9 Luglio
Come prima più di prima? No, bisogna cambiare
L'accelerazione e la trasformazione della crisi del coronavirus. Un'esperienza che non può riportare a un passato vicinissimo che non funzionava. Un'indagine di Maite Carpio sulle lezioni della pandemia, la necessità di ripensare il nostro sistema, a cominciare dalla scuola e dagli spazi dove viviamo
di Maite Carpio
In questo ritorno alla nuova normalità post Covid ci sono due scuole di pensiero e comportamento. Chi non indossa più la mascherina e al massimo prova a tenere una certa distanza di sicurezza da sospetti “untori” (la maggior parte) e chi ancora mantiene la prudenza e continua a dar retta al guardingo ministro Speranza (sono ormai in pochi). In questo ritorno frenetico per riappropriassi del quotidiano della vita e soprattutto degli introiti, c’è il rischio di dimenticarsi velocemente quello che abbiamo imparato durante questa parentesi imposta dalla Natura. Abbiamo la tendenza innata a rimuovere i brutti ricordi e siamo sull’orlo dell'attacco di “nostalgia” dei tempi del pre Covid, come se fosse quello il mondo al quale vogliamo tornare. Siamo sicuri che fosse tutto così bello?
Il mondo si è fermato, gli abitanti del pianeta hanno avuto tempo per pensare. Siamo stati tutti a stretto contatto con la realtà della nostra vita, a cominciare dalla casa, uno spazio fisico più o meno grande, che abbiamo esplorato fino all’estremo, alla ricerca di un angoletto dove avere un po’ di privacy. I più fortunati si sono goduti un giardino o una terrazza, altri si sono accontentati di un balcone dove applaudire chi lavora nella Sanità, altri ancora di una finestra, altri non avevano nemmeno quella. Alla fine però, tutti abbiamo raggiunto una particolare consapevolezza dei propri privilegi e delle proprie mancanze. Infatti il primo giorno di riapertura ci sono state file infinite davanti ai negozi di Ikea, non perché proponevano saldi spettacolari ma perché abbiamo avuto tanti giorni per vedere quello che ci mancava per fare della nostra casa un posto migliore. Gli altri negozi erano vuoti.
In definitiva, ci è rimasto chiaro il fatto che la nostra è una società disuguale. E non solo per una questione...
di Maite Carpio
In questo ritorno alla nuova normalità post Covid ci sono due scuole di pensiero e comportamento. Chi non indossa più la mascherina e al massimo prova a tenere una certa distanza di sicurezza da sospetti “untori” (la maggior parte) e chi ancora mantiene la prudenza e continua a dar retta al guardingo ministro Speranza (sono ormai in pochi). In questo ritorno frenetico per riappropriassi del quotidiano della vita e soprattutto degli introiti, c’è il rischio di dimenticarsi velocemente quello che abbiamo imparato durante questa parentesi imposta dalla Natura. Abbiamo la tendenza innata a rimuovere i brutti ricordi e siamo sull’orlo dell'attacco di “nostalgia” dei tempi del pre Covid, come se fosse quello il mondo al quale vogliamo tornare. Siamo sicuri che fosse tutto così bello?
Il mondo si è fermato, gli abitanti del pianeta hanno avuto tempo per pensare. Siamo stati tutti a stretto contatto con la realtà della nostra vita, a cominciare dalla casa, uno spazio fisico più o meno grande, che abbiamo esplorato fino all’estremo, alla ricerca di un angoletto dove avere un po’ di privacy. I più fortunati si sono goduti un giardino o una terrazza, altri si sono accontentati di un balcone dove applaudire chi lavora nella Sanità, altri ancora di una finestra, altri non avevano nemmeno quella. Alla fine però, tutti abbiamo raggiunto una particolare consapevolezza dei propri privilegi e delle proprie mancanze. Infatti il primo giorno di riapertura ci sono state file infinite davanti ai negozi di Ikea, non perché proponevano saldi spettacolari ma perché abbiamo avuto tanti giorni per vedere quello che ci mancava per fare della nostra casa un posto migliore. Gli altri negozi erano vuoti.
In definitiva, ci è rimasto chiaro il fatto che la nostra è una società disuguale. E non solo per una questione di metri quadri. C'è stato anche il divario digitale, chi godeva del lusso della fibra ottica o subiva le ristrettezze di una normale linea telefonica. Non tutti i membri di una famiglia avevano il proprio computer per lavorare o seguire le lezioni a scuola. La scuola! La cenerentola del nostro paese (sostituita a tutti gli effetti dalle donne di casa). Siamo stati testimoni oculari della precarietà del sistema, di quanto è fondamentale il ruolo dei professori, di quanto sono pagati male e delle differenze che ci sono tra le diverse realtà scolastiche.
Una recente ricerca della Federal Reserve Bank di San Francisco, sottolineava l'importanza che ha avuto il livello di formazione nell’impatto della pandemia negli Stati Uniti. In tre mesi hanno perso il posto di lavoro 20 milioni di persone, tra questi la percentuale aumenta del 12% tra coloro che non hanno titolo di studio, il 5,5% tra laureati o diplomati. Lo stesso studio consiglia un aumento della spesa in educazione, come leva per il recupero economico e sociale del paese. Ottimo spunto da prendere in considerazione anche da noi. Così come non è da sottovalutare lo spropositato numero di vittime dovute al Covid negli Stati Uniti o Inghilterra, cifre che fanno rabbrividire, non solo per la leggerezza con la quale i loro governanti hanno affrontato la crisi, ma per come evidenziano le disuguaglianze sociali che incombevano da tempo in entrambi i paesi. Prima della pandemia in America il 15% della popolazione riceveva un aiuto publico per poter mangiare, il 42% soffriva di obesità, quasi il 10% non aveva copertura sanitaria e il 20% aveva accesso alle cure attraverso il Medicaid (l'assicurazione sanitaria pubblica destinata ai più poveri). Per non parlare di quello che succederà nei paesi in via di sviluppo. Un effetto positivo della globalizzazione è stato quello di ridurre la fame nel mondo e la povertà estrema, ora si calcola che circa 50 milioni di persone, nei prossimi sei mesi, torneranno a vivere sotto la soglia di 1,90 dollari al giorno.
In questi mesi abbiamo visto meglio anche le nostre città, passeggiando da soli o nelle immagini del telefonino, quanto erano belle le foto che circolavano sulle chat di città fantasmagoriche, vuote come avremo voluto godercele sempre! Venezia, Roma, Firenze, Parigi o Spalato senza turisti, qualcuno sostiene ancora che quell’assalto alla diligenza delle città d’arte fosse accettabile, per non dire sostenibile? Qualche giorno fa il professore Wouter Vanstiphout che si occupa di disegno come politica all’University of Tecnology di Delft, in Olanda, sosteneva sul Guardian che il Covid può diventare il catalizzatore di una decentralizzazione sempre più necessaria nei grandi centri urbani e proponeva la creazione di uno spazio articolato - per evitare i grandi conglomerati degli ospedali, le torre infinite di uffici uno sopra o sotto l’altro, gli sterminati viaggi dalle periferie per raggiungere i posti di lavoro - in piccole unità distribuite nel territorio. Ospedali e scuole lontani dal centro, capaci di fortificare la dimensione locale. Se aggiungiamo la fibra ottica, sarebbe un mondo da sogno.
Ci siamo resi conto dell'importanza che ha lo spazio dove abitiamo e soprattutto del valore del tempo. Siamo tornati, inconsciamente, a considerare le nostre città come un luogo sicuro, il posto della nostra casa e della nostra quotidianità. Sempre il prof Vanstiphout sostiene che la minaccia non è l’immigrazione, ma il turismo esacerbato e la disuguaglianza che provocano i flussi migratori incontrollati, un'avvertenza contro il gigantismo delle città e la devastazione dei servizi pubblici.
Dall’altra parte del mondo, un professore di architettura a Yale, Joel Sanders, ha evidenziato in un articolo pubblicato sul New York Times un problema diverso dello spazio, quello verso le persone che ci avvicinano e ha proposto il concetto “non-compliantbody”, quello dei corpi non conformi. Siamo diventati estremamente consapevoli del confine nel confronto con gli altri e delle superfici che dobbiamo toccare. Lo spazio è una sorte di ring dove conviene tenere la distanza di sicurezza. Come dice Sanders, il coronavirus non è solo una questione di salute ma anche di disegno. Infatti come sono cambiati i negozi! Il plexiglass, una segnaletica strana inventata per indicare le distanze, i dispensatori di disinfettante ovunque, le mascherine, le file fuori... prima di attraversare la soglia di un negozio ti domandi quattro volte se avevi veramente bisogno di entrare! La risposta naturale è “meglio tornare a casa”.
Dalle nostre finestre, anche digitali, abbiamo anche visto come la maggior parte dei governi occidentali abbia dimostrato di essere pericolosamente poco preparata per affrontare una crisi di queste dimensioni e come sono venute al pettine le criticità dei sistemi sanitari e di welfare. Le tensioni sociali e politiche che da tempo s'annidavano sotto la superficie della globalizzazione hanno cominciato a esplodere (e siamo solo all’inizio), come si è visto con le proteste antirazziste negli Stati Uniti e nel resto del mondo per la morte di George Floyd o l’abbattimento delle statue della Storia. Reazioni di protesta che canalizzano una rabbia sociale che se la prende con il passato perché ha paura del futuro.
Governi non tutti capaci, ma comunque c'è stata una crescita esponenziale del protagonismo dello Stato nelle nostre vite, criticabile da tanti punti di vista, ma la politica e le istituzioni si sono riprese un ruolo fisico e attivo che prima non era così evidente (è stata la fortuna del nostro premier Conte), solo perché i cittadini hanno capito e accettato che ci voleva qualcuno al comando. Anche uno come Conte, che in tempi normali non avrebbe potuto permettersi nemmeno un quarto delle azioni che ha portato a termine, davanti agli occhi di un Partito Democratico complice e troppo silenzioso, viene apprezzato alla pubblica opinione come un leader all’altezza.
Lo Stato è sempre più protagonista, ma la vera questione è la seguente: “Per fare cosa”? Conviene ricordare il compagno Marx quando diceva che “i fenomeni storici accadono sempre due volte, la prima come tragedia, la seconda come farsa”. Siamo davanti a un sentiero che si biforca. Ripetere la storia di un presente disfunzionale, cioè non si fa niente per cambiare o tentare di percorre altre strade. Una via irresistibile potrebbe essere per i nostri politici quella di espandere i loro tentacoli inseguendo il modello cinese (i sistemi democratici si sono molto indeboliti con la pandemia), tentazione che sottilmente stanno già assaporando. L’unica riconversione sulla strada di Damasco è invece provare a rinnovare il vecchio stato sociale per farlo diventare davvero più efficiente, cioè capace di rispondere velocemente alle esigenze dei nostri tempi e rinforzare le istituzioni democratiche e i meccanismi di partecipazione dei cittadini. La politica deve riprendersi la centralità della scena, ma guidata da un obiettivo alto, illuminato, per rilanciare istituzioni migliori, più responsabili a livello sociale che garantiscono una maggior uguaglianza nella distribuzione della ricchezza e della conoscenza. Il Covid ha messo il Re a nudo: le nostre istituzioni sono troppo vulnerabili per affrontare le sfide di questo secolo. Tutta la frenesia “cantieristica” del governo Conte è solo fumo per i nostri occhi. Ci vogliono testa e sangue freddo, perciò anche un po’ di tempo. Nel 1942, William Beveridge, professore alla London School of Economics, iniziò a redigere, insieme a una commissione seria, il famoso Beveridge Report che avrebbe guidato la riforma dello stato sociale inglese dopo la Seconda guerra mondiale. Non tutti furono d’accordo, ma il tempo ha dimostrato quanto fu visionaria quella proposta di riforma sociale che alla fine riuscì a imporsi in tutta Europa.
A questo punto vi starete domandando dove voglio arrivare con tutte queste disquisizioni, mentre io ho davanti la faccia del titolare che mi guarda di traverso. Ecco, il mio è solo un invito a ripensare le nostre vite e il nostro tempo, a fare tesoro dell’esperienza vissuta per costruire un mondo se non migliore almeno diverso. Sono tempi interessanti, ma sopratutto da ripensare.
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10. Limitazione di responsabilità
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migliorare l'efficienza e la sicurezza del Servizio; tali interventi potrebbero comportare il rallentamento
o
l'interruzione del Servizio. Il Fornitore si impegna a contenere i periodi di interruzione o rallentamento
nel minore
tempo possibile e nelle fasce orarie in cui generalmente vi è minore disagio per gli Utenti. Ove
l'interruzione del
Servizio si protragga per oltre 24 ore, l'Utente avrà diritto a un'estensione dell'Abbonamento per un numero
di giorni
pari a quello dell'interruzione; in tali casi, l'Utente riconosce che l'estensione dell'Abbonamento è
l'unico rimedio in
suo favore, con la conseguente rinunzia a far valere qualsivoglia altra pretesa nei confronti del
Fornitore.
10.3 L'Utente riconosce e accetta che nessuna responsabilità è imputabile al Fornitore:
- per disservizi dell'Abbonamento derivanti da malfunzionamenti di reti elettriche e telefoniche ovvero di
ulteriori
servizi gestiti da terze parti che esulano del tutto dalla sfera di controllo e responsabilità del Fornitore
(per
esempio, disservizi della banca dell'Utente, etc...);
- per la mancata pubblicazione di contenuti editoriali che derivi da cause di forza maggiore.
10.4 In tutti gli altri casi, l'Utente riconosce che la responsabilità del Fornitore in forza del contratto
è limitata
alle sole ipotesi di dolo o colpa grave.
10.5 Ai fini dell'accertamento di eventuali disservizi, l'Utente accetta che faranno fede le risultanze dei
sistemi
informatici del Fornitore.
11. Modifica dei termini d'uso
11.1 L'Abbonamento è disciplinato dai termini d'uso approvati al momento dell'acquisto.
11.2 Durante il periodo di validità del contratto, il Fornitore si riserva di modificare i termini della
fornitura per
giustificati motivi connessi alla necessità di adeguarsi a modifiche normative o obblighi di legge, alle
mutate
condizioni del mercato di riferimento ovvero all'attuazione di piani aziendali con ricadute sull'offerta dei
contenuti.
11.3 I nuovi termini d'uso saranno comunicati all'Utente con un preavviso di almeno 15 giorni rispetto alla
scadenza del
periodo di fatturazione in corso ed entreranno in vigore a partire dall'inizio del periodo di fatturazione
successivo.
Se l'Utente non è d'accordo con i nuovi termini d'uso, può esercitare la disdetta secondo quanto previsto al
precedente
articolo 3.
11.4 Ove la modifica dei termini d'uso sia connessa alla necessità di adeguarsi a un obbligo di legge, i
nuovi termini
d'uso potranno entrare in vigore immediatamente al momento della comunicazione; resta inteso che, solo in
tale ipotesi,
l'Utente potrà recedere dal contratto entro i successivi 30 giorni, con il conseguente diritto ad ottenere
un rimborso
proporzionale al periodo di abbonamento non goduto.
12. Trattamento dei dati personali
12.1 In conformità a quanto previsto dal Regolamento 2016/679 UE e dal Codice della privacy (decreto
legislativo 30
giugno 2003, n. 196), i dati personali degli Utenti saranno trattati per le finalità e in forza delle basi
giuridiche
indicate nella privacy policy messa a disposizione dell'Utente in sede di registrazione e acquisto.
12.2 Accettando i presenti termini di utilizzo, l'Utente conferma di aver preso visione della privacy policy
messa a
disposizione dal Fornitore e di averne conservato copia su supporto durevole.
12.3 Il Fornitore si riserva di modificare in qualsiasi momento la propria privacy policy nel rispetto dei
diritti degli
Utenti, dandone notizia a questi ultimi con mezzi adeguati e proporzionati allo scopo.
13. Servizio clienti
13.1 Per informazioni sul Servizio e per qualsiasi problematica connessa con la fruizione dello stesso,
l'Utente può
contattare il Fornitore attraverso i seguenti recapiti: help@newslist.it
14. Legge applicabile e foro competente
14.1 Il contratto tra il Fornitore e l'Utente è regolato dal diritto italiano.
14.2 Ove l'Utente sia qualificabile come consumatore, per le controversie comunque connesse con la
formazione,
esecuzione, interpretazione e cessazione del contratto, sarà competente il giudice del luogo di residenza o
domicilio
del consumatore, se ubicato in Italia.