2 Febbraio
La storia americana (e italiana) prima e dopo Trump
La Biblioteca della Cittadella. L'elezione di Trump ha innescato una corsa a riscrivere l'avventura degli Stati Uniti fin dalla nascita. Il rischio è sempre quello della visione parziale e stereotipata. Come per il fascismo di ieri che non esiste oggi. Marco Gervasoni fa un viaggio nella storia che è sempre contemporanea
di Marco Gervasoni
Dubito fortemente che l’Europa, intesa come Ue, sia il nostro «destino» come impone l’odierno flaubertiano Catalogue des opinions chics. Di certo l’America è stata per molti anni il nostro destino, nostro di italiani, ma anche di tanti popoli europei. E probabilmente continuerà ad esserlo a lungo, anche se in forme diverse dal passato.
Tra i tanti effetti positivi della elezione di Trump c’è anche, in reazione, da segnalare la ripresa dell’interesse per la storia negli Stati Uniti. E in modo particolare verso la storia politica, prima un po’ negletta rispetto alle scienze sociali. Ma l’avvento dell’Arancione, di Brexit e di molto altro, ha rappresentato un fallimento delle scienze sociali, almeno nella loro versione anglosassone, di scienze predittive. Se infatti una scienza punta tutto sulle sue capacità di previsione, quando essa non ne azzecca più una, molti cominciano legittimamente a dubitare. Mentre, al contrario, una buona conoscenza storica ci fa capire che Trump, Brexit e così via sono perfettamente spiegabili in base alle tradizioni nazionali e ai diversi cicli storici - che Steve Bannon sia un appassionato cultore di storia qualcosa conta. Ecco perché molti storici, in buona parte liberal (ormai nelle università lo sono tutti, e non è un bene) si sono posti il gravoso ma necessario compito di ricostruire tutto il romanzo nazionale americano a partire da quello che, secondo loro, è stato uno choc, appunto Trump. La storia, diceva il primo Croce, è sempre storia contemporanea.
Con questo spirito ecco il bel volume di Jill Lepore, docente di Storia americana a Harvard, These truths. A History of United States (Norton, 932 p. 34 euro) che parte dalle origini, quindi non dal 1776 ma proprio dal 1492 e arriva fino ai giorni nostri, ben dopo l’elezione di Trump.
Come ogni storico che...
di Marco Gervasoni
Dubito fortemente che l’Europa, intesa come Ue, sia il nostro «destino» come impone l’odierno flaubertiano Catalogue des opinions chics. Di certo l’America è stata per molti anni il nostro destino, nostro di italiani, ma anche di tanti popoli europei. E probabilmente continuerà ad esserlo a lungo, anche se in forme diverse dal passato.
Tra i tanti effetti positivi della elezione di Trump c’è anche, in reazione, da segnalare la ripresa dell’interesse per la storia negli Stati Uniti. E in modo particolare verso la storia politica, prima un po’ negletta rispetto alle scienze sociali. Ma l’avvento dell’Arancione, di Brexit e di molto altro, ha rappresentato un fallimento delle scienze sociali, almeno nella loro versione anglosassone, di scienze predittive. Se infatti una scienza punta tutto sulle sue capacità di previsione, quando essa non ne azzecca più una, molti cominciano legittimamente a dubitare. Mentre, al contrario, una buona conoscenza storica ci fa capire che Trump, Brexit e così via sono perfettamente spiegabili in base alle tradizioni nazionali e ai diversi cicli storici - che Steve Bannon sia un appassionato cultore di storia qualcosa conta. Ecco perché molti storici, in buona parte liberal (ormai nelle università lo sono tutti, e non è un bene) si sono posti il gravoso ma necessario compito di ricostruire tutto il romanzo nazionale americano a partire da quello che, secondo loro, è stato uno choc, appunto Trump. La storia, diceva il primo Croce, è sempre storia contemporanea.
Con questo spirito ecco il bel volume di Jill Lepore, docente di Storia americana a Harvard, These truths. A History of United States (Norton, 932 p. 34 euro) che parte dalle origini, quindi non dal 1776 ma proprio dal 1492 e arriva fino ai giorni nostri, ben dopo l’elezione di Trump.
Come ogni storico che si accinge a una impresa del genere, Lepore definisce che cosa sia per lei America. Come si evince anche dal titolo, l'identità americana è per Lepore fondata su «eguaglianza politica, diritti naturali e sovranità del popolo », e con questa bussola, che certo vale più per il periodo dal XVIII secolo, la storica cavalca nei secoli e negli spazi dell’America. Ovviamente, si possono discutere molti di quelli che Lepore considera capisaldi della identità americana. Sarà proprio vero ad esempio che è una «nazione di immigrati»? Figure come Samuel Huntington o come Arthur Schlesinger, non proprio due reazionari nativisti, rifiutavano questa definizione, che a loro avviso indeboliva il common ground americano favorendo una perniciosa visione multiculturalista, a cui invece la liberal Lepore resta molto legata.
L’America è anche - a smentire un certo anti americanismo comune a destra e a sinistra - una nazione di idee e di pensieri. Certo ad arricchirla, a partire dagli anni Trenta del XX secolo, furono immigrati di lusso, il gotha della scienza e della cultura austriaca, tedesca, e anche italiana, che si «rifugiò» nelle università d’oltre Atlantico. Ma anche prima, quando la cultura statunitense era composta da americani da più generazioni, il contributo alla storia del pensiero degli Stati Uniti fu fondamentale. Anzi, prima dell’arrivo degli europei in fuga dai fascismi, che immisero nella cultura politica americana dosi massicce di filosofia tedesca, essa appariva più distante dal modello europeo e quindi per certi versi più genuina. Pensiamo, ad esempio, a una figura come Thorstein Veblen, autore della Teoria della classe agiata (1899) figlio di immigrati norvegesi ma che nulla aveva portato dai fiordi, con la sua sociologia innovativa e originalissima rispetto a quella coeva europea. Oppure in filosofia a William James, di lontane origini irlandesi, le cui opere sono forse le prime, da parte di un pensatore americano, a esercitare una certa influenza in Europa e anche in Italia, con i suoi Principi di psicologia (1890). Veblen norvegese, James irlandese? Erano americani, si erano immersi nel common ground, che a loro volta avevano contributo a rafforzare. Oggi leggi studiosi statunitensi, magari da tre generazioni, che non la smettono di ricordare al lettore la loro «indianità», la loro «latinità» (nel senso di latinos) la loro «indonesità» e via elencando. L’etnicizzazione della cultura. Tutto questo percorso, non un gran miglioramento, e molto altro, leggiamo nel libretto ridotto ma densissimo della storica della Madison University, Jennifer Ratner-Rosenhagen, The Ideas That Made America: A Brief History, Oxford University press, 232 p. 11 euro)
Quello che assilla Lepore, un po’ meno Ratner-Rosenhagen, ma soprattutto tanti storici è la divisione, o per meglio dire, la polarizzazione dell’America attuale. Per la verità, anche solo leggendo Lepore, non pare che i decenni precedenti fossero stati pacifici (la Guerra di secessione, un milione di morti tra civili e soldati, decimò il 3 per cento della popolazione). Eppure la parola che ora va molto è proprio questa: polarizzazione. La cui origine molti storici di sinistra cercano solo da una parte: e il colpevole si capisce subito che è il partito dell’Elefante. Sarebbero stati loro, i Nixon, i Reagan, i George Bush jr, per non parlare del peggiore di tutti, Trump (peraltro repubblicano sui generis) ad avere, con le loro politiche e con le loro parole, diviso l'America fin dagli anni Sessanta. È la tesi, a volte espressa in maniera quasi brutale, del volume di altri due storici universitari di Princeton, Kevin Kruse e Julian Zelizer, Fault Lines: A History of the United States since 1974 (Norton, 428 p. 26 euro) che si potrebbe leggere come una storia delle due Americhe, l’una armata contro l’altra, a partire dal Watergate.
È già piuttosto discutibile che questa polarizzazione rechi l’estensione e la intensità che gli autori le attribuiscono; di certo, lo sa anche la saggezza popolare, e ce lo raccontavano le nostre nonne, per fare la guerra occorre essere in due. Quindi le nefandezze dei Repubblicani vanno controbilanciate con quelle (dal nostro punto di vista più gravi) commesse dai democratici, dai liberal, dai progressisti.
Niente però come le nefandezze editoriali che ci tocca leggere, e provenienti dall’America liberal, sul fascismo. La storiografia americana, diciamolo pure, tranne rare eccezioni, non ha mai regalato contribuiti importanti sulla storia di questo fenomeno. E quando poi se ne cominciano a occupare coloro che non sono né specialisti né storici, i dolori si fanno acuti. Tutto parte ancor da lui, l’Arancione, Trump. Altrimenti perché un anziano segretario di stato in pensione, la clintoniana Madeleine Albright, si sarebbe messa a scrivere un libro sul fascismo, che definire raccapricciante è poco? Raccapricciante per ingenuità (alla fine, per Albright, fascista è chi è cattivo e malintenzionato) per gli errori fattuali, persino più macroscopici di quelli di cui è costellato M. di Antonio Scurati (Albright fa nascere Mussolini vicino a Firenze, e mi fermo qui). E affermazioni da far cadere dalla sedia, come quando la stratega della guerra in Kosovo scrive che nel 1920 in Italia c’erano due tipi di fascismi, quello di Mussolini, e quello dei rossi. Serrati, Bordiga, Gramsci, Togliatti, fascisti? Pare assurdo ma un libro del genere ha trovato un editore italiano (Fascismo un avvertimento, Chiarelettere, 300 p. 19 euro).
E stiamo parlando non di una volgare e rozza repubblicana (che poi i segretari di stato repubblicani erano gente come Kissinger, George Shultz, Condoleezza Rice, altro che buzzurri) ma di una democratica che è stata docente (non di storia) alla Georgetown University. L’unico avvertimento che da un volume del genere potrebbe sorgere, è questo: non leggetelo.
Un po’ meglio va a un altro libro recentissimo e strombazzato sui giornali mainstream: Noi contro loro. Come funziona il fascismo, scritto da Jason Stanley e edito dalla nuova casa editrice che piace alla gente che piace, la SolferinoLibri (204 pp. 12 euro).
Stanley è un filosofo del linguaggio di Yale quindi, come Albright, non uno storico, ma almeno si è documentato più dell’ex segretario di Stato (non ci voleva molto…). Strafalcioni troppo evidenti non ve ne sono, ma il minestrone cucinato grazie ad una definizione di fascismo in cui rientra di tutto, consente di tacciare come tale persino Erdogan, oltre ai soliti Putin, Orban, e via dicendo. Ah, naturalmente, Trump. Secondo Stanley fascista è chi fascista parla, potremmo dire parafrasando Forrest Gump. E quali sono i topoi linguistici del fascismo? Tra gli altri, legge e ordine, «ansia sessuale», anti intellettualismo, culto della gerarchia, propaganda. Come tutte le affermazioni false, v’è una parte di vero: ma le prove testuali fornite da Stanley, la vaghezza delle definizioni e soprattuto lo sprezzo verso i differenti contesti, rendono le maglie talmente ampie che qualsiasi politico di questi anni, con l'eccezione forse di Mario Monti, potrebbe, seguendo la regola di Stanley, finire ingabbiato come «fascista».
Si dirà: la cultura statunitense resta in sé, nonostante tutto, profondamente anti storica, e in parte è così. Però sul fascismo la colpa è anche nostra, degli italiani: più o meno le stesse tesi di Stanley le presentò anni fa Umberto Eco, in uno dei suoi testi peggiori, Il fascismo eterno. Che, assieme ai libri di Albright e di Stanley, e ovviamente a quelli di Michela Murgia, consiglierei di buttare nel cestino a chiunque volesse sforzarsi di capire cosa sia stato il fascismo: e come poco abbia a che vedere con il presente.
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Fornitore non garantisce all'Utente che i contenuti siano sempre privi di errori o imprecisioni; per tale
motivo,
l'Utente è l'unico responsabile dell'uso dei contenuti e delle informazioni veicolate attraverso di
essi.
10.2 L'Utente riconosce e accetta che, data la natura del Servizio e come da prassi nel settore dei servizi
della
società dell'informazione, il Fornitore potrà effettuare interventi periodici sui propri sistemi per
garantire o
migliorare l'efficienza e la sicurezza del Servizio; tali interventi potrebbero comportare il rallentamento
o
l'interruzione del Servizio. Il Fornitore si impegna a contenere i periodi di interruzione o rallentamento
nel minore
tempo possibile e nelle fasce orarie in cui generalmente vi è minore disagio per gli Utenti. Ove
l'interruzione del
Servizio si protragga per oltre 24 ore, l'Utente avrà diritto a un'estensione dell'Abbonamento per un numero
di giorni
pari a quello dell'interruzione; in tali casi, l'Utente riconosce che l'estensione dell'Abbonamento è
l'unico rimedio in
suo favore, con la conseguente rinunzia a far valere qualsivoglia altra pretesa nei confronti del
Fornitore.
10.3 L'Utente riconosce e accetta che nessuna responsabilità è imputabile al Fornitore:
- per disservizi dell'Abbonamento derivanti da malfunzionamenti di reti elettriche e telefoniche ovvero di
ulteriori
servizi gestiti da terze parti che esulano del tutto dalla sfera di controllo e responsabilità del Fornitore
(per
esempio, disservizi della banca dell'Utente, etc...);
- per la mancata pubblicazione di contenuti editoriali che derivi da cause di forza maggiore.
10.4 In tutti gli altri casi, l'Utente riconosce che la responsabilità del Fornitore in forza del contratto
è limitata
alle sole ipotesi di dolo o colpa grave.
10.5 Ai fini dell'accertamento di eventuali disservizi, l'Utente accetta che faranno fede le risultanze dei
sistemi
informatici del Fornitore.
11. Modifica dei termini d'uso
11.1 L'Abbonamento è disciplinato dai termini d'uso approvati al momento dell'acquisto.
11.2 Durante il periodo di validità del contratto, il Fornitore si riserva di modificare i termini della
fornitura per
giustificati motivi connessi alla necessità di adeguarsi a modifiche normative o obblighi di legge, alle
mutate
condizioni del mercato di riferimento ovvero all'attuazione di piani aziendali con ricadute sull'offerta dei
contenuti.
11.3 I nuovi termini d'uso saranno comunicati all'Utente con un preavviso di almeno 15 giorni rispetto alla
scadenza del
periodo di fatturazione in corso ed entreranno in vigore a partire dall'inizio del periodo di fatturazione
successivo.
Se l'Utente non è d'accordo con i nuovi termini d'uso, può esercitare la disdetta secondo quanto previsto al
precedente
articolo 3.
11.4 Ove la modifica dei termini d'uso sia connessa alla necessità di adeguarsi a un obbligo di legge, i
nuovi termini
d'uso potranno entrare in vigore immediatamente al momento della comunicazione; resta inteso che, solo in
tale ipotesi,
l'Utente potrà recedere dal contratto entro i successivi 30 giorni, con il conseguente diritto ad ottenere
un rimborso
proporzionale al periodo di abbonamento non goduto.
12. Trattamento dei dati personali
12.1 In conformità a quanto previsto dal Regolamento 2016/679 UE e dal Codice della privacy (decreto
legislativo 30
giugno 2003, n. 196), i dati personali degli Utenti saranno trattati per le finalità e in forza delle basi
giuridiche
indicate nella privacy policy messa a disposizione dell'Utente in sede di registrazione e acquisto.
12.2 Accettando i presenti termini di utilizzo, l'Utente conferma di aver preso visione della privacy policy
messa a
disposizione dal Fornitore e di averne conservato copia su supporto durevole.
12.3 Il Fornitore si riserva di modificare in qualsiasi momento la propria privacy policy nel rispetto dei
diritti degli
Utenti, dandone notizia a questi ultimi con mezzi adeguati e proporzionati allo scopo.
13. Servizio clienti
13.1 Per informazioni sul Servizio e per qualsiasi problematica connessa con la fruizione dello stesso,
l'Utente può
contattare il Fornitore attraverso i seguenti recapiti: help@newslist.it
14. Legge applicabile e foro competente
14.1 Il contratto tra il Fornitore e l'Utente è regolato dal diritto italiano.
14.2 Ove l'Utente sia qualificabile come consumatore, per le controversie comunque connesse con la
formazione,
esecuzione, interpretazione e cessazione del contratto, sarà competente il giudice del luogo di residenza o
domicilio
del consumatore, se ubicato in Italia.