro pensavano alla carne di maiale. Quanto vale il mercato della bistecca in Cina per gli allevatori americani? Una cifretta: 2.5 miliardi di dollari.
Tra le due guerre, Wilson sbolognava la pancetta scarsa ai tedeschi e quella buona agli inglesi. Cento anni dopo quei fatti, Trump e Xi sono in conflitto sulla carne di maiale americana e le colate d'acciao. Questo scambio di dritto e rovescio sul commercio è - parafrasando con la formula di Carl von Clausewitz, una continuazione della guerra con altri mezzi.
Anche questa guerra fa morti e feriti. Chi sono? La middle class dei paesi occidentali che ha perso reddito e lavoro. Non si capisce cosa sta accadendo se non si osserva il grafico dell'elefante, lo ripubblichiamo:
Non è l'allegro disegno del titolare di List che scarabocchia su un foglio immaginando di avere il talento di Salvador Dalì. No, è il problema della contemporaneità, ecco la traduzione:
Tutto chiaro? Alla crescita del reddito nei paesi emergenti, soprattutto la Cina, corrisponde il crollo verticale del reddito della classe media nei paesi sviluppati e - toh, che strano - il decollo esponenziale del reddito dell'élite che - toh, sempre più strano - è anche la classe che sostiene il turbocapitalismo finanziario, la globalizzazione buona per tutti, il cosmopolitismo senza confini, identità, cultura, un consumo di massa dove siamo tutti uguali e soprattutto da queste parti più poveri. Il grafico dell'elefante di Lakner e Milanovic è la chiave per entrare in un mondo dove c'è qualcosa che si è rotto e va riparato prima che sia troppo tardi: il capitalismo.
La risposta di Trump parte dalla condizione dell'americano medio, dal forgotten man, l'uomo dimenticato. Anche in questo caso, il mainstream non aveva visto un fico secco all'orizzonte: Trump stava arrivando, era in marcia da tempo. L'uomo sulla mietitrebbia dell'Ohio, il lattaio del Wisconsin, l'operaio del Michigan, il minatore del Wyoming erano fuori dai radar della stampa elegante delle mille luci di New York e dei palazzi governativi di Washington. Naturalmente, quelli che non avevano visto niente ma giuravano con il sorriso di quelli che la sanno lunga che avrebbe vinto Hillary Clinton, il giorno dopo hanno spiegato urbi et orbi perché aveva vinto Trump. L'effetto è stato a dir poco stupefacente. In un cambio lesto e gattopardesco i fini analisti ci hanno prima detto le ragioni della vittoria (che loro fino a un minuto prima avevano scambiato per il folklore dei bifolchi), poi si sono iscritti subito al partito del Never Trump, l'assicurazione che serve per dare l'impressione di far parte della presunta classe colta che pesa sempre meno (ma controlla il sistema dei mainstream media) e sta per essere travolta dagli strumenti che ha forgiato. Non controlla più l'officina del consenso.
L'uomo sulla mietitrebbia dell'Ohio, il lattaio del Wisconsin, l'operaio in Michigan, il minatore del Wyoming erano fuori dai radar della stampa elegante delle mille luci di New York e dei palazzi governativi di Washington.
Un anno dopo, il partito globale del Never Trump (la cui interpretazione autentica è Never Democracy quando non vince il loro candidato) continua a girare a vuoto. La ragione è semplice: non accetta quello che è accaduto e sta accadendo. Non lo capisce, il voto, quel voto, non fa parte del suo orizzonte. Ha davanti un Grande Slam che si gioca sui campi di periferia, lontano dalle metropoli e dentro il cuore pulsante delle nazioni, ha un tabellone da 6-0 6-0, Brexit, Macron, Trump, Grillo - prenotate i biglietti per il Big Match delle elezioni Europee 2019 - ma crede di stare a palleggiare soavemente sul campo perfettamente rasato del circolo dei suoi pari (ma il Never Trump si sente sempre antropologicamente superiore). Il nevertrupista non si mette mai in discussione. Un anno dopo, Trump è sempre alla Casa Bianca e il fronte comincia a dare segni di stanchezza. Partirono con il dipinto del tiranno - en passant eletto dal popolo americano - e oggi come ha scritto Andrew Sullivan sono passati all'immagine del "guidatore ubriaco abbastanza fortunato da non essere finito fuoristrada, per ora". Come fa notare con perfida ironia Charles R. Kesler sulla Claremont Review Trump è passato "da Mussolini a Ted Kennedy in 18 mesi. Suppongo che sia un progresso". Sempre Kesler fa notare come il Weekly Standard - la rivista dei repubblicani d'establishment dal novembre 2016 in perenne lutto non elaborato - abbia ammesso che i risultati raggiunti da Trump in un anno sono "ragionevolmente impressionanti" salvo poi contraddirsi descrivendolo unfit, inadatto per l'incarico. Sfugge alle élite di ogni latitudine che ciò che è adatto in democrazia lo decide l'elettore e l'alternativa si chiama dittatura e in quel caso a decidere sono le armi. Questo è il punto da difendere in questo passaggio storico: il risultato del voto. È un paradosso vedere chi ne ha fatto la propria ragione sociale - i democratici americani, quelli italiani e gli altri partiti della socialdemocrazia europea - mettere in discussione il principio del suffragio universale.
Sfugge alle élite di ogni latitudine che ciò che è adatto in democrazia lo decide l'elettore e l'alternativa si chiama dittatura e in quel caso a decidere sono le armi.
Non si chiedono come mai tutto questo sia nato durante il loro illuminato regno, usano la parola populismo - di cui non conoscono né le nobili origini né la storia né il presente - per coprire il loro pentolone di errori (leggere questo viaggio nel populismo di tutti e di nessuno su List). Ora scoprono i dazi, che orrore. Fanno finta di non sapere che si tratta di un elemento cardine della politica fiscale americana, fin dalla prima riunione del Congresso. Come abbiamo ricordato mesi fa, Hamilton, nel 1791 scrisse un report sulla manifattura (qui ebook, gratis) e la necessità di proteggerla dall'eccesso di importazioni. Hamilton non era un pericoloso reazionario, né un Homo pre-trumpiano, era semplicemente l'esponente di una scuola di pensiero che ha una sua solidissima tradizione nella cultura politica americana. Hamilton, al contrario di Jefferson, aveva capito che la chiave dello sviluppo sarebbe stata la manifattura e non l'agricoltura. A sua volta Jefferson, non era mosso da chissà quali alti e nobili propositi: temeva che le tariffe favorissero gli industriali del Nord America e danneggiassero gli agricoltori del Sud, suoi elettori. Qualche anno dopo, nel 1816, Jefferson cambiò idea perché nel frattempo l'America si era trasformata in una nazione trainata dalla manifattura. E divenne anch'egli protezionista. Il Congresso degli Stati Uniti approvò i primi dazi nel 1789, tutti i presidenti ne hanno fatto uso (oh yes, perfino Obama) non sono un'invenzione di Trump ma un elemento permanente della politica americana. Non sono né buoni né cattivi, vanno inseriti in un contesto geopolitico e storico.
Hamilton nel 1791 scrisse un report sulla manifattura e la necessità di proteggerla dall'eccesso di importazioni.
Tutto questo il sistema dell'informazione lo sottopone a costante deformazione. Senza un briciolo di senso storico e con il moral bias in testa, prima non hanno visto Trump e il Signor Zeitgeist, lo spirito del tempo, poi dopo aver ingannato il loro pubblico con analisi clamorosamente errate, raccontano questa storia con categorie che sono classificabili alla voce "sprezzo del ridicolo". L'acme si raggiunge all'inizio dell'anno con il vertice del World Economic Forum dove l'Homo Davos dà il meglio di se stesso. Due anni fa applaudirono il presidente cinese Xi Jinping - un tipetto che si è appena dato il potere di stare al governo a vita - come il campione del capitalismo e del libero mercato, poi si sono ritrovati in fila per andare ad ascoltare Trump e per soprammercato applaudirlo mentre lui diceva una cosa da capitalista senza la cantina a Napa Valley ma con in testa la manifattura e l'operaio americano: "Now America is open for business". Traduzione: cari delocalizzatori, infelpati con i miliardi nel paradiso fiscale, abbiamo creato le condizioni per riportare l'impresa e il lavoro in America, ricordatevi che quella libertà di cui godete è conquistata e protetta tutti i giorni grazie all'esercito di quella democrazia che voi tanto disprezzate.
L'Homo Davos applaudì Xi Jinping come se fosse di fronte a un liberale, poi si trovò di fronte Trump che disse una cosa da capitalista: "Now America is open for business".
Oltre un anno dopo il voto, piaccia o meno, Trump fa Trump e i Never Trump non sanno ancora che fare. All'inizio del 2017, subito dopo l'Inauration Day, il titolare di List scrisse un articolo per accorciare la distanza tra il fatto e il racconto che veniva impaginato dal mainstream già in piena fase Never Trump. Erano già svanite le previsioni degli economisti à la page che prevedevano la catastrofe nucleare per Wall Street, la fine dell'economia americana e soprattutto del neo eletto Presidente che presto avrebbe lasciato il campo per l'inesorabile ribellione di tutti gli elementi naturali e soprannaturali. Non è il caso di snocciolare i numeri e i fatti, l'economia americana ha macinato tutti i record, Trump alla fine dell'anno scorso ha portato a casa la più grande rivoluzione fiscale dai tempi di Ronald Reagan. Un anno fa, era già tutto chiaro. Buona lettura.
L'inizio di un'altra storia americana
La storia è iniziata come doveva iniziare: Trump ha cambiato discorso, tono, passo, intensità e direzione di marcia della politica americana. Il candidato Trump è il presidente Trump. I democratici, le anime belle progressiste e i conservatori da salotto preparino la scorta di fazzoletti, nei prossimi quattro anni The Donald darà loro molte occasioni per mostrarsi affranti durante i cocktail in terrazza. Never Trump? Che illusione.
Lo spettacolo di Washington è stato unico: un presidente che parla alla nazione, America First, avvisa il mondo che è finito un mondo e si prepara a guidarlo con un’altra visione. Pensavano, i benpensanti, che il costruttore di Manhattan durante la campagna elettorale non facesse sul serio. Sono gli stessi che non avevano visto l’ascesa di Trump, che la obliteravano in corpore praesenti (di Hillary) e subito dopo la sua vittoria hanno cominciato a spiegare al mondo perché aveva vinto Trump. Ancora una volta non hanno capito cosa è successo, cosa sta succedendo e cosa succederà. La rivoluzione di Trump non è un castello di carta, non è costruita su quello che raccontano i giornali e le televisioni – sempre più irrilevanti, per colpa dei giornalisti in carrozza – non è edificata su un gruppo di potere, è la scalata di un outsider della politica americana. Trump era quello che non doveva vincere, era lo scherzo della cronaca che non poteva farsi storia. E invece… il giorno, quel giorno, è arrivato. Trump squaderna a Capitol Hill un discorso definito “infausto” dagli storici (che com’è noto guardano indietro e non avanti), inquietante per il resto del mondo (santi numi, ci tocca andare a morire per la nostra sicurezza?) perfetto per il popolo, fin troppo atteso dall’americano medio.
Si potrebbe dire che non c’è niente di nuovo, basterebbe leggere Il Serpente e la Colomba di Walter Russell Mead per scoprire che siamo di fronte all’avanzata e alla ritirata dell’America nel farsi e disfarsi ciclico della storia. Tutto posa su quattro pilastri della politica estera (e interna) degli Stati Uniti: Hamilton, Wilson, Jefferson e Jackson. Che cosa è (e sarà) Trump? Un negoziatore come lui è naturalmente iscritto al club jacksoniano:
Sospettosi nei riguardi di un potere federale illimitato, scettici sulle proposte buoniste in politica interna ed estera (welfare in patria e aiuti all’estero), contrari alle tasse federali ma ostinatamente favorevoli ai programmi federali che costituiscono un aiuto alla classe media (previdenza sociale, assistenza medica, sussidi per gli interessi ipotecari), i jacksoniani sono oggetto di un ampio interesse politico” (…) considerano il Secondo emendamento e il diritto di portare armi come le vere fortezze della libertà” (…) il loro pensiero è poco noto anche perché affonda le radici in quella porzione di popolazione meno rappresentata nei media e nell’ambiente accademico. L’America jacksoniana è una comunità popolare dotata di un forte senso dei valori e di un destino comuni, che periodicamente è stata guidata da uomini intellettualmente brillanti come lo stesso Jackson. Non rappresenta un’ideologia, né tanto meno un movimento di autocoscienza dotato di una direzione storica o di un tavolo organizzativo politico”
Il Serpente e la Colomba, Walter Russell Mead, Garzanti.
Questo sarebbe già sufficiente a inquadrare l’uomo nuovo della Casa Bianca, ma nel caso di The Donald c’è qualcosa che rischia di far decollare la sua parabola oltre queste pur illuminanti definizioni: la singolarità e accelerazione della contemporaneità. La singolarità è l’evoluzione scientifica, del sapere e in particolare della tecnologia che, paradossalmente, alla potenza di calcolo e al raggiungimento di un’intelligenza artificiale sempre più raffinata – fino ad arrivare un giorno alla superhuman intelligence – rende i modelli di previsione del futuro sempre meno affidabili nella “misurazione” dell’impatto dell’innovazione e “mappatura” della direzione del cambiamento innescato. Cresce la probabilità e l’intensità delle conseguenze inattese. L’accelerazione è una dimensione della contemporaneità che avvolge l’esistenza del singolo nella quotidianità, è l’uomo proiettato (e avviluppato) nelle reti, la prevalenza della macchina nell’azione (e reazione) che spinge a decisioni spesso indipendenti dalla propria volontà, verso esiti inattesi e comportamenti che sono vere e proprie deviazioni emozionali. La letteratura sui due temi è ampia, qui ricordo il saggio di Vernor Vinge sulla Singolarità e il libro di Hartmut Rosa intitolato Social Acceleration.
Trump è il presidente del mondo connesso (e disconnesso), un dominio su cinque dimensioni: terra, mare, aria, spazio e reti di trasmissione. Lo shock in ciascuno di questi territori non è mai indipendente. Il passato aveva un tempo di reazione lento e isolato, il presente è tachicardico, un treno ad alta velocità che sfiora altri convogli. È in questa stazione di ferro e acciaio, cavi e big data, satelliti e strette di mano, scannerizzazioni e occhiate d’intesa, tra frenetici arrivi e partenze, arrivederci e addii, che improvvisamente compare la strana locomotiva a vapore di Trump.
Il Novecento ritorna e finisce con lui. Ritornano parole antiche dell’altro secolo (“lavoro”, “fabbrica”, “operaio”, “salario”), scompaiono le illusioni dell’automazione e le magnifiche sorti dell’utopia psichedelica californiana il cui esito è un totalitarismo digitale, tramonta la crescita del fatturato senza salario e dignità ma con il piano di stock option preparato dal venture capital, viene svelata la realtà del mito dello startupper obamiano, il garage come laboratorio del talento è spento dal telecomando della trimestrale al Nasdaq e dal pendolarismo dell’individuo in co-working con il materasso portatile.
Sul treno del presidente atipico viaggiano i Trumpennials, vagoni carichi di una moltitudine informe, senza volto, senza nome, il consumatore del marketing, l’esubero delle ristrutturazioni aziendali, il delocalizzato dalla globalizzazione, una figura tremolante che assume le sembianze di un’antica figura della politica americana: l’uomo dimenticato.
Obama promise il “change”, Trump ha cominciato a farlo fin dal discorso inaugurale. Il primo non è altro che l’anticipazione del secondo, la prosecuzione di una storia di dissoluzione della tradizione politica americana. La crisi finanziaria del 2007-2008 non è stata un fatto di banca e macroeconomia, conto corrente e impresa fallita, è la fine di un’era che si è consumata in uno stop and go durato un decennio. Trump ne è l’epilogo e il nuovo inizio. I sondaggi erano con Clinton, la storia era con Trump. È un’avventura cominciata nella crisi della fabbrica americana, nell’ascesa esponenziale dell’export della Cina verso gli Stati Uniti:
Fuga delle aziende e trasferimento della produzione (e della cassa) dove l’individuo spesso è privato della sua dignità, crescita della produzione senza creazione di posti sufficienti, ingresso in una dimensione finanziaria in cui viene smarrita improvvisamente la cosa più importante: l’uomo.
E l’uomo ha votato. E continuerà a farlo nei prossimi mesi anche in Europa, un continente che dopo l’arrivo di Trump alla Casa Bianca è ancor più sperduto nello spazio della contemporaneità, vecchio, immobile, imbelle. Il 20 gennaio durante la diretta dell’Inauguration Day, trasmessa da La7 nello speciale tv condotto da Enrico Mentana, mentre Trump scagliava il suo colpo di fionda da Capitol Hill al resto del mondo, sono rimasti segnati sul taccuino alcuni passaggi chiave. Eccoli, una nuvola di parole sparse sui fogli : “ricostruire il paese”, “fiducia”, “America e mondo”, “solidarietà”, “get the job done”, “non è un trasferimento di potere”, “da Washington passa a voi”, “establishment”, “Washington è finita”, “posti di lavoro”, “establishment si è autotutelato”, “i loro trionfi non erano i vostri”, “a cominciare da ora tutto cambierà”, “è il vostro paese”, “nessuno sarà più dimenticato”, “fabbriche arrugginite”, “questo massacro americano finisce qui e ora”, “abbiamo aiutato gli altri”, “non abbiamo difeso i nostri confini”, “da questo giorno una nuova visione”, “America First”, “cominceremo di nuovo a vincere”, “buy american, hire american”, “non dobbiamo temere nulla”, “siamo protetti da Dio”, “il tempo della retorica è finito”, “è giunto il momento dell’azione”, “Make America Great Again”. Serve altro?
È il racconto di un’altra via d’uscita (o entrata), quella che non era stata prevista dall’ingegnerizzazione della politica, la deviazione improvvisa dell’algoritmo, un universo parallelo, una porta che sbatte, spalancata da quello che non ti aspetti, dalla strana sagoma che svela un pianeta popolato da umani fino a quel momento esclusi dal racconto ufficiale del progresso. Sorpresa, la carne da cannone della contemporaneità comincia a… pensare. Da quel momento parte una storia alternativa. L’ucronia diventa realtà. Il nessun tempo diventa presente e il nessun luogo dell’utopia diventa il palcoscenico della superpotenza, gli Stati Uniti. Trump!
Sorpresa, la carne da cannone della contemporaneità comincia a… pensare. Da quel momento parte una storia alternativa. L’ucronia diventa realtà.
Il discorso di Trump segna la distanza siderale tra due mondi. Dov’è l’altro? E’ riunito a Davos, nelle soffici nevi della Svizzera. Mentre Trump diventa presidente, l’élite riunita al World Economic Forum discute amabilmente del futuro con il pilota di Formula 1 Nico Rosberg, è il segno che hanno davvero le ruote sgonfie. In programma ci sono elettrizzanti discussioni sul futuro dell’Europa (qualcosa che non avevamo mai sentito); non mancano le sortite sulla globalizzazione e il multiculturalismo; il mondo è tutto un gioco senza frontiere e la fine dei muri viene decretata in pompa magna, proprio nell’istante in cui dal palcoscenico stellare di Davos il cancelliere dello scacchiere Philip Hammond accusa Tony Blair di averle aperte troppo, le frontiere, creando le premesse per la Brexit. I due momenti migliori della giornata arrivano da una donna che fu primo ministro e un anziano signore della diplomazia: Helle Thorning-Schmidt, ex capo del governo danese, oggi numero uno di Save The Children, svela il suo personale momento di smarrimento quando ha visto il presidente cinese Xi Jinping esaltare la globalizzazione: “Ho capito di essere stata testimone di una settimana in cui il mondo si è capovolto”; Henry Kissinger sembra l’unico che – all’età di 93 anni – ha qualche idea sul futuro delle relazioni internazionali, spiega che dopo “il ritiro di Obama” Trump ha la possibilità di costruire un nuovo ordine mondiale. Chiusura con il concerto delle donne afghane dell’orchestra Zohra, Kabul. Scroscio di applausi dell’Homo Davos colto da un eccezionale momento di commozione. Cerebrale.
Non imparano mai. Avrebbero dovuto essere tutti là, sulla spianata, tra il Congresso e il Washington Monument, per ascoltare con attenzione cosa stava dicendo Trump, respirare il clima, farsi almeno una vaga idea di cosa si agita nello spirito contemporaneo, quella cosa che la lingua tedesca identifica con una parola magica, Zeitgeist, lo spirito dei tempi, che non a caso si trova nel Faust di Goethe:
WAGNER
Perdonate! È un grandissimo diletto
entrare nello spirito dei tempi,
ripensare a quei savi che ci hanno preceduto,
poi agli alti progressi che noi abbiam compiuto.
FAUST
Sì, alti come stelle!
Per noi, amico, i tempi del passato
sono un volume con sette sigilli.
Quel che chiamate spirito dei tempi
è in sostanza lo spirito degli uomini
nei quali i tempi si rispecchiano.
E questo è spesso così meschino!
Al primo sguardo si scappa via:
solo immondizia e vecchia roba inutile,
o tutt’al più tragedie di duci e paladini
infarcite di massime di vita
che stanno bene in bocca ai burattini!
Trump è questo, la materializzazione dello spirito del tempo, il punto dal quale partire per provare a leggere il presente. Non è un incidente, una carambola sul biliardo, un fuori pista a Davos, oh che sbadati. Trump è il tiro di precisione del cecchino chiamato storia. Il suo discorso di Capitol Hill è un manifesto populista perché queste sono le parole che corrono nelle case abitate dal popolo, così diverse da quelle raffinate dei noveaux philosophes con la pancia sempre piena, quelli che criticano i consumi con veemenza, rigorosamente dopo aver consumato. Non vi piace? È uno spettacolo da oh mamma mia sono arrivati i barbari? La storia non è elegante, il suo registro stilistico è quello del verismo verghiano, in ogni sua parola traspira la realtà, non si cura del piacer mio, nostro o vostro. Certo, poi c’è la fiction.
Il discorso di Trump a Capitol Hill è un manifesto populista perché queste sono le parole che corrono nelle case abitate dal popolo, così diverse da quelle raffinate dei noveaux philosophes con la pancia sempre piena.
Eccola, nel suo splendore. L’internazionalismo confuso di Obama ha condotto ai peggiori scenari in Medio Oriente e nel Mediterraneo, spianando la strada a Vladimir Putin, questo fallimento è stato catalogato dal mainstream non come una precipitosa (e disastrosa) ritirata americana, ma come una raffinata strategia per diffondere la democrazia attraverso “il dialogo”. Con i tagliatori di teste. Il discorso del Cairo. La red line sulla Siria. La fuga dall’Iraq. I risultati sono sotto gli occhi di tutti: la Russia è la forza in espansione nel Medio Oriente (è presente perfino in Libia e appoggia il generale Haftar, contro il governo onusiano di Serraj), l’Iran ne è il dominus, il Nord Africa è diventato la Hollywood del terrorismo. Dopo l’avventura post-americana di Obama – ecco le idee esposte da Kissinger a Davos – Trump con la sua visione nazionalista è un punto da cui partire per ricostruire la politica estera americana e dare all’Europa – ammesso che sopravviva ai prossimi turni elettorali in Olanda, Francia e Germania – una prospettiva di confederazione e non di vuoto politico con la moneta intorno.
L’internazionalismo confuso di Obama ha condotto ai peggiori scenari in Medio Oriente e nel Mediterraneo, spianando la strada a Vladimir Putin.
Lo shock in Europa è racchiuso in un visibile silenzio, nel palpabile tremolìo delle labbra dei leader che si ritrovano senza salvagente mentre il mare è in tempesta. Angela Merkel, unico statista tra le figure pallide del Vecchio Continente, usa toni concilianti, ma il segno dell’impatto lasciato da Trump è stampato a fuoco dall’edizione globale di Handelsblatt, il più importante giornale economico della Germania. Il direttore Gabor Steingart nella sua newsletter del mattino scrive: “Quello di Trump non è un discorso, è una dichiarazione di guerra”. È la reazione isterica delle presunte classi colte, il colpo di frusta del domatore senza i leoni intorno. Se è guerra, cari amici di Berlino, allora il film all’indietro va rivisto tutto, fotogramma dopo fotogramma, pixel dopo pixel, dovreste averne sufficiente memoria. E in quel film voi eravate dalla parte sbagliata. Gli Stati Uniti e l’isola d’Inghilterra erano dalla parte giusta. Giocare con le parole ha delle conseguenze, soprattutto quando sulla lingua batte l’accento e la storia della Germania. Non sono eventi così lontani come pensate. E allora, se è guerra, come scrivete, la pellicola si riavvolge fino al punto in cui ecco riarmarsi l’alleanza di sempre, quella degli Stati Uniti d’America e del Regno Unito. Theresa May venerdì sarà a Washington (e presto in Cina). La Brexit avrà la sua exit dove tutto è cominciato con i primi coloni, in Virginia. La Casa Bianca e Downing Street hanno riaperto il libro della relazione speciale che Obama aveva chiuso pensando al Pacifico. Torna l’Anglosfera.
Se è guerra, cari amici di Berlino, allora il film all’indietro va rivisto tutto, fotogramma dopo fotogramma. E in quel film voi eravate dalla parte sbagliata.
Che frase temeraria, sventata, evocare il conflitto, proprio voi, con l’America. Non è più un gioco tipografico, non c’è niente su cui sorridere, perché le parole ne richiamano altre, si fanno storia. La Germania resuscitata dagli orrori della Seconda guerra mondiale (danke, Herr Roosevelt, danke, Herr Truman), strappata alla dittatura dell’Unione Sovietica e riunificata (danke, Herr Reagan), dovrebbe usare con prudenza quella parola breve, secca, fulminante, krieg, guerra. Le parole conducono a esiti imprevedibili e aprono domande su chi le pronuncia, sul passato e anche su un presente dove chi punta l’indice non vede arrivare alle spalle la diligenza carica del rancore del suo nazionalismo, sono le Valchirie al galoppo. La libertà non è un pasto gratis, la vostra è stata pagata a caro prezzo. Sono andati a morire per tutti, gli americani. Per noi e per voi. Bianchi, neri, indiani, fatti a pezzi dalle mitragliatrici tedesche sulla spiaggia durante lo sbarco in Normandia, saltati sulle mine in Francia, uccisi dai cecchini in Germania. La guerra, come si può scrivere quella parola e non sentirne sulle spalle il peso ciclopico, udire ancora il suono sordo dei tamburi, sentire le grida strazianti dei figli d’America che perdevano le gambe, le braccia, la vita. Un fiume di sangue.
La guerra. Settantotto anni fa, per la storia un battito di ciglia, ieri. Tra il settembre del 1939 e l’agosto del 1945 morirono in media 27 mila persone al giorno. La guerra. Gli americani perdevano cinque soldati ogni mille sul campo, 17 mila persero gli arti, centomila in patria furono mutilati nelle fabbriche mentre lavoravano alla preparazione delle macchine da guerra per fermare la guerra (leggere All Hell Let Loose, Max Hastings). Secondo il Congressional Research Service furono oltre 291 mila gli americani caduti in battaglia durante la Seconda guerra mondiale. Trump non è una pagina del presente che concede a voi di usare con leggerezza quella parola, guerra, con l’America. Abbiate memoria, decenza, onestà.
È tutto molto chiaro: Washington ha pigiato il tasto reset, Space Invaders è disattivato, America First. È una politica, non un’invasione dello spazio vitale di un altro paese. Questa politica attende una risposta, non l’isteria di massa e il pregiudizio delle classi intelligenti a prescindere.
Il clima intorno a Trump non poteva essere altro che questo, alimentato da un pregiudizio morale senza confini, condotto all’eccesso in una spasmodica campagna per far deragliare il voto ieri e la presidenza oggi. Trump non poteva offrire ai suoi avversari nessun ramoscello d’ulivo. Non sarebbe servito a niente. Se il tuo avversario non accetta il gioco democratico, ti dipinge come un usurpatore, ogni tentativo di riconciliazione è destinato solo ad alimentarne il rancore, lo sguardo torvo non si abbassa, continua a prevalere la dimensione in cui c’è spazio per un solo disegno: il rovesciamento del risultato elettorale con altri mezzi. Hanno cercato poco prima l’Inauguration Day di disarcionare Trump, l’establishment repubblicano e democratico si è ritrovato unito da una pulsione distruttiva, tra le primarie e la campagna presidenziale è stato confezionato un falso dossier su di lui. E lo hanno perfino pubblicato, con l’avvertenza che si trattava di un documento pieno di errori, non verificato e non verificabile, scrivendo così una pagina nera del giornalismo americano. Bob Woodward, inviato del Washington Post, autore dello scoop sullo scandalo Watergate, l’ha definito “spazzatura” e ha invitato i capi dell’intelligence americana a “scusarsi” con Trump. È una delle rare voci che ha difeso Trump in questa inquietante vicenda tentacolare, da governo-ombra. Le scuse pubbliche non sono arrivate, perché ieri c’era il tentativo di far deragliare la corsa di Trump durante le primarie e nella campagna presidenziale, oggi c’è il rally sfrenato della delegittimazione del presidente in carica, l’attacco all’Electoral College dei Padri Fondatori, uno sfregio sulla grandiosa opera di Alexander Hamilton e James Madison, l’idea tossica che l’elezione presidenziale sia stata truccata dagli hacker di Vladimir Putin. Dalla Russia con amore, la commedia è finita. Hanno perso.
Il dossier falso. Bob Woodward autore dello scoop sullo scandalo Watergate, l’ha definito “spazzatura” e ha invitato i capi dell’intelligence americana a “scusarsi” con Trump.
Le manifestazioni in piazza sono solo il (pen)ultimo disperato tentativo di sovvertire l’esito del voto, trasformare l’elezione in un happening permanente scandito dagli slogan di Madonna e Michael Moore. I media sono in campo, non al di là della trincea, siamo ben oltre il bias. Le cose con la stampa (per ora) sono destinate a peggiorare perché il mainstream ha perso in un colpo solo la rassicurante presenza dei Clintons e degli Obamas – tutti iscritti allo stesso club – e quando un’amministrazione si sente accerchiata, risponde alzando il ponte levatoio, allagando il fossato e liberando i coccodrilli. E perdendo anche quella concentrazione che Trump dovrebbe mantenere proprio nel momento chiave della sua avventura alla Casa Bianca: i primi cento giorni di presidenza. È una battaglia pericolosa per la democrazia americana, perché mina le fondamenta dello Stato. Lo sanno, ma contro Trump vale tutto, anche una strisciante guerra civile.
I media sono in campo, non al di là della trincea, siamo ben oltre il bias. Il mainstream ha perso in un colpo solo la rassicurante presenza dei Clintons e degli Obamas.
Ecco perché Trump resta un outsider, non può essere altro. La sua presidenza nasce con questo segno e continuerà ad esserlo fino alla fine, prematura o no. La sfida vera non sarà mai quella di riportare sulla terra i resti del Partito democratico, ma quella di far convivere un Presidente sopra le righe come Trump con gli eletti (in tutti i sensi) del Partito Repubblicano. The Donald non è né repubblicano né democratico, è un unicum della storia politica americana. I repubblicani sono stati salvati da Trump, non sono agli ordini di Trump, ma sanno che senza Trump sono granelli di polvere trasportati dal vento. Questa è la coalizione da inventare. Vedremo presto cosa accadrà al Congresso e quanto Trump saprà restare distante dal lancio di granate mediatiche a cui sarà sottoposto ogni giorno. Per ora siamo all’inizio di un racconto che ha già cambiato il volto del Paese. Non c’è mai stata un’America unita, non c’è mai stata un’America così divisa in tempo di pace.
Vedremo presto cosa accadrà al Congresso e quanto Trump saprà restare distante dal lancio di granate mediatiche a cui sarà sottoposto ogni giorno.
Il ruolo di Obama in questa storia è stato quello di una sfinge parlante. Il suo second term è stato immobile, negli ultimi giorni di presidenza ha cercato come una furia di piazzare una serie di norme per rendere più difficile la partenza dell’amministrazione Trump. Un’uscita di scena segnata dalla rabbia e dal rancore. La sua eredità è stata dilapidata in un indecisionismo pronto a niente.
Quella di Obama fu la scelta del popolo travolto e smarrito nella crisi di Wall Street del 2007, le sue promesse poggiavano sulla parola “Hope” e “Change”, speranza e cambiamento, ma la sua cifra reale era quella – ecco il punto di contatto con Trump – di un elemento estraneo al Partito democratico dominato dal clan dei Clinton. E infatti, dopo due mandati, sono stati i Clinton a guidare la corsa alla Casa Bianca, quell’establishment su cui i titoli di coda avrebbero dovuto scorrere otto anni prima. E’ stato l’errore di Obama, non regolare i conti con il suo partito, archiviare Bill e Hillary. L’istrionico Bill Maher, presentatore televisivo di grande talento (e fede democratica), interrogato sui Clinton ha emesso un verdetto che in filigrana è carico di disprezzo e rabbia: “Li ringrazio per i loro trent’anni al servizio del paese, ora non voglio vederli mai più”. La sconfitta democratica del 2016 nasce così: Barack fa il beau geste (non c’era niente di tenero, calcolava solo di limitare i danni, che invece sono puntualmente arrivati), Hillary va al dipartimento di Stato e compra il biglietto per correre al tramonto dell’era Obama. Ma quel biglietto era già scaduto, lo spettacolo stava traslocando da un’altra parte, sotto la cenere della società americana c’erano i carboni ardenti dei Trumpennials.
Quella di Obama fu la scelta del popolo travolto e smarrito nella crisi di Wall Street del 2007, le sue promesse poggiavano sulla parola “Hope” e “Change”.
Lo stesso copione “continuista” fu scritto nel partito repubblicano: la nascita del movimento dei Tea Party non era l’episodio di una sit-com con Joe The Plumber che fa comizi, era il distacco di un gigantesco iceberg dalla base elettorale del vecchio Gop, la cui reazione fu quella di candidare prima John McCain e poi Mitt Romney, due onesti perdenti. Otto anni dopo, nel limbo fantasy del second-term obamiano, in perenne modalità “programma in manutenzione”, sono arrivati Bernie Sanders e Donald Trump. La campagna del primo è stata minata dallo stesso Partito democratico controllato dai Clinton, quella del secondo ha travolto tutti, perché gli avversari di Trump erano asincroni rispetto alla storia, non avevano capito niente di quello che stava accadendo là fuori. Nessuno era in anticipo, tutti erano in ritardo e con le pile scariche. Trump ha liquidato le resistenze del suo partito e due grandi famiglie della politica americana: i Clinton e i Bush. Chi si ricorda più di Jeb, il buono dei Bush, quello che piaceva alla stampa americana perché destinato ad essere un educato perdente di successo? Nessuno.
Trump ha liquidato le resistenze del suo partito e due grandi famiglie della politica americana: i Clinton e i Bush.
Obama e Trump hanno demolito le fondamenta del Partito democratico e del Partito repubblicano. Barack e Donald, la risposta a uno smarrimento che dura da un decennio. Il primo presidente nero della storia per i Democratici, il primo presidente senza partito per il Gop. Un presidente alieno all’establishment, ma in totale sintonia con i suoi elettori. La forza di Trump è quella “sintonia”, la debolezza di Trump è in quel “senza”, un vuoto da riempire alla svelta nella pratica di governo e nella delega ai suoi ministri e consiglieri alla Casa Bianca. È una partita delicatissima, per ora Trump la sta vincendo (John McCain e Lindsay Graham hanno dato il via libera alla nomina di Rex Tillerson al Dipartimento di Stato e questo è un segnale chiaro di tregua) ma le botole sulla strada del nuovo Presidente si apriranno e chiuderanno più volte. E siccome l’istinto suicida è diffuso, sulle leve ci saranno anche le impronte digitali di alcuni deputati e senatori del suo partito.
Obama e Trump hanno demolito le fondamenta del Partito democratico e del Partito repubblicano. Barack e Donald, la risposta a uno smarrimento che dura da un decennio.
No way, il candidato Trump è il presidente Trump. Nel suo discorso inaugurale c’è l’inconfondibile segno della mano di Steve Bannon, l’inventore della sua campagna elettorale “nativa”, ora chief strategist alla Casa Bianca.
Il richiamo del suo discorso al “Forgotten Man”, l’uomo dimenticato, è l’eco di un memorabile intervento di Franklin Delano Roosevelt, campagna elettorale del 1932, Albany, intervento alla radio:
Questi tempi infelici richiedono la costruzione di piani che si basano sul dimenticato, sui disorganizzati ma indispensabili elementi del potere economico, piani come quelli del 1917, costruiti dal basso verso l’alto e non dall’alto verso il basso, che ripongano la propria fede ancora una volta nell’uomo dimenticato alla base della piramide economica.
Roosevelt vinse le elezioni. L’uomo dimenticato è un “luogo” della storia politica americana. Erano gli anni della Grande Depressione, FDR si impegnò a costruire il New Deal, il discorso di Trump ne riprende la metafora, mette l’uomo dimenticato al centro della sua “azione” e non della “retorica” (ne hanno avuto a tonnellate con Obama), promette lavoro, grandi opere pubbliche, il remake di una nazione divisa che deve ritrovare il suo senso della storia. Il jacksoniano Trump.
Il Tweeter in Chief non è FDR ma ha il tratto istrionico dell’inventore dei Fireside Chat, i discorsi del caminetto, gli interventi radiofonici di Roosevelt. Il termine fu coniato da Harry Butcher, giornalista della Cbs, nel 1933, entrò subito nel linguaggio politico dell’epoca ed è arrivato fino ai giorni nostri. Scrive Stephen Graubard in The Presidents:
Roosevelt era partito senza fissare principi economici e niente che si potesse chiamare una piena e articolata dottrina sociale, ma egli sapeva quello che suo cugino (Theodore Roosevelt, 26° presidente degli Stati Uniti, repubblicano) gli aveva insegnato: che i banchieri possono essere irresponsabili e che il governo federale esiste per salvaguardare il benessere di milioni di persone spesso ignorate o sfruttate dai politici.
Vi ricorda qualcosa? La storia d’America è una continua riscoperta di temi e luoghi, si chiama immaginario e si forgia nel laboratorio della storia.
Il fiume carsico della grande letteratura americana aiuta a capire cosa si agita nello spirito umano, riannodare i fili, scoprire il cortocircuito della contemporaneità guardando al passato, ecco nel buio le parole fosforescenti di John Steinbeck, siamo nel 1939, Furore:
Le strade pullulavano di gente assettata di lavoro, pronta a tutto per il lavoro. E le imprese e le banche stavano scavandosi la fosse con le loro stesse mani, ma non se ne rendevano conto. I campi erano fecondi, e i contadini vagavano affamati sulle strade. I granai erano pieni, e i figli dei poveri crescevano rachitici, con il corpo cosparso di pustole di pellagra. Le grosse imprese non capivano che il confine tra fame e rabbia è un confine sottile. E i soldi che servivano per le paghe servivano per fucili e gas, per spie e liste nere, per addestrare e reprimere. Sulle grandi arterie gli uomini sciamavano come formiche, in cerca di lavoro, in cerca di cibo. E la rabbia cominciò a fermentare.
La rabbia. Fermentare. Dimenticare la lezione del Ventinove. E liquidare la crisi del 2007-2008 come un incidente di percorso, un incendio spento, un crash senza più tracce visibili sul sentiero, un lieve tamponamento della storia, una sverniciata sulla carrozzeria della limousine. Prosegua, chauffeur.
Passato, futuro. È sempre la letteratura a anticipare gli scenari, renderli vivi e eterni, un memento. La società americana è intrappolata tra le pagine di Furore il capolavoro di John Steinbeck e The Mandibles un romanzo sgorgato qualche mese fa dalla penna di Lionel Shriver. Nel primo c’è la Grande Depressione, la povertà di massa e la disperazione degli ultimi, nel secondo la distopia del fallimento dell’economia americana, la fine del potere del dollaro, il falò delle fortune familiari (e delle vanità, per riprendere il titolo di un grande libro di Tom Wolfe), l’America non più America, ma un altro luogo in un tempo figlio di un cortocircuito mai riparato. La casa America abbattuta, il castello di carta della banca, il dolore pulsante che emerge come un’ondata fin dalle prime righe di Sunset Park, il libro di Paul Auster comincia con la descrizione del lavoro di un operaio che va a ripulire le case lasciate dalle famiglie fallite durante la crisi finanziaria. “Abandoned things”, cose abbandonate, metafisici ossi di seppia sulla spiaggia, uomini, donne, bambini, vite intraviste negli oggetti rimasti in abitazioni che sanno di muffa, storia appassita, delusione e rabbia per l’appuntamento mancato con l’happy end.
Basta ripercorrere la campagna presidenziale del 2016 per scoprire che in queste pagine vi sono echi di un clima del passato e proiezioni del futuro. Quello che appare chiaro è che tutta la narrativa in progress è finita e con essa anche un lungo periodo storico che aveva accelerato la globalizzazione, culminata con l’ingresso della Cina nel WTO ed è finito per implodere in maniera spettacolare con la crisi finanziaria. Crash… Trump!
Il protezionismo e l’isolazionismo di Trump – ha cominciato subito a suonare il tema alla Casa Bianca – non nascono da una sbronza collettiva del popolo americano, ma dalla delusione del fallimento, il crollo di una speranza. Il sonnambulismo obamiano in politica estera ha completato l’opera in fieri, convinto di combattere una nuova Guerra Fredda con la Russia, incapace di leggere in profondità la crisi della manifattura americana, un leader immerso in un second term fuori tempo, ha mancato l’appuntamento con la storia proprio nell’ultimo miglio della sua presidenza, quando il problema si era spostato dal containment al container.
È Wall Street il termometro da osservare con attenzione. La Borsa americana dall’Election Day a oggi ha messo a segno una serie di guadagni che ha un solo precedente migliore di quello di Trump, Kennedy all’inizio degli anni Sessanta:
Come scrive John Authers sul Financial Times, l’indice S&P 500 nell’Inauguration Day ha fermato la sua corsa su un numero che per quel giorno che non si vedeva dal giuramento di Eisenhower nel 1953. Sono tutti segnali positivi, ma il mercato è solo un pezzo – fondamentale – della scacchiera di Trump. Andrà bene? Non lo sappiamo. Trump corre in una terra sconosciuta, il mercato farà up and down ogni volta che prenderà una una decisione. Al suo terzo giorno alla Casa Bianca ha già annunciato il no – e firmato un ordine esecutivo – al trattato di libero scambio con l’Asia, la visita di Theresa May a Washington prelude un nuovo patto commerciale con il Regno Unito, il Nafta sarà certamente riscritto. Fa quello che ha detto, il suo programma elettorale era quello e quello sarà con tutte le varianti possibili, ma alla fine quello, non altro. Il suo mandato è chiaro e la sua orchestra non può suonare uno spartito diverso. Si vedrà con il tempo – senza il parossismo degli anti e le certezze alla dinamite dei fan – se il concerto farà il tutto esaurito o riceverà fischi. È un rischio che gli americani hanno scelto di correre. Il gruppo che ha preceduto Trump non piaceva più. Avanti un altro, musica maestro!
Il ripudio dell’establishment da parte di Trump è la sua forza primaria, senza quello non sarebbe mai nato e senza i clamorosi errori dell’élite – “the American carnage” – non avrebbe mai vinto. Il mondo guarda smarrito a Washington e la cosa in sé fa sorridere per la cieca alterigia con cui è stato trattato finora il fenomeno Trump. Come se la realtà fosse tra le abitazioni del municipio di Westminster e Belgravia, down town a New York, la skyline di San Francisco, la terrazza in centro a Roma, il week end a Gstaad e un giro di champagne a Saint-Germain-des-Prés. Cheers, là fuori c’è ben altro. E ruggisce.
È la tigre cantata da William Blake, l’artiglio perfetto forgiato da quella che il gigante della letteratura inglese chiamava non a caso experience:
Tigre! Tigre! Divampante fulgore / Nelle foreste della notte, / Quale fu l’immortale mano o l’occhio / Ch’ebbe la forza di formare la tua agghiacciante simmetria?
Sappiamo chi è la tigre. Chi sarà l’agnello?
***
È passato più di un anno, il tempo ha forse consumato queste righe? Guardate i risultati elettorali in Europa, la curvatura impressa dalla Casa Bianca allo spazio geopolitico, la durezza del confronto con la Cina (e la Russia, il paese che avrebbe dovuto fare il cavallo di troia grazie a Trump), lo staff presidenziale è mutato: sono usciti Steve Bannon e Rex Tillerson, il capo di gabinetto è il generale Kelly (e vedremo se sopravviverà a The Donald), al Pentagono Jim Mattis ha i suoi grattacapi con la Corea del Nord, la Siria, l'Iran, il Russiagate è là, appeso a una guerra d'intelligence mentre l'influenza di Mosca e l'abilità da scacchista di Vladimir Putin approfittano delle lotte intestine nei meandri del potere americano e la Cina silente costruisce il suo impero. Nessuna delle profezie dei Never Trump si è realizzata, il mondo segue i disegni del Signor Zeitgeist, non i desideri delle classi fuori dalla Storia. Viviamo tempi interessanti. Forse troppo.
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esercita la disdetta entro 24 ore dalla scadenza, l'Abbonamento si rinnova al nuovo prezzo comunicato dal
Fornitore.
3.6 Il Fornitore addebiterà anticipatamente l'intero prezzo dell'Abbonamento subito dopo ogni rinnovo sullo
stesso
strumento di pagamento in precedenza utilizzato dall'Utente ovvero sul diverso strumento indicato
dall'Utente attraverso
l'area riservata del proprio account personale.
4. Recesso DEL CONSUMATORE
4.1 L'Utente, ove qualificabile come consumatore – per consumatore si intende una persona fisica che agisce
per scopi
estranei all'attività imprenditoriale, commerciale, artigianale o professionale eventualmente svolta, ha
diritto di
recedere dal contratto, senza costi e senza l'onere di indicarne i motivi, entro 14 giorni dalla data di
attivazione
dell'Abbonamento acquistato.
4.2 L'Utente può comunicare la propria volontà di recedere, inviando al Fornitore una comunicazione
esplicita in questo
senso mediante una delle seguenti modalità:
mediante raccomandata a.r. indirizzata alla sede del Fornitore;
per email al seguente indirizzo help@newslist.it;
4.3 Ai fini dell'esercizio del recesso l'Utente può, a sua scelta, utilizzare questo modulo
4.4 Il termine per l'esercizio del recesso si intende rispettato se la comunicazione relativa all'esercizio
del diritto
di recesso è inviata dall'Utente prima della scadenza del periodo di recesso.
4.5 In caso di valido esercizio del recesso, il Fornitore rimborserà all'Utente il pagamento ricevuto in
relazione
all'Abbonamento cui il recesso si riferisce, al netto di un importo proporzionale a quanto è stato fornito
dal Fornitore
fino al momento in cui il consumatore lo ha informato dell'esercizio del diritto di recesso; per il calcolo
di tale
importo, si terrà conto dei numeri o comunque dei contenuti fruiti e/o fruibili dal consumatore fino
all'esercizio del
diritto di recesso. Il rimborso avverrà entro 14 giorni dalla ricezione della comunicazione di recesso sullo
stesso
mezzo di pagamento utilizzato per la transazione iniziale.
4.6 Eventuali eccezioni al diritto di recesso, ove previste da Codice del consumo – decreto legislativo 6
settembre
2005, n. 206, saranno comunicate al consumatore in sede di offerta prima dell'acquisto.
5. Modalità di pagamento
5.1 L'Abbonamento comporta l'obbligo per l'Utente di corrispondere al Fornitore il corrispettivo nella
misura
specificata nell'offerta in relazione al pacchetto scelto dall'Utente.
5.2 Tutti i prezzi indicati nell'offerta si intendono comprensivi di IVA.
5.3 Il pagamento dei corrispettivi può essere effettuato mediante carte di credito o debito abilitate ad
effettuare gli
acquisti online. Le carte accettate sono le seguenti: Visa, Mastercard, American Express.
5.4 L'Utente autorizza il Fornitore ad effettuare l'addebito dei corrispettivi dovuti al momento
dell'acquisto
dell'Abbonamento e dei successivi rinnovi sulla carta di pagamento indicata dallo stesso Utente.
5.5 Il Fornitore non entra in possesso dei dati della carta di pagamento utilizzata dall'Utente. Tali dati
sono
conservati in modo sicuro dal provider dei servizi di pagamento utilizzato dal Fornitore (Stripe o il
diverso provider
che in futuro potrà essere indicato all'Utente). Inoltre, a garanzia dell'Utente, tutte le informazioni
sensibili della
transazione vengono criptate mediante la tecnologia SSL – Secure Sockets Layer.
5.6 È onere dell'Utente: (i) inserire tutti i dati necessari per il corretto funzionamento dello strumento
di pagamento
prescelto; (ii) mantenere aggiornate le informazioni di pagamento in vista dei successivi rinnovi (per
esempio,
aggiornando i dati della propria carta di pagamento scaduta in vista del pagamento dei successivi rinnovi
contrattuali).
Qualora per qualsiasi motivo il pagamento non andasse a buon fine, il Fornitore si riserva di sospendere
immediatamente
l'Abbonamento fino al buon fine dell'operazione di pagamento; trascorsi inutilmente 3 giorni senza che il
pagamento
abbia avuto esito positivo, è facoltà del Fornitore recedere dal contratto con effetti immediati.
Pagamenti all'interno dell'applicazione IOS
5.7 In caso di acquisto dell'Abbonamento mediante l'Applicazione per dispositivi IOS, il pagamento è gestito
interamente
attraverso la piattaforma App Store fornita dal gruppo Apple. Il pagamento del corrispettivo è
automaticamente
addebitato sull'Apple ID account dell'Utente al momento della conferma dell'acquisto. Gli abbonamenti
proposti sono
soggetti al rinnovo automatico e all'addebito periodico del corrispettivo. L'Utente può disattivare
l'abbonamento fino a
24h prima della scadenza del periodo di abbonamento in corso. In caso di mancata disattivazione,
l'abbonamento si
rinnova per un eguale periodo e all'Utente viene addebitato lo stesso importo sul suo account Apple.
L'Utente può
gestire e disattivare il proprio abbonamento direttamente dal proprio profilo su App Store. Per maggiori
informazioni al
riguardo: https://www.apple.com/it/legal/terms/site.html. Il Fornitore non è responsabile per eventuali
disservizi della
piattaforma App Store.
6. Promozioni
6.1 Il Fornitore può a sua discrezione offrire agli Utenti delle promozioni sotto forma di sconti o periodi
gratuiti di
fruizione del Servizio.
6.2 Salvo che non sia diversamente specificato nella pagina di offerta della promozione, l'adesione a una
promozione
comporta, alla sua scadenza, l'attivazione automatica del Servizio a pagamento con addebito periodico del
corrispettivo
in base al contenuto del pacchetto di volta in volta selezionato dall'Utente.
6.3 L'Utente ha la facoltà di disattivare il Servizio in qualunque momento prima della scadenza del periodo
di prova
attraverso una delle modalità indicate nel precedente articolo 3).
7. Obblighi e garanzie dell'Utente
7.1 L'Utente dichiara e garantisce:
- di essere maggiorenne;
- di sottoscrivere l'Abbonamento per scopi estranei ad attività professionali, imprenditoriali, artigianali
o commerciali
eventualmente svolte;
- che tutti i dati forniti per l'attivazione dell'Abbonamento sono corretti e veritieri;
- che i dati forniti saranno mantenuti aggiornati per l'intera durata dell'Abbonamento.
7.2 L'Utente si impegna al pagamento del corrispettivo in favore del Fornitore nella misura e con le
modalità definite
nei precedenti articoli.
7.3 L'Utente si impegna ad utilizzare l'Abbonamento e i suoi contenuti a titolo esclusivamente personale, in
forma non
collettiva e senza scopo di lucro; l'Utente è inoltre responsabile per qualsiasi uso non autorizzato
dell'Abbonamento e
dei suoi contenuti, ove riconducibile all'account dell'Utente medesimo; per questo motivo l'Utente si
impegna ad
assumere tutte le precauzioni necessarie per mantenere riservato l'accesso all'Abbonamento attraverso il
proprio account
(per esempio, mantenendo riservate le credenziali di accesso ovvero segnalando senza ritardo al Fornitore
che la
riservatezza di tali credenziali risulta compromessa per qualsiasi motivo).
7.4 La violazione degli obblighi stabiliti nel presente articolo conferisce al Fornitore il diritto di
risolvere
immediatamente il contratto ai sensi dell'articolo 1456 del codice civile, fatto salvo il risarcimento dei
danni.
8. Tutela della proprietà intellettuale e industriale
8.1 L'Utente riconosce e accetta che i contenuti dell'Abbonamento, sotto forma di testi, immagini,
fotografie, grafiche,
disegni, contenuti audio e video, animazioni, marchi, loghi e altri segni distintivi, sono coperti da
copyright e dagli
altri diritti di proprietà intellettuale e industriale di volta in volta facenti capo al Fornitore e ai suoi
danti causa
e per questo si impegna a rispettare tali diritti.
8.2 Tutti i diritti sono riservati in capo ai titolari; l'Utente accetta che l'unico diritto acquisito con
il contratto
è quello di fruire dei contenuti dell'Abbonamento con le modalità e i limiti propri del Servizio. Fatte
salve le
operazioni di archiviazione e condivisione consentite dalle apposite funzionalità del Servizio, qualsiasi
attività di
riproduzione, pubblica esecuzione, comunicazione a terzi, messa a disposizione, diffusione, modifica ed
elaborazione dei
contenuti è espressamente vietata.
8.3 La violazione degli obblighi stabiliti nel presente articolo conferisce al Fornitore il diritto di
risolvere
immediatamente il contratto ai sensi dell'articolo 1456 del codice civile, fatto salvo il risarcimento dei
danni.
9. Manleva
9.1 L'Utente si impegna a manlevare e tenere indenne il Fornitore contro qualsiasi costo – inclusi gli
onorari degli
avvocati, spesa o danno addebitato al Fornitore o in cui il Fornitore dovesse comunque incorrere in
conseguenza di usi
impropri del Servizio da parte dell'Utente o per la violazione da parte di quest'ultimo di obblighi
derivanti dalla
legge ovvero dai presenti termini d'uso.
10. Limitazione di responsabilità
10.1 Il Fornitore è impegnato a fornire un Servizio con contenuti professionali e di alta qualità; tuttavia,
il
Fornitore non garantisce all'Utente che i contenuti siano sempre privi di errori o imprecisioni; per tale
motivo,
l'Utente è l'unico responsabile dell'uso dei contenuti e delle informazioni veicolate attraverso di
essi.
10.2 L'Utente riconosce e accetta che, data la natura del Servizio e come da prassi nel settore dei servizi
della
società dell'informazione, il Fornitore potrà effettuare interventi periodici sui propri sistemi per
garantire o
migliorare l'efficienza e la sicurezza del Servizio; tali interventi potrebbero comportare il rallentamento
o
l'interruzione del Servizio. Il Fornitore si impegna a contenere i periodi di interruzione o rallentamento
nel minore
tempo possibile e nelle fasce orarie in cui generalmente vi è minore disagio per gli Utenti. Ove
l'interruzione del
Servizio si protragga per oltre 24 ore, l'Utente avrà diritto a un'estensione dell'Abbonamento per un numero
di giorni
pari a quello dell'interruzione; in tali casi, l'Utente riconosce che l'estensione dell'Abbonamento è
l'unico rimedio in
suo favore, con la conseguente rinunzia a far valere qualsivoglia altra pretesa nei confronti del
Fornitore.
10.3 L'Utente riconosce e accetta che nessuna responsabilità è imputabile al Fornitore:
- per disservizi dell'Abbonamento derivanti da malfunzionamenti di reti elettriche e telefoniche ovvero di
ulteriori
servizi gestiti da terze parti che esulano del tutto dalla sfera di controllo e responsabilità del Fornitore
(per
esempio, disservizi della banca dell'Utente, etc...);
- per la mancata pubblicazione di contenuti editoriali che derivi da cause di forza maggiore.
10.4 In tutti gli altri casi, l'Utente riconosce che la responsabilità del Fornitore in forza del contratto
è limitata
alle sole ipotesi di dolo o colpa grave.
10.5 Ai fini dell'accertamento di eventuali disservizi, l'Utente accetta che faranno fede le risultanze dei
sistemi
informatici del Fornitore.
11. Modifica dei termini d'uso
11.1 L'Abbonamento è disciplinato dai termini d'uso approvati al momento dell'acquisto.
11.2 Durante il periodo di validità del contratto, il Fornitore si riserva di modificare i termini della
fornitura per
giustificati motivi connessi alla necessità di adeguarsi a modifiche normative o obblighi di legge, alle
mutate
condizioni del mercato di riferimento ovvero all'attuazione di piani aziendali con ricadute sull'offerta dei
contenuti.
11.3 I nuovi termini d'uso saranno comunicati all'Utente con un preavviso di almeno 15 giorni rispetto alla
scadenza del
periodo di fatturazione in corso ed entreranno in vigore a partire dall'inizio del periodo di fatturazione
successivo.
Se l'Utente non è d'accordo con i nuovi termini d'uso, può esercitare la disdetta secondo quanto previsto al
precedente
articolo 3.
11.4 Ove la modifica dei termini d'uso sia connessa alla necessità di adeguarsi a un obbligo di legge, i
nuovi termini
d'uso potranno entrare in vigore immediatamente al momento della comunicazione; resta inteso che, solo in
tale ipotesi,
l'Utente potrà recedere dal contratto entro i successivi 30 giorni, con il conseguente diritto ad ottenere
un rimborso
proporzionale al periodo di abbonamento non goduto.
12. Trattamento dei dati personali
12.1 In conformità a quanto previsto dal Regolamento 2016/679 UE e dal Codice della privacy (decreto
legislativo 30
giugno 2003, n. 196), i dati personali degli Utenti saranno trattati per le finalità e in forza delle basi
giuridiche
indicate nella privacy policy messa a disposizione dell'Utente in sede di registrazione e acquisto.
12.2 Accettando i presenti termini di utilizzo, l'Utente conferma di aver preso visione della privacy policy
messa a
disposizione dal Fornitore e di averne conservato copia su supporto durevole.
12.3 Il Fornitore si riserva di modificare in qualsiasi momento la propria privacy policy nel rispetto dei
diritti degli
Utenti, dandone notizia a questi ultimi con mezzi adeguati e proporzionati allo scopo.
13. Servizio clienti
13.1 Per informazioni sul Servizio e per qualsiasi problematica connessa con la fruizione dello stesso,
l'Utente può
contattare il Fornitore attraverso i seguenti recapiti: help@newslist.it
14. Legge applicabile e foro competente
14.1 Il contratto tra il Fornitore e l'Utente è regolato dal diritto italiano.
14.2 Ove l'Utente sia qualificabile come consumatore, per le controversie comunque connesse con la
formazione,
esecuzione, interpretazione e cessazione del contratto, sarà competente il giudice del luogo di residenza o
domicilio
del consumatore, se ubicato in Italia.