19 Agosto
La semplice e scomoda verità
Il discorso di Mario Draghi sull'emergenza del coronavirus, i sussidi che finiscono e il debito scaricato sulle spalle dei giovani. Fiat Cesare, storia di Romiti. Non fu solo la Fiat, ma la vicenda del paese. America 2020, i Democratici danno lo scettro a Biden, cronaca di una convention che oggi ha un nemico (Trump) ma non racconta il governo di domani
Che succede? Mario Draghi ha detto una verità che qui scriviamo da sempre: il governo sta accumulando debito, questo debito peserà sulle spalle dei giovani, i sussidi finiranno e per i giovani non c'è nessuna politica. Pare che l'uscita abbia scomposto la cipria e la parrucca d'ordinanza del premier e di parecchi suoi ministri. Draghi è un uomo libero. Parla da uomo libero. E con qualche granello in più di esperienza, letture e autorevolezza rispetto ai regnanti di Palazzo Chigi. La sortita di Draghi al meeting di Rimini ha alimentato subito il piatto forte di cui si nutre sempre la politica debole: c'è una cospirazione, un disegno per farci cadere e sostituirci. Non c'è nessun complotto, c'è semplicemente e inesorabilmente la realtà che avanza. E la semplicità della verità pronunciata da un uomo che non ha bisogno di chiedere un posto al sole. Sui giornali la storia va come il pane, è un piatto tipico nel menù della politica, apertura del Corriere della Sera:
Dunque le parole dell'ex presidente della Banca centrale europea diventano "una ricetta" e c'è "la distinzione tra debito buono e cattivo". Anche questa è una cosa nota ai lettori di List: il debito che stiamo accumulando è fuori dalla programmazione per il futuro, è un rattoppo, una logica difensiva, d'emergenza. Il governo ha aumentato il debito pubblico di 100 miliardi e si stenta a capire dove siano finiti realmente tanti sono i rivoli di spesa improduttiva che sono stati alimentati solo al fine di catturare il consenso che, come sempre svanirà. Pensate agli 80 euro e a Renzi, fu mandato a casa con il voto sul referendum nonostante un ciclo di spesa elettorale robusto.
Sulla prima pagina di Repubblica emerge il "fastidio" del manovratore:
Dunque Draghi "sorprende" Conte (non viene evocato mai il soggetto, "l'infastidito")...
Che succede? Mario Draghi ha detto una verità che qui scriviamo da sempre: il governo sta accumulando debito, questo debito peserà sulle spalle dei giovani, i sussidi finiranno e per i giovani non c'è nessuna politica. Pare che l'uscita abbia scomposto la cipria e la parrucca d'ordinanza del premier e di parecchi suoi ministri. Draghi è un uomo libero. Parla da uomo libero. E con qualche granello in più di esperienza, letture e autorevolezza rispetto ai regnanti di Palazzo Chigi. La sortita di Draghi al meeting di Rimini ha alimentato subito il piatto forte di cui si nutre sempre la politica debole: c'è una cospirazione, un disegno per farci cadere e sostituirci. Non c'è nessun complotto, c'è semplicemente e inesorabilmente la realtà che avanza. E la semplicità della verità pronunciata da un uomo che non ha bisogno di chiedere un posto al sole. Sui giornali la storia va come il pane, è un piatto tipico nel menù della politica, apertura del Corriere della Sera:
Dunque le parole dell'ex presidente della Banca centrale europea diventano "una ricetta" e c'è "la distinzione tra debito buono e cattivo". Anche questa è una cosa nota ai lettori di List: il debito che stiamo accumulando è fuori dalla programmazione per il futuro, è un rattoppo, una logica difensiva, d'emergenza. Il governo ha aumentato il debito pubblico di 100 miliardi e si stenta a capire dove siano finiti realmente tanti sono i rivoli di spesa improduttiva che sono stati alimentati solo al fine di catturare il consenso che, come sempre svanirà. Pensate agli 80 euro e a Renzi, fu mandato a casa con il voto sul referendum nonostante un ciclo di spesa elettorale robusto.
Sulla prima pagina di Repubblica emerge il "fastidio" del manovratore:
Dunque Draghi "sorprende" Conte (non viene evocato mai il soggetto, "l'infastidito") è "un'ombra" che lo "inquieta" e mi raccomando signora mia con "l'agenda della crescita". Film già visto, con attori diversi e decisamente migliori di quelli che in questo momento calcano il palcoscenico.
01
"I sussidi finiranno"
Mario Draghi ha detto le cose che pensano tutti, le ha sistemate secondo un percorso logico, messe in chiaro e rese disponibili, per sapere, per capire:
Dodici anni fa la crisi finanziaria provocò la più grande distruzione economica mai vista in periodo di pace. Abbiamo poi avuto in Europa una seconda recessione e un’ulteriore perdita di posti di lavoro. Si sono succedute la crisi dell’euro e la pesante minaccia della depressione e della deflazione. Superammo tutto ciò. Quando la fiducia tornava a consolidarsi e con essa la ripresa economica, siamo stati colpiti ancor più duramente dall’esplosione della pandemia: essa minaccia non solo l’economia, ma anche il tessuto della nostra società, così come l’abbiamo finora conosciuta; diffonde incertezza, penalizza l’occupazione, paralizza i consumi e gli investimenti. In questo susseguirsi di crisi i sussidi che vengono ovunque distribuiti sono una prima forma di vicinanza della società a coloro che sono più colpiti, specialmente a coloro che hanno tante volte provato a reagire. I sussidi servono a sopravvivere, a ripartire. Ai giovani bisogna però dare di più: i sussidi finiranno e resterà la mancanza di una qualificazione professionale, che potrà sacrificare la loro libertà di scelta e il loro reddito futuri. La società nel suo complesso non può accettare un mondo senza speranza; ma deve, raccolte tutte le proprie energie, e ritrovato un comune sentire, cercare la strada della ricostruzione.
E ancora, il pragmatismo:
Nelle attuali circostanze il pragmatismo è necessario. Non sappiamo quando sarà scoperto un vaccino, né tantomeno come sarà la realtà allora. Le opinioni sono divise: alcuni ritengono che tutto tornerà come prima, altri vedono l’inizio di un profondo cambiamento. Probabilmente la realtà starà nel mezzo: in alcuni settori i cambiamenti non saranno sostanziali; in altri le tecnologie esistenti potranno essere rapidamente adattate. Altri ancora si espanderanno e cresceranno adattandosi alla nuova domanda e ai nuovi comportamenti imposti dalla pandemia. Ma per altri, un ritorno agli stessi livelli operativi che avevano nel periodo prima della pandemia, è improbabile. Dobbiamo accettare l’inevitabilità del cambiamento con realismo e, almeno finché non sarà trovato un rimedio, dobbiamo adattare i nostri comportamenti e le nostre politiche. Ma non dobbiamo rinnegare i nostri principii. Dalla politica economica ci si aspetta che non aggiunga incertezza a quella provocata dalla pandemia e dal cambiamento. Altrimenti finiremo per essere controllati dall’incertezza invece di esser noi a controllarla. Perderemmo la strada. Vengono in mente le parole della ‘preghiera per la serenità’ di Reinhold Niebuhr che chiede al Signore: Dammi la serenità per accettare le cose che non posso cambiare,/ Il coraggio di cambiare le cose che posso cambiare, / E la saggezza di capire la
differenza".
Lo sentite questo rumore? Tic tac tic tac. Non è solo il tempo che scorre, inesorabile, è il suono dell'intelligenza che lavora coordinandosi con lo spirito del tempo. Questo è Draghi, ciò che non sono gli altri al comando. È questo che infastidisce più di tutto, il logos, il discorso e la capacità di proiettarlo. Una cosa semplice e dirompente. In un mondo di ignoranti, viviamo tempi interessanti. Forse troppo.
02
Il mondo di mezzo della politica
Un mondo senza speranza di cui parla Draghi è il mondo di mezzo della politica. Questo è il quadro che abbiamo davanti. Non è inevitabile, si può cambiare. Accade ogni giorno, in milioni di famiglie, un miracolo quotidiano. D'altronde, la reale discussione in corso nel Parlamento non è quella che ha dipinto Draghi, è altro. Sono in corso manovrette per darsi un assetto spartitorio per l'oggi (il patto già mezzo ampiamente sfigurato tra Movimento Cinque Stelle e Pd) e per il domani (la firma del documento anti-inciucio nel centrodestra, di nessun valore perché la politica vive di mutazioni).
In mezzo, la saga dei pentastellati che fanno i puri e lottizzano come nella Prima Repubblica, l'odissea del Partito democratico che ha perso identità ma ha guadagnato carrieristi, il vuoto di proposta della Lega che non è né Nord né Sud, ma il profilo Instagram di Salvini, il nazionalismo retrò del partito di Giorgia Meloni, coriandoli di partitini liberali che servono solo come taxi per farsi eleggere o cooptare da qualche parte, una sinistra che in questi tempi avrebbe una grande missione da compiere ma non riesce a catturare l'immaginario dei giovani evocati da Draghi, quello dovrebbe essere il terreno da coltivare. Il pericolo più grande? Il fallimento della riapertura della scuola, sarebbe lo sfascio, il tradimento più grande, un altro passo verso la creazione di una nuova classe di alienati pronti a trovare un bersaglio (facile, è più che visibile) sul quale rovesciare tutta la giusta rabbia per un futuro negato. Lo scriviamo come memento, a futura memoria. E speriamo vivamente di sbagliarci.
03
Fiat Cesare
È morto Cesare Romiti, fu un grande manager italiano. La sua figura è meno nota di quanto si immagini, fu un uomo che governò per 25 anni la Fiat (e influenzò la politica), ma il tempo aiuta a vedere le cose con più distacco, comincia a emettere un giudizio sereno, nel quadro della storia. Su Romiti il titolare ha apparecchiato un ritratto e un'intervista del 2003 pubblicata sul Giornale, all'indomani della morte di Gianni Agnelli.
26 gennaio 2003. Cesare Romiti in piedi nel Duomo di Torino durante la celebrazione dei funerali di Gianni Agnelli (Foto Ansa).Un Cesare a Torino. Due fiumi maestosi, il Po e il Tevere. Lui e Agnelli. Il manager e l'Avvocato. L'Italia ruggente e declinante. Il Lingotto e la Mole. Gli anni di piombo e la maggioranza silenziosa. Il padrone e il sindacato. Il presente ricco e il passato povero. L'Iri delle Partecipazioni statali e il privato. Il picchetto ai cancelli e la marcia dei 40 mila. L'automobile e la finanza. Questi anni alla Fiat e quelli senza la Fiat. Il tramonto della Fiat italiana e l'alba quella americana. Una vita, una moltitudine, una solitudine, uno, nessuno, centomila Cesare Romiti.
"L'ho fatto per rispetto", mi disse. Il rispetto era per Gianni Agnelli. Il fatto era quell'uomo dritto come un soldato nella garitta, una colonna romana che s'elevava tra la folla, nel Duomo di Torino. Era il suo ultimo saluto all'Avvocato. Il calendario segnava la data del 26 gennaio del 2003. Diciassette anni dopo, siamo qui, sul taccuino del cronista c'è un'altra ora senz'ombra da inseguire.
Cesare Romiti, classe 1923, nato a Roma e destinato alle brume del Nord industriale, figlio di un impiegato delle Poste morto nel 1941, l'orfano che studiava e lavorava per diventare Cesare Romiti. Di quest'uomo si conosce la forza del dritto (l'uomo potente) ma è il colpo del rovescio (il ragazzo povero) che forgia il campione.
C'erano almeno due Romiti che potevi incontrare: quello che parlava svelto, per sentenze, che disponeva e ordinava, assumeva e licenziava, diceva sì a se stesso e il no lo teneva in serbo come una proiettile nella cartuccera. Il capitano d'industria nella catena di montaggio del capitalismo. Poi c'era l'altro, il suo doppio, l'amante della musica e dell'arte, un uomo che nella sua scartavetrata tonalità mutava improvvisamente voce, con un balzo nella memoria si faceva più profonda e rotonda, caracollava nei ricordi e si catapultava nel futuro. Nel suo volto c'era un velo d'amaro, un tratto scolpito con il martello, il lavoro di un fabbro che non aveva trovato il tempo per il cesello, l'impeto, l'urgenza, la durezza della vita, erano disegnate nel tratto discendente delle sue labbra serrate, quasi imbrigliate ma, quando sorrideva, c'era l'uomo che si lasciava trasportare dalla corrente del fiume.
Romiti fu il Novecento, benzina e turbina, moneta e consiglio d'amministrazione, società per azioni e zero distrazioni. La sua avventura iniziò tra la polvere da sparo e gli esplosivi, fece coppia con Mario Schimberni (immaginate il tandem) alla Bombrini Parodi Delfino, proseguì la sua lunga marcia nella Snia Viscosa. Erano gli anni d'oro della chimica italiana che culminò con l'invenzione del Moplen, il polipropilene isotattico, il frutto del genio di Giulio Natta, premio Nobel per la chimica nel 1963. Romiti fu la fabbrica e il flusso del denaro. Impugnò la cloche di Alitalia nel 1970, erano gli anni della prima compagnia "full jet" del mondo. La sua cabrata coincide con il tramonto del sole dell'ingegner Vittorio alla Fiat, la successione di una generazione, la lotta per il comando e un nuovo inizio del capitalismo italiano.
Era capace di ruvidezze esemplari di cui si pentiva tempo dopo. Molto dopo. Con lui contava la prima impressione, restava sempre l'ultima. Stringeva il pugno e teneva il punto, anche quando sapeva di poter perdere. Duro negoziatore. Vinse tutti i suoi duelli alla Fiat, perse quelli fuori dal portone di casa Agnelli. Ascesa, caduta, limbo, ricordi, la storia di un uomo. L'Avvocato lo lasciava fare, lo proteggeva, dirottava i fastidi dello scettro con un "chiedete al dottor Romiti". E poi lo fulminava. Dei suoi avversari in Corso Marconi restò solo un Agnelli, l'Umberto, gli altri (tra loro c'era Carlo De Benedetti, l'Ingegnere) passarono le carte nell'accordo e nel disaccordo, al tavolo da poker si ritrovò infine a giocare un solitario, contro se stesso. Fu la partita che non riuscì a finire e che perse per fatto anagrafico e risultato di bilancio. Romiti fu un Napoleone senza Rivoluzione. Il Regno era di Gianni, la cavalleria era al comando del Cesare venuto dalla Città Eterna.
Diventò il "nuovo Valletta", correva l'anno 1974, diventarono 25 anni alla Fiat, il "The End" sulla sua sceneggiatura arrivò nel 1998. Gli anni Ottanta furono il suo capolavoro, non fu l'opera di un sol uomo, con lui c'erano Vittorio Ghidella e Giorgio Garuzzo, due visionari, accompagnati da dirigenti in gamba. Profitti e potere non bastarono. Come Saturno, Romiti divora i suoi figli. Licenziò anche la coppia del miracolo.
La storia di Romiti s'intreccia con quella dell'industria e della famiglia, tutte le successioni nell'impero Fiat non andarono in porto: non quella di Umberto, non quella di un ragazzo che sembrava il delfino, il predestinato, Giovanni Agnelli, "Giovannino", figlio di Umberto, 33 anni spenti in un letto d'ospedale, cancro. Chissà come sarebbe stata la storia di Cesare con un avvicendamento al trono. Le pagine scritte non hanno una contro-storia, dicono che finì troppo solo al comando. Fu abbattuto dal limite d'età 75 anni che nello Statuto della Fiat per Romiti significava una parola impronunciabile: pensione. Al suo posto arrivò Paolo Fresco, il "americano" di una storia destinata a ripetersi (con un successo, quello di Sergio Marchionne). Fresco veniva da General Electric, non conosceva il settore dell'automotive e, nonostante il nome, si ritrovò con un problema rovente: la Fiat che perdeva fiumi di denaro. Il declino era cominciato con l'ultima fase della gestione di Romiti. Il canto del cigno era cominciato da un pezzo. Per tutti i protagonisti di una stagione lunga e difficile della nostra storia.
Questi anni alla Fiat (titolo del libro intervista di Giampaolo Pansa, del 1988) per Romiti sono difficili, non è un viaggio sul velluto, il suo carattere coriaceo fu forgiato in un'era dove il pericolo non era un'ipotesi di calcolo aziendale, era reale. La sua vicenda è stata (anche) uno dei capitoli della politica italiana, di un paese che subiva la pressione crescente della prima globalizzazione e il vacillare del (dis)ordine internazionale che galoppava negli anni Settanta: la crisi energetica del 1973 con l'attacco di Siria e Egitto a Israele che diede uno scossone al mercato del petrolio e ai trasporti (in Italia arrivarono le "domeniche a piedi", la prima fu il 2 dicembre del 1973), gli anni del terrorismo, una lunga scia di sangue che spesso perfino gli storici dimenticano, la nascita delle cellule dei brigatisti e dei simpatizzanti in fabbrica, gli anni delle stragi, un conflitto politico violento, l'ascesa del Pci nelle elezioni del 1976 (e ricordiamo che siamo in piena Guerra Fredda) e il tentativo di Enrico Berlinguer di separare i destini del Pci da quelli dell'Unione Sovietica, il rapimento e l'uccisione di Aldo Moro, le dimissioni di Giovanni Leone e l'elezione di Sandro Pertini, la sconfitta dei laburisti e l'ascesa di Margaret Thatcher nel Regno Unito; il cambio di regime in Iran, la fuga dello Scià di Persia e l'arrivo dall'esilio di Parigi dell'ayatollah Khomeini, l'instabilità dei governi in Italia con il ballo di Palazzo Chigi dove si consumavano le lotte delle correnti della Democrazia Cristiana, i governi Andreotti, di Rumor, di Moro. Nella confusione e nella tragedia, stava bollendo in pentola il giro di boa degli Anni Ottanta. La Fiat, la famiglia Agnelli e Cesare Romiti erano al centro del Maelstrom, il cambiamento storico era in piena accelerazione, una trasformazione mondiale del mercato dell'auto, del gusto e del consumo (la Volkswagen lancia la Golf) che imponeva tagli, riorganizzazione, fusioni dei costruttori e l'apertura di nuovi mercati, tutti temi industriali sui quali Fiat era indietro.
È in questo scenario che Romiti infilò il colpo dei suoi anni d'oro, cavalcò l'abolizione della scala mobile, la svalutazione della Lira diede una mano all'export, ingaggiò un duro negoziato con i sindacati, organizzò la a marcia dei quarantamila a Torino, una svolta. Tra spinte e controspinte la Fiat di Romiti riuscì a rilanciarsi - e non era scontato - così arrivarono i modelli che hanno fatto storia, la Panda, la Croma, la Punto, la Thema e la rivoluzione dei motori Fire. La politica doveva accompagnare questa trasformazione e la Fiat a sua volta fare da apripista ai governi.
Tutti volevano (e dovevano) parlare con il Cesare di Corso Marconi, nell'era del pentapartito era il punto di riferimento a Palazzo Chigi per decidere le politiche industriali, lo accusavano di essere filo governativo, ma la Fiat non poteva essere anti governativa. Romiti fece scelte giuste e sbagliate con un'idea di Italia che doveva coincidere con i destini della Fiat perché la Fiat era (e resta) un pezzo fondamentale sulla scacchiera del nostro paese.
Arrivarono altre imprese, altri sogni di restare nel Grande Gioco del capitalismo, ma niente fu come questi anni alla Fiat. Il cerchio dell'addio si è chiuso oggi, ma l'epilogo a volte è una storia parallela, invisibile e immanente, l'ora senz'ombra era in attesa da quel giorno, 26 gennaio 2003, il passo dell'addio a Gianni Agnelli dopo 81 anni vissuti da re. C'era un ufficiale, in piedi, nel Duomo di Torino, era Romiti. Fiat Cesare.
04
L'intervista. Io, Agnelli, l'automobile e la Vecchia Signora
Questa è l'intervista con Cesare Romiti, l'unica uscita quel giorno, pubblicata sul Giornale del 25 gennaio del 2003. La morte di Gianni Agnelli lo aveva scosso tantissimo, ma accettò di parlare, fu generoso nel suo raccontarsi e raccontare l'Avvocato, un'avventura durata 25 anni.
Maggio 1992, Assemblea di Confindustria. Gianni Agnelli e Cesare Romiti (Foto Ansa).«Venticinque anni insieme...», dalla voce di Cesare Romiti emergono il passato e il presente, la gioia e il dolore, l'oggi e l’ieri - senza più un «domani» - che si incontrano nell'addio all'Avvocato. Agnelli e Romiti sono stati il motore della Fiat e del capitalismo italiano per un tempo che sembrava non dovesse mai finire. Romiti fa il suo ingresso in Fiat nel 1974, viene dipinto come il «proconsole di Cuccia». Due anni dopo, insieme a Umberto Agnelli e Carlo De Benedetti, fa parte del triumvirato che regge le sorti della Fiat in anni difficili. Ma l'Ingegnere si eclissa rapidamente, Romiti nel 1980 diventa amministratore unico della Fiat e affronta con Agnelli lo scontro sindacale più drammatico del dopoguerra: Fiat annuncia 14mila licenziamenti, piovono sulla più grande industria del Paese 35 giorni di sciopero, si teme per il futuro dell’azienda. Poi succede qualcosa che diventa storia: «La marcia dei quarantamila», i dirigenti del gruppo torinese che scendono in piazza contro il sindacato. È la vittoria della coppia Agnelli-Romiti che trova la forza e la fantasia per rilanciare l'auto, internazionalizzare l'azienda, portare a casa i marchi Lancia e Alfa Romeo. Una lunga marcia che sembra inarrestabile. Francesco Cossiga nomina Agnelli senatore a vita e nel 1996 l’Avvocato cede lo scettro della presidenza a Romiti. Tre anni dopo, fulminea, la separazione: Agnelli continua a guidare la Fiat, Romiti va al timone della Rcs e del Corriere della Sera. «Ci fu una riunione, lui disse parole di grande stima. Era commosso e io più di lui», ricorda. Oggi, il capitolo finale dell’ormai annunciato long goodbye, il lungo addio dell’Avvocato.
Presidente Romiti, per l'avvocato Agnelli è arrivata quella che Osvaldo Soriano chiama l'ora senz'ombra...
«Per me oggi... è un giorno difficile...».
Il tandem Agnelli-Romiti è stato per venticinque anni il motore della Fiat. Che cosa ricorda di quel sodalizio?
«Venticinque anni insieme non si possono ridurre a uno specifico episodio. Per me è difficile in questo momento raccontare un singolo istante della nostra storia. Voglio però ricordarne uno, uno solo che forse dice tutto dell'Avvocato. Quando il Lingotto fu trasformato, noi avevamo ancora gli uffici in Corso Marconi, e un giorno lui, ricordando quando andava con il nonno al Lingotto, mi disse: “Romiti, ma perché non ci trasferiamo là?”. Io eccepii che avevamo speso molto e spendere ancora mi dava qualche preoccupazione. Poi tornai da lui e gli dissi: torniamo al Lingotto. Era il posto dove Agnelli andava col nonno che prima di entrare vuotava il tabacco della pipa scuotendola sulla suola della scarpa. Diceva che in ufficio non si fuma, non si fuma per rispetto agli altri».
Un aggettivo per definire l'Avvocato?
«Io credo che non si debbano mai adoperare aggettivi roboanti, ma per Agnelli bisogna usare l’aggettivo “straordinario”. È stato un uomo che nella sua storia ha sovrastato un po’ tutti gli altri».
Avete litigato qualche volta?
«Oh sì, abbiamo vissuto insieme anche momenti turbinosi e difficili».
Qual è stato il passaggio più critico?
«Ah, il momento più difficile fu senza dubbio durante gli scioperi che nel 1980 bloccarono per 35 giorni gli stabilimenti della Fiat. C'era uno scontro durissimo con il sindacato, poi arrivò la marcia dei quarantamila. Fu una svolta per la storia del nostro Paese e per Agnelli la liberazione da un incubo».
Agnelli fu un presidente-padrone o un industriale illuminato? Lei si è mai sentito solo?
«Agnelli è sempre stato dietro di me, appoggiandomi e dandomi protezione quando era il momento. È stato davvero un presidente esemplare, unico. Mi dava sostegno e appoggio in tutte le mie azioni. Sono stato al suo fianco per venticinque anni e in venticinque anni Agnelli è stata la persona che più ho visto e io sono stato la persona che lui più ha visto. Il nostro era un rapporto quotidiano, intenso, indimenticabile. Non c'era giorno che non ci scambiassimo idee, opinioni, suggerimenti».
Lei nel 1999 lascia la Fiat e chiude un'era. Con il dopo Romiti si apre la crisi dell'auto. Esisteva nella mente di Agnelli una Fiat senza l'automobile?
«No. L'auto per Agnelli era la vita stessa. Immaginare la Fiat senza l'automobile per lui era impossibile».
Cosa sa dell'Agnelli che nel finale di partita ha visto il suo impero vacillare?
«So del suo tormento in quest'ultimo anno di crisi dell'azienda. Non poteva intervenire per questioni di salute, credo abbia sofferto quello che non avrebbe dovuto soffrire un uomo come lui, per tutto quello che aveva dato alla vita e alla Fiat. Spero davvero e mi auguro che chi oggi ha la responsabilità di Fiat se ne ricordi per sempre».
Ha ammirato di più il manager o l'uomo?
«Tutti e due. Ma io, ora, voglio ricordarmi di lui soprattutto come uomo. Aveva intelligenza, curiosità, ironia, signorilità, ottimismo. Conservo nel mio cuore e nella mia mente il suo sorriso... era la testimonianza della stima per la persona che gli stava di fronte, una gratificazione per l'interlocutore stesso».
Agnelli è la Vecchia Signora di Platini, lei è la Magica di Falcao. Roma-Juventus, le epiche sfide degli anni Ottanta. Lei ha mai tradito i giallorossi per le maglie bianconere?
«In quegli anni mi ero innamorato pure io di quella Juventus, di quegli uomini che ancora oggi mi telefonano da Platini a Tardelli a Zoff. Ci fu un periodo, quando capita a un uomo, che ci si dimentica per un momento della moglie e ci si innamora dell'amante. Ecco per me quella Juve è stata un'amante. Poi sono tornato dalla moglie, come capita a tutti i bravi mariti».
Scorrono i titoli di coda, cosa si può aggiungere al finale?
«Niente, Agnelli mi mancherà molto nella vita».
***
Che facciamo? Andiamo in America, secondo giorno di convention dei democratici. Negli Stati Uniti sono in corso tre spettacoli, tutto esaurito al box office.
05
America 2020. Tre spettacoli e un benvenuto per Bill
Joe Biden è il candidato ufficiale del Partito Democratico, Bill Clinton ha perso lo smalto, Alexandria Ocasio-Cortez è una che andrà molto lontano (le hanno dato un solo minuto per parlare, ma che forza), il secondo giorno è migliorato rispetto al primo su contenuti e ritmo (ma è sempre una pena), la figura del repubblicano-pentito-per-Biden è il nuovo giochino a sorpresa, i Dem non hanno ancora spiegato al mondo come governeranno l'America, si accontentano di attaccare Trump, tattica legittima ma di corto respiro e - visti i dati di Wall Street e dell'economia - ad alto rischio. Trump? Fa Trump. Questa è la sintesi della nottata della seconda giornata di convention dem, terminata qualche ora fa (ore 5.00 in Italia). L'analisi la faremo più tardi. Intanto, vediamo cosa è rimasto sul taccuino finora, facciamo il punto nave.
In America sono in cartellone tre spettacoli in contemporanea: la corsa pazza di Wall Street, la convention dei democratici e la campagna di Trump. Vediamo come vanno le cose al box office.
Wall Street ha frantumato stasera il muro del suono della ripresa, dopo 126 giorni dal picco del coronavirus, l'indice S&P 500 ha superato il precedente record di 3386,15 del 19 febbraio scorso, cancellando un crollo storico (-34%) nei mesi di febbraio e marzo che aveva fermato la corsa del "toro", la crescita più lunga della storia. Quest'anno l'indice S&P guadagna circa il 5%. In piena pandemia. La più veloce ripresa da una fase "orso" della storia di Wall Street. L'ascesa non è solo dei titoli hi-tech (il Nasdaq ha guadagnato anche oggi un + 0,73%) ma dell'energia e delle costruzioni, titoli colpiti dalla crisi del coronavirus. Il mercato sta comprando un'espansione dell'economia.
La campagna di Trump ha il radar fisso sui dati economici e... sui "socialisti", rappresentati dalla coppia Biden-Harris. Il presidente è in tour elettorale, il suo bersaglio si materializza, è Michelle Obama, serie di tweet con un invito finale: "Qualcuno spieghi per favore a Michelle Obama che Donald J. Trump non sarebbe qui, nella bellissima Casa Bianca, se non fosse stato per il lavoro fatto dal marito Barack Obama. Io e la mia amministrazione, abbiamo costruito la più grande economia nella storia di qualsiasi Paese, abbiamo salvato milioni di vite ed ora sto costruendo una economia ancora più grande di prima. I posti di lavoro abbondano, il Nasdaq è già ad un livello record, il resto verrà. Torna a sederti e guarda!". L'economia, la Borsa, i posti di lavoro. Trump batterà il ferro caldo della riapertura e della ripresa. I voti sono qui.
E poi? E poi ci sono i democratici, che sono in netto vantaggio, possono battere Trump agevolmente, ma sembrano darsi da fare per perdere, hanno un evidente problema di storytelling. Com'è andata la convention virtuale? Sembrava uno di quegli aperitivi da coronavirus su Zoom, una tristezza che ti viene voglia di iscriverti alla prima sezione degli alcolisti anonimi. Se c'è qualcosa che la pandemia ci ha confermato è che il caro vecchio spettacolo dove si recita dal vivo (e la va o la spacca) dal Globe di Shakespeare al Majestic di Broadway, sullo schermo non funziona. La realtà nel teatro non può essere cancellata, trasformata e scodellata in pixel. E i grandi eventi politici sono teatro. Ancora peggio se al cocktail su Zoom aggiungi un copione dove il lutto e il disastro non sono esorcizzati con un twist di speranza, una strambata d'ottimismo, una sventagliata fresca d'utopia. L'American Dream non è morto perché i dem hanno deciso che sotto l'amministrazione Trump è defunto, esiste e si fa (e disfa) ogni giorno, soprattutto dove governano i Democratici.
Nella seconda giornata ci sarà la nomina formale di Joe Biden per la presidenza e parlerà Bill Clinton, un uomo che ha carisma, ritmo, fiuto politico e senso dello spettacolo, speriamo che la vecchiaia (ha 73 anni) non l'abbia arrugginito e riporti tra i Democratici quell'immaginario che è sempre stato uno degli ingredienti del progressismo americano. Come vedremo, Clinton ha qualche problema con certe foto pubblicate dal Daily Mail, ma per uno come lui tutto è superabile.
La prima giornata, terminata alle 5.00 del mattino ora italiana, aveva un prezzo del biglietto (la notte insonne e i postumi del day after) che francamente non valeva lo spettacolo. La pensa così anche Real Clear Politics: "Quando Michelle Obama ha finalmente concluso l'azione, i Braves hanno scioccato i National con un drammatico home run nel 9° inning". Quello dell'ex First Lady era l'intervento più atteso, da un certo minuto in poi è diventato un tormento dal quale liberarsi, non arrivava al punto da chiudere: votate per Biden. Elementare, Watson.
I dem avevano l'obiettivo di far sentire le diverse voci dell'America, ci hanno provato, il risultato è che il tono era quello di un rosario. Perfino la raffinata e luminosa presenza di Eva Longoria è diventata opaca. Un'occasione persa, speriamo nel secondo ciak stasera.
Scegliendo come filo narrativo i temi del Black Live Matter e la crisi del coronavirus, si dirà che il percorso era destinato a finire al lumicino, ma bruciarsi in maniera così maldestra l'ottima intuizione dell'incipit della Costituzione americana, "We The People", con una sceneggiatura al cloroformio è un delitto. Rari momenti buoni, fiumi di monotonia, tante cose da sistemare in corsa. Riusciranno nell'impresa? Abbiamo un biglietto anche per stasera, Bill non ce lo perdiamo.
Biden faceva Biden, niente di nuovo, è imbalsamato come un Trump qualsiasi è avvinghiato a Twitter e come The Donald anche Joe sbrilluccica di trucco nel disperato tentativo di mascherare l'età. Si è parlato di George Floyd, della polizia violenta, Biden ha detto di ricordare le sue parole. Zero sorpresa, fa parte del programma. Giro di dichiarazioni di cittadini qualsiasi (l'uomo della strada, si direbbe), un classico "Town Hall format" (domande e risposte aperte), l'America dei tanti, degli invisibili, della diversità, della complessità. Quella che Trump non riesce a unire e che secondo i dem anzi punta a dividere. È qui che emerge la devastate assenza e insostituibilità del... palcoscenico. Il deputato democratico (e di colore) Jim Clyburn s'impappina al via ma riparte, dice che serve un presidente capace di "unire le persone" e che Biden "is a good man", una brava persona. Compare un ex Marine, Kevin Penn, fa un lavoro unico e benemerito, assiste le famiglie dei militari che hanno perso i propri cari in battaglia. E vota per Biden. Ricompare Eva Longoria che ha la stessa grave espressione congelata dell'inizio del film che non è un film. C'è vita nell'universo, compare Andrew Cuomo che ha il potere di consumare la pazienza (poca) di Trump come la batteria di un iPhone: snocciola il "fallimento" della gestione del coronavirus da parte della Casa Bianca, perché "la nazione dopo sei mesi è ancora impreparata" (e Trump perfidamente risponde twittando un'intervista dove Cuomo si complimenta con l'amministrazione), ci sono le "lezioni critiche" del coronavirus, "negative e positive". Cuomo è un tipo tosto, ha l'espressione diretta (fu lui a dire "prenderemo il virus a calci nel culo") e dunque "noi siamo l'America e noi vinciamo le guerre" (è dal Vietnam che non ne azzeccano una), quindi "il governo conta, la leadership conta e serve un leader che sappia unire e io conosco quell'uomo, è Joe Biden". Finalmente uno che sa tenere in piedi un discorso politico e va dritto al punto.
Il voto dichiarato per Biden da Kristin Urquiza, il padre morto di coronavirus, è un capitolo delicato della campagna, appare sopra le righe, ma tutto è alterato in questa lotta senza fine, i colpi sopra e sotto la cintura volano. E li tirano tutti da entrambe le parti. Parlano gli infermieri, gli operatori sanitari. Il capitolo del Covid-19 in America è squadernato, lotta politica durissima. Tutti in mascherina - una costante in una guerra di immagini dove l'America responsabile si auto-rappresenta democratica, è una battaglia tra due mondi, la collisione dell'immaginario di un'America doppia, divisa, frantumata. È un passaggio dalla tv del dolore alla convention del dolore. Che c'è, tanto, non è di una sola parte politica e la sua evocazione continua pone problemi di comunicazione molto grandi - per tutti - e il rischio di un effetto boomerang.
Viene toccata per niente piano dai dem la crisi del Postal Service e naturalmente le manipolazioni di Trump sul voto per corrispondenza. Tutto è giocato contro The Donald. Dov'è il "per" qualcosa, il programma? Nel primo giro di giostra non emerge, l'imperativo è mandare via dalla Casa Bianca Trump, l'opposizione al presidente che abbiamo visto emergere con forza nei sondaggi. Eva Longoria è sempre compita. Quando compaiono gli esponenti politici si presenta il tema (e c'è poco da ridere, nel format è un serio problema di scenografia che scatena la fantasia dei social) dello sfondo, del luogo da dove parlano e di quello che negli anni Ottanta era chiamato tamarrianamente "il look". Girandola di voci. È il turno di Gretchen Whitmer, governatrice del Michigan (giacca di pelle in agosto), bandiere dello Stato con l'elk e il cervo - scorrono i nomi di alcune delle vittime, tributo in stile New York Times con prima pagina-lapide (e siamo sempre in un registro stilistico "in memoriam") - torna Eva Longaria (pietrificata nell'espressione d'esordio), parla una donna, ma la regia in uno sforzo di simbolismo da cinepresaro della domenica s'inventa un'inquadratura (dall'alto, la prova si fa sempre più complicata) di un uomo al bivio... è John Kasich (Alexandria Ocasio-Cortez lo ama a tal punto da stirarlo con l'amido via Twitter sulla questione dell'aborto), il prototipo del nuovo modello in pista per queste elezioni, il repubblicano-pentito-per-Biden che Kasich definisce come "l'uomo" giusto" per "i nostri tempi". Il repubblicano Chris Christie lo apostroferà oggi con un tocco dark da Fantasma dell'Opera: "Pugnalatore alle spalle", una cosa lieve tra ex amici conservatori. Tocca a Doug Jones, senatore dell'Alabama, ricompare la Longoria, ma lo sguardo è ormai rapito dalla bucolica immagine di una cucina (sì, proprio quella, "the kitchen") dove la senatrice Catherine Marie Cortez Masto dal Nevada presenta sullo sfondo del video qualcosa che ha la sospetta sagoma di un pacco di cereali Kellogg's, ma mostra la scritta "Joe" al pubblico a casa che è colto da labirintite acuta perché non sa più cosa guardare: osservare i fornelli, misurare a occhio il tavolo o indovinare cosa è quel "Joe" che fa capolino tra le stoviglie.
Mezzopiano su Longoria, sospirante. È il momento della Amy Klobuchar, una brava, ma se parla più di tre minuti perde il contatto con la base lunare Alpha, tira fuori qualcosa di concreto, ma solo un accenno, sul "Buy American" di Biden che dovrebbe defenestrare "America First" di Trump, trattandosi di programma politico si abbandona rapidamente per tornare al nemico e dunque "vogliamo un presidente per tutta l'America". Cory Booker dice qualcosa, ma arriva subito "Beto" O'Rourke, quello che doveva stracciare tutti perché piaceva ai giornali e quindi è finito regolarmente fuori pista. Carrellata di foto dell'America in mascherina, immagini semi-patinate di Biden patriottico, Biden marziale, Biden addolorato, Biden figlio, Biden padre, Biden nonno. E sia chiaro che la missione è "never lost a job", non si perde neanche un posto di lavoro. Come? Stasera è un dettaglio e domani è un altro giorno disse Rossella 'O Hara. Si vorrebbe essere idealmente in una scena di Spike Lee ne "La 25esima ora" (il rullo di tamburi, la bandiera americana che sventola sull'auto che attraversa il deserto, un dettaglio da maestro e un super Edward Norton), ma in realtà l'impressione è quella di assistere a un Superquark dell'America Liberal in cerca d'autore.
Compare nonno Bernie e finalmente decolla qualcosa dal pianeta democratico. Lassù nel Vermont in pieno agosto deve fare freschetto, alle spalle del senatore sempre perdente e sempre gioiosamente in pista c'è un pitagorico assemblaggio di ciocchi di legna, materiale che di solito serve per il camino.
In attesa di scoprire l'arcano da piromani, Sanders offre un saggio delle sue capacità metaforico-incendiarie evocando quella sagoma della cetra e dell'incendio: l'America brucia, "Trump è come Nerone". L'enfasi del senatore punta a mobilitare la sua base - che non ama certo Biden - e Sanders fa il suo lavoro egregiamente: "Abbiamo bisogno di Joe Biden presidente, dunque dobbiamo spostare in maniera forte il nostro movimento in questa direzione". Enfasi, il momento è grave, perciò "la mia campagna è finita sette mesi fa, ma dobbiamo continuare per preservare la democrazia", evitare il deragliamento della campagna e le manovre di Trump sul Postal Service, per Sanders c'è in ballo tutto, perfino "il futuro del pianeta". Apocalittico. Inquadratura di una grandinata di applausi sullo Zoom democratico e via con la parte che conta, c'è lei: Michelle.
Messa in piega à la Michelle, occhi d'ossidiana acuminati come frecce, la prende alla lontana e dice subito che "the job is hard", il lavoro da fare è duro, "Biden non è perfetto" (e lo sa anche lui), ma "Trump è il presidente sbagliato". Seguono considerazioni a zig zag sulla politica ("non mi piace", detto mentre fa politica al massimo livello sulla Terra), sul fatto che "essere presidente non cambia quello che sei", e bisogna avere "empatia" e "saper camminare nelle scarpe di un altro".
Michelle è in una fase dove l'elettore si scaglia sul lettino freudiano. Cambia l'inquadratura, siamo al quinto minuto e la cosa comincia ad essere fuori dalla dimensione popcorn ma "Biden sa tutto questo". Il discorso si fa intricato, bisogna fare "come nel 2008 e nel 2012" (dettaglio, c'era Obama, un fuoriclasse del discorso politico), bisogna "indossare la mascherina", "fare la fila", "andare a votare". Per chi? Quello che "non è perfetto", Joe Biden. Finalmente è arrivata al traguardo.
Il primo giorno se n'è andato così, in quella che il New York Times ha definito così: "No Applause, No Crowds: Democrats Begin a Most Unusual Convention". Niente applausi. Niente folla. Una convention davvero inusuale. E da raddrizzare. Tra poco toccherà a Bill Clinton che oggi ha avuto il benvenuto dal comitato d'accoglienza del Daily Mail: il tabloid inglese ha pubblicato le foto dell'ex presidente (allora 56enne) mentre si fa massaggiare il collo dalla 22enne Chauntae Davies, che viaggiava con l'aereo privato di Epstein, il "Lolita Express". Un servizio fotografico completo, a poche ore dal suo discorso per la convention dei dem. Non è Nabokov, è America 2020.
***
Come chiudiamo questo numero di List? Meditazioni varie ripescate dal passato, un rumore bianco, varie ed eventuali, come negli ordini del giorno dei consigli d'amministrazione dove si riserva una sorpresa per qualcuno.
06
Noi, voi. Soprattutto Io
Ci sono libri che tornano, lessi "Minima Moralia" di Theodor W. Adorno nell'epoca in cui il Sessantotto era finito (e io ci ero solo felicemente nato), ma la Scuola di Francoforte era citata da tutti gli adulti che incrociavano la mia età della scoperta. Adorno mi sembrava più rotondo di Herbert Marcuse, per non parlare degli altri, il cui linguaggio virava sull'esoterico materialista, un genere tutto nuovo di letteratura dell'errore che declinava in orrore. Adorno era "facile" nel difficile, ma restava ingabbiato nel dibattito ancora offuscato dai fumi, dai fasti, dalle feste, dalla sbronza post-sessantottesca di cui io non potevo essere per ragioni anagrafiche (ero poco più che un bambino) e geografiche (abitavo nella periferia del mondo, in un'isola che pure aveva cresciuto Antonio Gramsci, Emilio Lussu, istruito per un po' Palmiro Togliatti e allevato un paio di presidenti della Repubblica come Francesco Cossiga e Antonio Segni). Nelle nostre case, diceva Cossiga, si mangiava "minestra e politica", vero, dove il piatto più ricco era il secondo, ma nonostante questo terreno fertile di epiche incazzature e dibattiti manco fossimo in una direzione del Pci (un partito serio, fin troppo), restava il mistero della comprensione del presente. Non capivo allora quanto fosse importante ieri per afferrare domani e quanto l'esperienza, le rovinose cadute, potessero aiutare un uomo. Oggi... va un po' meglio, resta per fortuna lo spirito della ricerca, una certa sete di sapere, c'è tanto mestiere che aiuta, la praticaccia della vita, è irrisolto (per fortuna), l'inconoscibile mistero delle donne.
Il fascino della politica, anche quello, è dissipato in una divertita disillusione, quando ti ritrovi un Di Battista intervistato come uno statista, tutto è possibile, dunque (quasi) tutto è inutile. Ripredi Adorno e lo frequenti per vedere l'effetto che fa. La critica marxista funziona sempre, niente da dire, c'è tanta America, dissezione dell'industria culturale, fiction e bagliori sul cinema che sono notevoli, ma sono i passaggi epigrammatici, le scorribande più brevi, a lasciare ancora il segno, una specie di Karl Kraus senza Vienna, d'accordo, ma tagliente:
Dire noi ed intendere io è una delle forme di offesa più raffinate.
Sembra una frase démodé, un passato irrecuperabile nella cronologia del presente, ma in realtà l'eco del cosiddetto dibattito pubblico, la proiezione del potere, oggi è uno sfacciato "io" esibito come "noi", solo che non ha neppure il pudore di mascherarsi, è esposto per quello che è, un'opera pornografica, quando anche compare il "noi" è inteso come "voi" e il sottotesto è il fare quello che diciamo "noi". Questa ripetitività dell'Io è oggi in realtà aumentata, una retorica photoshoppata, priva di reale significato, giusto un rumore di fondo della nostra vita.
Un Rumore bianco, come quello raccontato da Don DeLillo, libro vecchio, si dirà anche di questo, pubblicato in un 1984 che non aveva ancora toccato le vette orwelliane del presente. Qui troviamo l'Apocalisse moderna, "l'evento aereo", l'arrivo della nube, che cambia tutta la vita (ricorda qualcosa, sì), stravolge le abitudini e un'esistenza da e nel supermarket. Inondati dalle radiazioni, sommersi dai segnali, i protagonisti sono sprofondati in una bolla. Ogni tanto, pensano:
Al buio la mente continua a funzionare come una mente divoratrice, l'unica cosa sveglia dell'universo.
C'è la paura della morte (ricorda qualcosa, sì) a dominare la scena, un bombardamento sul pericolo, un'inquietudine così grande da far smarrire la cosa che intanto scorre, la vita.
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assumere tutte le precauzioni necessarie per mantenere riservato l'accesso all'Abbonamento attraverso il
proprio account
(per esempio, mantenendo riservate le credenziali di accesso ovvero segnalando senza ritardo al Fornitore
che la
riservatezza di tali credenziali risulta compromessa per qualsiasi motivo).
7.4 La violazione degli obblighi stabiliti nel presente articolo conferisce al Fornitore il diritto di
risolvere
immediatamente il contratto ai sensi dell'articolo 1456 del codice civile, fatto salvo il risarcimento dei
danni.
8. Tutela della proprietà intellettuale e industriale
8.1 L'Utente riconosce e accetta che i contenuti dell'Abbonamento, sotto forma di testi, immagini,
fotografie, grafiche,
disegni, contenuti audio e video, animazioni, marchi, loghi e altri segni distintivi, sono coperti da
copyright e dagli
altri diritti di proprietà intellettuale e industriale di volta in volta facenti capo al Fornitore e ai suoi
danti causa
e per questo si impegna a rispettare tali diritti.
8.2 Tutti i diritti sono riservati in capo ai titolari; l'Utente accetta che l'unico diritto acquisito con
il contratto
è quello di fruire dei contenuti dell'Abbonamento con le modalità e i limiti propri del Servizio. Fatte
salve le
operazioni di archiviazione e condivisione consentite dalle apposite funzionalità del Servizio, qualsiasi
attività di
riproduzione, pubblica esecuzione, comunicazione a terzi, messa a disposizione, diffusione, modifica ed
elaborazione dei
contenuti è espressamente vietata.
8.3 La violazione degli obblighi stabiliti nel presente articolo conferisce al Fornitore il diritto di
risolvere
immediatamente il contratto ai sensi dell'articolo 1456 del codice civile, fatto salvo il risarcimento dei
danni.
9. Manleva
9.1 L'Utente si impegna a manlevare e tenere indenne il Fornitore contro qualsiasi costo – inclusi gli
onorari degli
avvocati, spesa o danno addebitato al Fornitore o in cui il Fornitore dovesse comunque incorrere in
conseguenza di usi
impropri del Servizio da parte dell'Utente o per la violazione da parte di quest'ultimo di obblighi
derivanti dalla
legge ovvero dai presenti termini d'uso.
10. Limitazione di responsabilità
10.1 Il Fornitore è impegnato a fornire un Servizio con contenuti professionali e di alta qualità; tuttavia,
il
Fornitore non garantisce all'Utente che i contenuti siano sempre privi di errori o imprecisioni; per tale
motivo,
l'Utente è l'unico responsabile dell'uso dei contenuti e delle informazioni veicolate attraverso di
essi.
10.2 L'Utente riconosce e accetta che, data la natura del Servizio e come da prassi nel settore dei servizi
della
società dell'informazione, il Fornitore potrà effettuare interventi periodici sui propri sistemi per
garantire o
migliorare l'efficienza e la sicurezza del Servizio; tali interventi potrebbero comportare il rallentamento
o
l'interruzione del Servizio. Il Fornitore si impegna a contenere i periodi di interruzione o rallentamento
nel minore
tempo possibile e nelle fasce orarie in cui generalmente vi è minore disagio per gli Utenti. Ove
l'interruzione del
Servizio si protragga per oltre 24 ore, l'Utente avrà diritto a un'estensione dell'Abbonamento per un numero
di giorni
pari a quello dell'interruzione; in tali casi, l'Utente riconosce che l'estensione dell'Abbonamento è
l'unico rimedio in
suo favore, con la conseguente rinunzia a far valere qualsivoglia altra pretesa nei confronti del
Fornitore.
10.3 L'Utente riconosce e accetta che nessuna responsabilità è imputabile al Fornitore:
- per disservizi dell'Abbonamento derivanti da malfunzionamenti di reti elettriche e telefoniche ovvero di
ulteriori
servizi gestiti da terze parti che esulano del tutto dalla sfera di controllo e responsabilità del Fornitore
(per
esempio, disservizi della banca dell'Utente, etc...);
- per la mancata pubblicazione di contenuti editoriali che derivi da cause di forza maggiore.
10.4 In tutti gli altri casi, l'Utente riconosce che la responsabilità del Fornitore in forza del contratto
è limitata
alle sole ipotesi di dolo o colpa grave.
10.5 Ai fini dell'accertamento di eventuali disservizi, l'Utente accetta che faranno fede le risultanze dei
sistemi
informatici del Fornitore.
11. Modifica dei termini d'uso
11.1 L'Abbonamento è disciplinato dai termini d'uso approvati al momento dell'acquisto.
11.2 Durante il periodo di validità del contratto, il Fornitore si riserva di modificare i termini della
fornitura per
giustificati motivi connessi alla necessità di adeguarsi a modifiche normative o obblighi di legge, alle
mutate
condizioni del mercato di riferimento ovvero all'attuazione di piani aziendali con ricadute sull'offerta dei
contenuti.
11.3 I nuovi termini d'uso saranno comunicati all'Utente con un preavviso di almeno 15 giorni rispetto alla
scadenza del
periodo di fatturazione in corso ed entreranno in vigore a partire dall'inizio del periodo di fatturazione
successivo.
Se l'Utente non è d'accordo con i nuovi termini d'uso, può esercitare la disdetta secondo quanto previsto al
precedente
articolo 3.
11.4 Ove la modifica dei termini d'uso sia connessa alla necessità di adeguarsi a un obbligo di legge, i
nuovi termini
d'uso potranno entrare in vigore immediatamente al momento della comunicazione; resta inteso che, solo in
tale ipotesi,
l'Utente potrà recedere dal contratto entro i successivi 30 giorni, con il conseguente diritto ad ottenere
un rimborso
proporzionale al periodo di abbonamento non goduto.
12. Trattamento dei dati personali
12.1 In conformità a quanto previsto dal Regolamento 2016/679 UE e dal Codice della privacy (decreto
legislativo 30
giugno 2003, n. 196), i dati personali degli Utenti saranno trattati per le finalità e in forza delle basi
giuridiche
indicate nella privacy policy messa a disposizione dell'Utente in sede di registrazione e acquisto.
12.2 Accettando i presenti termini di utilizzo, l'Utente conferma di aver preso visione della privacy policy
messa a
disposizione dal Fornitore e di averne conservato copia su supporto durevole.
12.3 Il Fornitore si riserva di modificare in qualsiasi momento la propria privacy policy nel rispetto dei
diritti degli
Utenti, dandone notizia a questi ultimi con mezzi adeguati e proporzionati allo scopo.
13. Servizio clienti
13.1 Per informazioni sul Servizio e per qualsiasi problematica connessa con la fruizione dello stesso,
l'Utente può
contattare il Fornitore attraverso i seguenti recapiti: help@newslist.it
14. Legge applicabile e foro competente
14.1 Il contratto tra il Fornitore e l'Utente è regolato dal diritto italiano.
14.2 Ove l'Utente sia qualificabile come consumatore, per le controversie comunque connesse con la
formazione,
esecuzione, interpretazione e cessazione del contratto, sarà competente il giudice del luogo di residenza o
domicilio
del consumatore, se ubicato in Italia.