3 Marzo
I due anni che hanno dato a Erdogan le chiavi dell'Europa
2015-2016. La forza di Ankara è nella debolezza di Bruxelles. Dalla strage del Bataclan e la consegna della chiavi dei confini d'Europa, al golpe fallito e il ritorno dell'espansionismo neo ottomano. Il terrore dell'Unione europea, le mosse del sultano
Centrotrentamila siriani sono entrati in Grecia passando dalla Turchia. Kyriakos Mitsotakis, premier della Grecia, commenta così la mossa di Ankara che ha aperto i suoi confini con Grecia e Bulgaria: "L'Europa non sarà ricattata dalla Turchia sulla questione migranti. Quanto accaduto è dolorosamente ovvio a tutti. La Turchia in piena violazione dell'accordo con l'Ue ha incoraggiato e assistito in modo sistematico decine di migliaia di migranti e profughi ad entrare in Grecia. Ha fallito, e continuerà a fallire se dovesse continuare a perseguire questa strategia". Mitsotakis ha parlato durante una conferenza stampa che si è svolta al confine tra Grecia e Turchia, con lui Ursula von der Leyen, presidente della Commissione Ue, e David Sassoli, presidente del Parlamento europeo. L'Europa si mostra compatta, ma la linea del no a Erdogan ha origine da un sì imprudente che fu dato al presidente turco nel 2015. Flashback. È una lunga storia, quello che fa oggi Erdogan ha una genesi di due anni, 2015-2016. il biennio del terrore. Andiamo indietro nel tempo, Parigi, anno 2015. Sono i giorni della strage del Bataclan, la paura si coglie negli occhi dei governanti europei.
I sedici giorni del terrore
2015. Così l'Europa ha consegnato le chiavi dei suoi confini alla Turchia. Dopo la strage di Parigi la trattativa con Ankara mette le ali. Una sequenza impressionante di eventi e due documenti diplomatici inediti. Un accordo con sullo sfondo la guerra in Siria, un omicidio, l'abbattimento di un jet russo e le minacce di Erdgon a Tusk e Juncker
Questa è una storia che comincia una sera di novembre in Francia, il venerdì 13. Questa è una storia che parte dal sangue del teatro Bataclan, passa in Belgio, fa scalo in Turchia e atterra in Siria. Questa è una storia di diplomazia, di guerra, di silenzio, di menzogna, di minacce e di paura. Questa è la storia...
Centrotrentamila siriani sono entrati in Grecia passando dalla Turchia. Kyriakos Mitsotakis, premier della Grecia, commenta così la mossa di Ankara che ha aperto i suoi confini con Grecia e Bulgaria: "L'Europa non sarà ricattata dalla Turchia sulla questione migranti. Quanto accaduto è dolorosamente ovvio a tutti. La Turchia in piena violazione dell'accordo con l'Ue ha incoraggiato e assistito in modo sistematico decine di migliaia di migranti e profughi ad entrare in Grecia. Ha fallito, e continuerà a fallire se dovesse continuare a perseguire questa strategia". Mitsotakis ha parlato durante una conferenza stampa che si è svolta al confine tra Grecia e Turchia, con lui Ursula von der Leyen, presidente della Commissione Ue, e David Sassoli, presidente del Parlamento europeo. L'Europa si mostra compatta, ma la linea del no a Erdogan ha origine da un sì imprudente che fu dato al presidente turco nel 2015. Flashback. È una lunga storia, quello che fa oggi Erdogan ha una genesi di due anni, 2015-2016. il biennio del terrore. Andiamo indietro nel tempo, Parigi, anno 2015. Sono i giorni della strage del Bataclan, la paura si coglie negli occhi dei governanti europei.
I sedici giorni del terrore
2015. Così l'Europa ha consegnato le chiavi dei suoi confini alla Turchia. Dopo la strage di Parigi la trattativa con Ankara mette le ali. Una sequenza impressionante di eventi e due documenti diplomatici inediti. Un accordo con sullo sfondo la guerra in Siria, un omicidio, l'abbattimento di un jet russo e le minacce di Erdgon a Tusk e Juncker
Questa è una storia che comincia una sera di novembre in Francia, il venerdì 13. Questa è una storia che parte dal sangue del teatro Bataclan, passa in Belgio, fa scalo in Turchia e atterra in Siria. Questa è una storia di diplomazia, di guerra, di silenzio, di menzogna, di minacce e di paura. Questa è la storia dei sedici giorni che hanno sconvolto l’Europa: una strage a Parigi, truppe speciali a Bruxelles, l’esercito al Giubileo a Roma, mentre il Papa parla di pace. Non siamo in guerra, siamo dentro la guerra.
Venerdì 13. Comincia tutto quella sera. Francia e Germania stanno giocando la partita quando Hollande allo Stade de France viene informato dell’attacco, i servizi segreti di tutta Europa sono alla disperata ricerca non del nome (sanno già che è Isis) ma del come sia stato possibile. Sono saltati i confini. La Francia non è protetta, l’Europa è colta di sorpresa, disarmata, senza scudo. Hollande quella sera stessa dichiara guerra allo Stato Islamico. Inizia così la storia dei sedici giorni che hanno cambiato l’Europa: dal 13 al 29 novembre al più alto livello delle istituzioni europee accadono fatti e si prendono decisioni che sono destinati a mutare l’assetto dell’Unione, il suo significato, la vita dei suoi cittadini. E’ una storia che abbiamo ha ricostruito attraverso fonti confidenziali e documenti riservati di cui è in possesso.
Saltano i confini. Al centro della scena c’è la proiezione più estrema del confine dell’Europa: la Turchia e quella striscia di terra lunga 1.266 chilometri che la separa e congiunge a Siria e Iraq, il confine della guerra. Dopo il venerdì 13 di Parigi, l’Unione europea apre gli occhi e guarda con terrore ai suoi confini, sono materiale radioattivo. Due i fronti aperti: a sud-est la Turchia è l’avamposto e la Grecia il checkpoint della migrazione che parte da Siria e Iraq. A sud, nel cuore del Mediterraneo, a soli 300 chilometri dalla Sicilia, c’è la Libia con i suoi 1.200 chilometri di inferno sulla striscia costiera da Tripoli a Tobruk. Fino al venerdì 13 novembre quei confini erano un problema di immigrazione, dopo la strage di Parigi sono diventati ufficialmente anche un problema di terrorismo. Turchia e Grecia sono inaffidabili, Erdogan e Tsipras usano il flusso di immigrati come un rubinetto che aprono e chiudono per far sentire la pressione sull’Europa. E’ una lunga storia di denaro, influenza politica, minacce. Sulla costa libica c’è una forza navale europea che ha un ruolo di polizia marittima, ma non ferma il caos e il futuro è affidato a una conferenza di pace (si svolgerà a Roma) che dovrebbe avere la ciclopica forza di disarmare le milizie, far cessare la guerra civile e far muovere i libici come un sol uomo contro le milizie di Isis. Prometeico.
Il calendario. Il destino si diverte a giocare a dadi con i fogli del calendario. Dopo il venerdì 13 l’Unione europea vara in brevissimo tempo una serie di misure straordinarie per il controllo dell’immigrazione e del terrorismo. Il sangue del Bataclan s’imprime sulle pagine dell’agenda.

Ecco la sequenza impressionante di fatti:
1. Il 13 novembre un commando di affiliati di Isis uccide 130 persone a Parigi;
2. Il 15-16 novembre si riunisce il G20 a Antalya (Turchia);
3. Il 20 novembre a Bruxelles si riunisce il Consiglio giustizia e affari interni (Gai), è un vertice straordinario dei ministri europei dell’Interno e della Giustizia;
4. Il 24 novembre un jet russo Sukhoj 24 viene abbattuto dagli F-16 turchi sul confine tra Siria e Iraq;
5. Il 28 novembre Tahir Elci, un avvocato curdo noto per la sua difesa di esponenti del Pkk, viene assassinato a Diyarbakir, nel sud est della Turchia, mentre parla con i giornalisti vicino a una moschea del distretto di Sur;
6. Il 29 novembre si tiene a Bruxelles un vertice europeo dei capi di stato con la Turchia. L’urgenza dell’Unione è quella di mettere al sicuro il confine siriano.
Gli eventi ruotano tutti intorno alla figura di Erdogan, interprete del ruolo “doppio” della Turchia.
Il jet russo. Dal 13 al 26 novembre trascorrono sedici giorni ad altissima tensione ai vertici delle istituzioni europee. Dietro le quinte c’è uno scontro con la Turchia sui reciproci impegni con l’Europa. Il 24 novembre un altro evento taglia in due l’agenda e imprime un’accelerazione alle trattative: un jet russo Sukhoj 24 viene abbattuto dagli F-16 di Ankara. Alle 8:53 del mattino Reuters lancia la notizia: “Aereo da guerra si schianta vicino alla frontiera con la Turchia. Lo ha riferito l’emittente turca Habertuk che ha mostrato un video del velivolo in fiamme”. Alle 9:45 la Cnn Turk conferma: “Il jet abbattuto in Turchia è un Sukhoj 24 probabilmente dell’aviazione russa”. Alle 14:04 Reuters e France Presse mandano in rete la reazione di Vladimir Putin che parla dal Cremlino: “E’ una pugnalata alla schiena compiuta dai complici dei terroristi”. Alle 15:43 il ministro degli Esteri russo Serghei Lavrov annulla la prevista visita in Turchia. Alle 19:19 la Nato, dopo una riunione straordinaria del Consiglio, appoggia l’alleato Erdogan, mentre il segretario Jens Stoltemberg cerca di raffreddare la situazione: “Invito tutti alla calma e alla de-escalation. Il nemico comune è Isis”. Nemico anche dei turchi? Visti i fatti, è difficile da raccontare, ma la Nato a trazione americana pensa che ci sia un altro nemico: la Russia. “Per un momento, abbiamo temuto che la Russia reagisse militarmente all’abbattimento, eravamo colpiti dalla freddezza dei turchi, sono stati loro a chiedere subito una riunione urgente della Nato”, racconta una fonte interna al Consiglio.
Il vertice dei capi di stato. La crisi tra Putin e Erdogan mette il turbo alle decisioni del vertice europeo dei capi di stato del 29 novembre. L’Europa è sotto choc, impaurita, la Francia è in guerra, la portaerei Charles De Gaulle è già al largo delle coste siriane, Regno Unito e Germania si sono schierati con Hollande, l’Italia sta come sempre alla finestra, nessuno vuole mettere i boots on the ground. Di fronte a un gruppo di interlocutori così diviso Erdogan ottiene il massimo risultato:
1. Riparte e si velocizza il processo di integrazione della Turchia nell’Unione europea;
2. Con questo obiettivo si terranno incontri periodici e due vertici annuali tra Europa e Turchia;
3. Piovono nelle casse di Ankara tre miliardi di euro di aiuti finanziari per controllare l’immigrazione.
Strike. Erdogan atterra sull’obiettivo con gli artigli di un falco, dispiega una sottile e tagliente regìa politica e una precisa divisione dei compiti con il primo ministro Ahmet Davutoglu. Il presidente batte i pugni, il premier dialoga. Una trattativa spietata in cui la Turchia ha il coltello dalla parte del manico. Erdogan lo sa e gioca tutte le sue carte con abilità e sangue freddo.
I documenti. È uno scenario che emerge dai documenti diplomatici. Sono due note del 17 novembre, firmate dall’ambasciatore Stefano Sannino, rappresentante italiano permanente dell’Italia presso l’Unione europea, che informano sulla discussione avvenuta all’interno del Cosi (il Comitato permanente per la cooperazione operativa in materia di sicurezza interna) e del Coreper (il Comitato dei rappresentanti permanenti, l’organo che prepara i lavori del Consiglio Europeo). Le note dell’ambasciatore Sannino sono un debriefing che serve alla preparazione del vertice europeo dei ministri dell’Interno e della Giustizia del 20 novembre e il successivo summit dei capi stato europei con la Turchia del 29 novembre. I documenti sono spediti in orari diversi: la prima nota è delle 17:40, la seconda delle 18:50. La loro lettura fornisce un quadro esauriente della situazione dopo il venerdì 13 di Parigi: terrorismo e immigrazione, controllo dei confini via mare e via terra, dei passeggeri sui voli di linea (istituzione del Pnr, Passenger name record) e del traffico d’armi, sono gli anelli di una catena rovente e la Turchia è considerata indispensabile per contenere i rischi alle porte dell’Europa.
Le minacce di Erdogan. Inquietanti sono i dettagli di un incontro tra Jean Claude Juncker (presidente della Commissione Ue), Donald Tusk (presidente del Consiglio) e Recep Tayyip Erdogan (presidente della Turchia) ai margini del G20 di Antalya. Lasciamo che sia la nota di Sannino a descrivere il clima del colloquio: “Nel corso dell’odierno Coreper, il Segretario generale del consiglio, Jeppe Tranjolm-Mikkelsen, ha svolto un’informativa, in formato ‘Ambassador only’, sugli esiti degli incontri avuti dai presidenti Tusk e Juncker con le autorità turche, svoltisi il 16 novembre u.s. a margine del G20 di Antalya. Si è trattato in particolare di due incontri: uno del presidente Tusk con il primo ministro Davutoglu ed un altro dei presidenti Tusk e Juncker con il Presidente Erdogan. Il segretario generale, che ha precisato di svolgere il ‘debriefing’ sulla base degli elementi fornitigli dal capo di gabinetto del Presidente Tusk, Piotr Serafin, ha definito ‘difficile’ l’incontro con Erdogan che ha chiesto all’Ue rispetto per le istanze della Turchia e di mantenere gli impegni assunti (a margine del Coreper, Tranholm-Mikkelsen mi ha peraltro confidato che il colloquio con Erdogan è stato intriso di ‘minacce’)”. Minacce? Alt, fermiamo la lettura del documento. Quali minacce? Cosa ha detto Erdogan ai presidenti Tusk e Juncker? L’informativa diplomatica non chiarisce questo episodio tanto grave da esser sottolineato due volte nell’informativa, la nota non si spinge oltre, ma è un punto delicatissimo perché stiamo parlando di una trattativa al massimo livello in cui i capi dell’Unione europea (Juncker e Tusk) stanno consegnando le chiavi dei confini del Vecchio continente a Erdogan che durante la trattativa “minaccia” qualcosa. E’ un particolare del documento che fa venire i brividi e getta un’ombra sull’affidabilità di Ankara, sulla qualità e sulla tenuta dell’accordo.
Le richieste della Turchia. Ergodan è un falco, uno specialista delle maniere forti, ma la Turchia è anche la storia di Bisanzio e il leader sa essere doppio e triplo, felpato e scartavetrato, caldo e freddo, ruvido e vellutato. Alla minaccia, seguono le richieste, elencate nella nota diplomatica: “Il capo dello stato turco avrebbe in particolare richiesto: l’apertura di sei capitoli negoziali; finanziamenti per 3 miliardi di euro all’anno (e non spalmati su due anni); l’accelerazione del processo di liberalizzazione dei visti; la convocazione del vertice Ue e Turchia; l’avvio del programma di ‘resettlement’ dalla Turchia”. La strategia del pugno d’acciaio di Erdogan è efficace, di fatto tutte le richieste del presidente turco sono accettate dall’Europa. Con un particolare che dice quanto Erdogan sia stato convincente: sui 3 miliardi di finanziamenti è sparito il riferimento al “biennio”, non c’è più un termine temporale. Tre miliardi di euro e verifiche sul programma tutte da inventare, ma niente calendario. Follow the money. Chi paga? E’ la parte più difficile da far digerire. I paesi dell’Unione vorrebbero un contributo totalmente a carico del bilancio di Bruxelles, anche per evitare imbarazzanti passaggi parlamentari, ma lo schema in discussione sul tavolo è questo: “L’Esecutivo Ue prevede il seguente schema di finanziamento: dei tre miliardi di euro complessivi, 500 milioni proverrebbero dal Bilancio Ue e i restanti 2,5 miliardi da contributi fuori bilancio degli Stati membri calcolati sulla base della chiave di contribuzione al bilancio Ue. La Facility si sostanzierebbe pertanto in un fondo extra bilancio, sull’esempio del Fondo europeo di sviluppo”. Tutti, maledetti e subito. Cash. Mentre Erdogan mette Juncker e Tusk di fronte alla dura realtà, il premier Davutoglu veste i panni del capo di un governo a maggioranza islamica che vuole entrare in Europa. E’ una strategia raffinata. E la nota diplomatica non manca il punto: Davutoglu “ha in particolare richiesto che si preveda la tenuta di Vertici Ue-Turchia su base periodica regolare”. Risultato ottenuto. E vittoria del doppio turco in tre set con smash finale.
Europa indecisa a tutto. Tutti d’accordo nell’Unione? Il giro di tavolo degli ambasciatori racconta l’indecisione su tutto, emergono le linee di frattura tra i paesi e la forza paralizzante della paura. L’ambasciatore Sannino mette nero su bianco la posizione dell’Italia sull’accordo con la Turchia: “In proposito sono intervenuto, osservando che è essenziale promuovere un partenariato omnicomprensivo, tale da includere la collaborazione in materia migratoria (obiettivo immediato) nell’ambio di un contesto strategico di più ampio respiro, che consenta anche tatticamente all’Unione di non subire l’agenda legata all’intensità della dinamica dei flussi migratori”. E gli altri paesi che dicono? Ci sono alleati con l’Italia? “Tale impostazione è stata sostenuta dai colleghi di Belgio, Spagna, Danimarca, Paesi Bassi, Svezia e Bulgaria”. Andiamo avanti. Contrari? Repubblica Ceca, Lituania, Polonia e Slovacchia puntano a risolvere il problema più urgente, l’immigrazione. L’Ungheria è su posizioni più radicali, diffida di Erdogan, non vuole “fughe in avanti” nei rapporti con Ankara, cui l’Ue non deve fare inopportune concessioni, dovendo l’Ue in primo luogo concentrarsi sul controllo della propria frontiera (che non deve essere delegata alla Turchia). E i tedeschi cosa ne pensano? Il governo di Angela Merkel ha 950 mila profughi siriani da gestire, un flusso continuo di uomini, donne, bambini in fuga dalla guerra, i sondaggi in picchiata. Per Berlino l’imperativo è regolare l’ondata migratoria. Dunque impegno e un programma graduale è la linea tenuta dall’ambasciatore Reinhard Silberberg: “L’Unione europea ha una richiesta nei confronti della Turchia (la gestione controllata dei flussi), mentre Ankara ne avanza quattro”. Pragmatismo teutonico. E la Francia colpita dall’Isis, la Francia in guerra in Siria cosa propone? “L’ambasciatore Sellal ha sottolineato che alla luce dei tragici attacchi di Parigi anche la collaborazione con la Turchia debba essere inserita in una prospettiva di coinvolgimento nella lotta al terrorismo internazionale”. E’ la posizione più chiara e saggia, è lo sguardo lungo di chi ha visto il sangue scorrere a Parigi. Venerdì 13. Ma non sarà la proposta che poi vincerà nel vertice dei capi di stato dell’Unione del 29 novembre. Il passo è lungo. L’Unione ha deciso che la Turchia, un paese di 80 milioni di abitanti, con un’età media di 30 anni, al novanta per cento composta da musulmani sunniti, la Turchia che abbatte jet di un’altra nazione impegnata nella guerra contro Isis e non si scusa, la Turchia che fa la guerra ai curdi e lascia indisturbati i macellai dell’Isis a Kobane, la Turchia delle “minacce” ai vertici europei, quella Turchia corre a gran velocità verso l’Europa. Un partner tanto affidabile da esser così descritto da Ashton Carter, segretario della Difesa americana, il 1° dicembre scorso durante un’audizione parlamentare: “La Turchia non ha in realtà mai controllato i propri confini da quando lo Stato islamico ha cominciato a crescere e svilupparsi”. A questa Turchia, sono state date le chiavi dei confini dell’Europa. Buona fortuna.
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La seconda tappa che segna l'altra svolta nella storia di Erdogan e della Turchia dei nostri giorni è il golpe fallito del 15 luglio del 2016. Un momento buio che segna la rottura con gli Stati Uniti (sospettati di aver se non organizzato, di certo favorito il colpo di Stato) e il riavvicinamento con la Russia di Putin. In quel momento la presidenza della Turchia si trasforma in un'autocrazia violenta che reprime la dissidenza politica con gli arresti di massa. Questa mutazione è raccontata in questo articolo scritto nel 2016.
Golpe e controgolpe
2016. La Turchia nel giro di 48 ore ha messo sotto i nostri occhi uno scenario da manuale. Un guinness dei fiaschi militari e una raccolta di esempi illuminanti su come il potere durante le rivoluzioni muti nella sua forma, fino a rivelarsi nella sua mostruosa verità

Erdogan è il nostro soggetto d’indagine. La nostra guida è un libro intitolato Tecnica del colpo di Stato, l’autore è Curzio Malaparte.
Il libro uscì in Francia nel 1931 e subito divenne un testo maledetto, da bandire in tutti i paesi dove la libertà non esisteva o, meglio, era sbandierata come tale ma in realtà o era un feticcio o stava per soccombere. Nessuno degli uomini forti dell’epoca poteva consentirne la lettura. A loro Malaparte aveva riservato pagine scartavetrate, intrise di corrosiva ironia, un profondo scavo dei giacimenti infiammabili dell’anima. Erano profetiche analisi del carattere dispotico. Hitler lo odiava (e lo fece bruciare in piazza a Lipsia), Trockij pure, Mussolini lo percepiva come una minaccia sinistra. Attraversato dal fiume della storia, il libro di Malaparte era (è) un memento. Partiamo dal primo fatto, il golpe.
Il golpe fallito. Un pezzo dell’esercito prova a conquistare la casamatta del governo turco con un’operazione pazza. Un pezzo. Non tutto. E in questa frazione è anticipato l’epilogo, il fallimento. Non ci sono abbastanza carri e aerei, nessuno dei capi del regime di Erdogan viene arrestato. Il presidente è in volo (forse) da qualche parte. Di sicuro è libero di dare ordini. Le premesse del golpe sono marchiate a fuoco dall’incertezza. E’ un tentativo, si spera nel popolo… No, neanche il popolo, perché il novantanove per cento della popolazione è di fede islamica e l’islamismo in questi anni ha galoppato nella società turca, annientato l’idea dello Stato laico. La visione di Ataturk non c’è più. L’esercito è la colonna vertebrale del potere, senza il suo appoggio non si va lontano, anzi da nessuna parte. E la Turchia non è certo un luogo da golpe bianco. Comanda chi controlla l’esercito (o ne è controllato). La polizia sta con Erdogan, le forze armate sono divise in fazioni e il golpe è un tentativo, una speranza, un progetto prematuro. Muore in culla. E finisce come deve finire: la resa.
Il contro-golpe. Comincia subito. Erdogan organizza una repressione durissima. Le immagini dei giovani soldati con le mani sul capo che vengono picchiati sul ponte sul Bosforo sono l’icona del futuro prossimo della Turchia. I generali che hanno mandato allo sbaraglio questi ragazzi sono dei mediocri comandanti. “Tradimento” è la parola usata da Erdogan. E i traditori di solito vengono condannati a morte. La pena capitale in Turchia è stata abolita nel 2004, ma questo è un altro film. Parliamo di militari, legge marziale, uno stato d’emergenza che il governo sta usando per regolare tutti i conti aperti da questa storia. Da quale sentimento si sta facendo guidare Erdogan? Paranoia e vendetta. Le pagine di Malaparte che ci introducono nella caverna buia dello spirito arroventato del potente che ha visto per un attimo infinito sfuggirgli di mano lo scettro:
Vi sono talvolta dei momenti, nella vita di un dittatore, che illuminano il fondo torbido, morboso, sessuale, della sua potenza. Sono delle crisi che rivelano tutto l’elemento femminile del suo carattere. Nei rapporti tra un dittatore e i suoi partigiani, quelle crisi si manifestano il più spesso con la sedizione. Minacciato da essere dominato a sua volta da coloro ch’egli ha umiliati e asserviti, il dittatore si difende con estrema energia contro la rivolta dei suoi partigiani: è la donna che si difende in lui. Cromwell, Lenin, Mussolini, tutti hanno conosciuto queste crisi.
Obiezione: Erdogan non è un dittatore, ma un presidente democraticamente eletto.
Vero, i turchi hanno votato, scelto Erdogan e il destino che con lui viaggia rapidamente verso terre senza mappe. Ma tutto questo non sposta di una virgola i fatti del teatro di guerra (la Turchia) e non cancella il tumulto in corso nell’anima di Erdogan. L’avventura politica del leader turco è continuamente mossa da uno stato d’eccezione. La storia è maestra di vita e Malaparte ancora ci aiuta a capire, interpretare, decrittare le mosse:
Cromwell non ha esitato a impiegare il ferro e il fuoco per sedare la ribellione dei livellatori, quella specie di comunisti inglesi del diciassettesimo secolo; Lenin non ha avuto pietà per i marinai insorti di Cronstadt; Mussolini è stato molto duro con le camicie nere di Firenze, la cui rivolta è durata un anno, fino alla vigilia dell’ottobre 1922.
Erdogan farà lo stesso. Lo ha già fatto. Al golpe risponde con il contro-golpe. La storia non mente. Mai. Ha fatto arrestare 2.389 membri delle forze armate, tra i quali 29 colonnelli e 5 generali. Ha fatto arrestare 20 magistrati e ha rimosso 2.745 giudici. Democrazia? E’ uno stato d’eccezione dove la democrazia non esiste, è sospesa e forse non tornerà mai più.

Il burattinaio. In questo scenario, Erdogan aveva bisogno di indicare alla massa turca (qui servirà tra poco l’analisi di Elias Canetti) un grande orchestratore, un burattinaio. Lo ha trovato subito: Fetullah Gulen, il suo avversario in auto-esilio negli Stati Uniti. Gulen abita in Pennsylvania, davvero è lui l’ispiratore del golpe fallito? Ha pochissima importanza. Colpevole o innocente, Gulen è il carattere perfetto che serve alla sceneggiatura di Erdogan. E’ un avversario che ha tutti gli ingredienti per essere il Grande Nemico: un religioso, un Imam di profonda visione e influenza, uno scrittore prolifico, un uomo che crede in un Islam universale, il suo movimento Hizmet ha milioni di seguaci in Turchia. Gulen ha risposto alle accuse ribaltando lo scenario: “Il golpe è una messa in scena”. Signore e signori, siamo a teatro. Tutti recitano una parte.
Dov’è la verità? Non importa, siamo dentro una drammatica rappresentazione, la lotta per la sopravvivenza e il dominio. Siamo nel dedalo dell’anima umana, stiamo passeggiando nelle sue stanze più segrete, tra magnificenza e rovine, per non smarrirci dobbiamo conoscere i movimenti della massa e gli strumenti del potere.
Quello in corso è un gioco di mascheramento e smascheramento continuo. Velocità e travestimento, rapidità nel cogliere l’attimo, il gesto supremo e ultimo del catturare, afferrare il nemico e tenerlo in pugno, smascherarlo prima di finirlo. Scrive Elias Canetti nel suo capolavoro, Massa e Potere:
Alla sfera dell’afferrare appartiene un tipo completamente diverso di rapidità: la rapidità dello smascherare. Ci troviamo dinanzi a un essere innocuo oppure devoto, gli strappiamo la maschera: ed ecco un nemico. Per poterlo fare, bisogna che lo smascheramento sia fulmineo. Questo tipo di velocità può essere definito drammatico. L’azione del raggiungere, in tale caso, si restringe entro un brevissimo spazio e si concentra. (…) Di maschera in maschera si possono determinare notevoli spostamenti nei rapporti di potere. La simulazione del nemico si controbatte con la propria.
Simulazione. La Turchia è questo teatro, uno specchio deformato dove il popolo vede una storia e si riconosce nei protagonisti. Ma fino a quando?
L’America. Gulen in questa fase è solo un chiodo lontanissimo a cui appendere il quadro della paranoia turca: è la Casa Bianca ad avere organizzato il golpe. Lo scenario cospiratorio serve a Erdogan per alimentare uno stato di tensione permanente. E’ quello di cui ha bisogno per continuare la sua operazione di annientamento di qualsiasi dissenso. Chi amico del mio nemico è un mio nemico. Dalla teoria alla pratica il passo è fulmineo e il governo turco ha chiesto l’estradizione di Gulen evocando addirittura l’asilo dato all’Imam come un “atto di guerra”. Non a caso l’attenzione di Erdogan si è spostata subito sulla base aerea di Incirlik, usata dall’Air Force per i raid contro l’Isis.

La base è sede di forze multinazionali (e i suoi silos possono ospitare fino a cento testate nucleari), ma il plot della controffensiva di Erdogan punta sugli Stati Uniti. Ieri lo spazio aereo della base è stato chiuso, l’energia elettrica staccata. Ankara gioca pesante. E stamattina il generale turco Bekir Ercan Van, è stato arrestato, con l’accusa di aver dato supporto aereo ai golpisti. E’ il tassello che manca: il grande complotto americano per far cadere Erdogan. La domanda retorica che sta dietro questi atti è solo una: come hanno potuto le forze americane non vedere quello che stava accadendo nella base? Avevano i radar spenti? Anche qui, nessuna prova, non importa quanto tutto questo sia allo stato attuale cosparso di verità. Conta la rappresentazione. E questa dice che gli Stati Uniti sono considerati dalla Turchia ispiratori (e non solo) del golpe. Questa è la verità del momento, dell’istante, dell’afferrare. Rapidità non fa rima con verità. Ma crea altre conseguenze, espande come un’onda i suoi effetti sullo scenario del Medio Oriente.
La realtà della crisi tra Stati Uniti e Turchia è una crepa che si sta allargando. Tutte le operazioni più importanti del Pentagono in Medio Oriente passano da quella base. Da ieri l’Air Force ha un problema operativo. E la Casa Bianca si pone la domanda che si pose il vecchio compagno Lenin: che fare? La Turchia è un paese alleato della Nato. Ma la sua politica ha già deragliato. Erdogan ha chiesto il rimpatrio di Gulen. Il segretario di Stato John Kerry ha risposto che servono le prove. Vere o false, la Turchia al momento che riterrà oppurtuno le fornirà. E’ una drammatica partita a scacchi. Ma gli Stati Uniti possono permettersi un atto simile? Consegnare a Erdogan il suo unico avversario rimasto? E cosa faranno i seguaci di Gulen in Turchia? Il futuro di Erdogan non è ancora scritto. Ha evitato il golpe, ma sul paese si sta allungando l’ombra di una guerra civile.
La rivoluzione di Erdogan. Per queste ragioni, il contro-golpe di Erdogan ha una logica narrativa a cui il leader in assetto rivoluzionario ora non può sfuggire. Si sono scambiati i ruoli: il golpista ora è lui. Il presidente turco è obbligato a seguire questo copione. O lo segue o prima o poi cade. Ancora nel libro di Malaparte troviamo pagine preziose per capire il processo in corso:
L’opportunismo in una rivoluzione, è un tradimento che si paga. Guai ai dittatori che si mettono alla testa di un esercito rivoluzionario e indietreggiano davanti alla responsabilità di un colpo di Stato. Può darsi che essi giungano, con la furberia e il compromesso, a impadronirsi legalmente del potere: ma le dittature che sono il risultato di una combinazione, non sono che delle mezze dittature. Esse non sono durevoli. La legittimità di una dittatura non consiste che nella violenza rivoluzionaria. E’ il colpo di Stato che la dà la forza di stabilirsi saldamente.
La strada di Erdogan è segnata. Deve continuare a marciare con il suo esercito e il suo popolo. Annientare ogni opposizione è il suo compito. La sua condizione è quella del prigioniero con la spada circondato dai suoi fantasmi. Deve ristabilire in fretta l’ordine. Perché?
Un altro libro maledetto ci aiuta a capire le dinamiche dell’instabilità e dell’anarchia, è Il libro del Signore di Shang, uno dei grandi classici cinesi, testo di fronte al quale Hobbes e Machiavelli impallidiscono per la durezza della teoria politica esposta. Andiamo al punto, l’anarchia e l’ordine:
Se da una condizione di governo e di ordine, il popolo passa all’anarchia, e poi si cerca di governare questa anarchia, essa non farà che aumentare; occorre pertanto governarla mentre si è ancora in una condizione di governo e di ordine, e così vi saranno vero governo e vero ordine; invece, se la si governa mentre è in una condizione di anarchia, continuerà a esserci anarchia.
La Turchia è in una condizione di disordine. Erdogan deve polverizzare l’anarchia. E per farlo dovrà essere durissimo. Ecco perché si è cominciato a parlare di pena di morte per i cospiratori. La punizione in questo regime di realtà aumentata, è il centro del potere:
È proprio nella natura del popolo essere ordinato; sono le circostanze a causare il disordine. Pertanto, nell’applicare le punizioni, le trasgressioni lievi saranno considerate gravi; se non vi sono trasgressioni lievi, quelle gravi non avranno modo di occorrere.
Questo è ciò che si chiama “governare il popolo in condizioni di legge e ordine”. Il libro del Signore di Shang è un testo fondamentale per capire le dinamiche del potere, “di abbagliante durezza”, emette una luce sinistra perché il lettore la percepisce in tutta la sua potenza e realtà. Il caso turco in questo senso è un caso perfetto per saggiare quanto scritto:
La punizione genera forza, la forza genera potenza, la potenza genera soggezione, la soggezione genera virtù. La virtù trae origine dalle punizioni.
Non troverete un testo di teoria politica altrettanto tagliente e inquietante. Vi inseguirà di notte e di giorno, perché la realtà ne fa riverberare le pagine, un tormento.
Siamo alla fine, alla domanda di Macbeth: “A che punto è la notte?”. Il viaggio al buio della Turchia è appena iniziato.
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Questo era il preludio della nostra storia. Nel giro di pochi anni, il racconto è andato avanti. E la direzione è quella della guerra.