4 Novembre

Dagli ostaggi di Teheran alla White (e non è la Casa Bianca)

Quarant'anni fa l'assalto all'ambasciata americana e la crisi degli ostaggi. Un'impressione dalla capitale dell'Iran, il paradosso dell'uso della religione come arma politica a Washington. Un viaggio di Maite Carpio nella Persia (e America) di ieri e oggi

di Maite Carpio da Teheran

Sono trascorsi 40 anni dall’assalto e presa degli ostaggi dell’ambasciata americana a Teheran (4 novembre del 1979) e dalla rottura delle relazioni diplomatiche tra i due paesi (era appena iniziata la rivoluzione iraniana del 1979). Nelle strade di Teheran ci sono state manifestazioni a piccoli gruppi, ma non si capivano le vere dimensioni, celate dietro le automobili  che invadono letteralmente la città. Si intravedevano tante persone, molte donne con il chador, tanti bambini (hanno chiuso le scuole) e molte aspettative nascoste. 

L’Iran è un paese pieno di contraddizioni e si sente anche nel rapporto con “gli americani”. Le relazioni sono peggiorate dopo che Trump ha abbandonato unilateralmente il Joint Comprehensive Plan of Action (piano di azione congiunta) e rotto l’accordo di non proliferazione nucleare, per cui da una parte è cresciuto tra la popolazione (soprattutto la classe media) un rinnovato sentimento antiamericano che negli ultimi anni, superata la retorica rivoluzionaria, si era notevolmente smorzato. Gli accordi raggiunti con l’amministrazione Obama avevano portato un vento di fiducia e ottimismo tra i più giovani di questo popolo orgoglioso, molto attivo e in gran parte anche aperto al cambiamento. Oggi, con un'inflazione al 40%, si cominciano a sentire gli effetti delle sanzioni e la gente comune ha visto peggiorare le già precarie condizioni economiche,  per cui la vecchia diffidenza di una volta è tornata a farsi largo anche se, allo stesso tempo, non vedono l’ora che l’amico Trump ci ripensi. Se parli con loro, quasi tutti convergogno nel considerarlo un “mercante”, uno che alla fine fa i conti con le cose “pratiche”.  Ma non si capisce bene se lo dicono dall’alto del loro senso di superiorità e orgoglio nazionale o con un pizzico di speranza nascosta. 

Si sentono umiliati, ma la storia li aiuta a mantenere la loro posizione di forza: non si tratta....


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