29 Agosto
A caccia della rimonta
Nessuna tregua. Dopo la convention il presidente vola in New Hampshire. La battaglia serrata negli Stati in bilico, la preoccupazione dei dem e la decisione di Biden di tornare ai comizi. La collisione delle due Americhe. Shinzo Abe lascia, una lezione giapponese. Italia, la scuola tiene banco (e basta)
Che succede? Il mondo è appeso al bollettino del coronavirus. Quale mondo? L'Occidente "civilizzato", perché in Asia si sono rimessi in moto, lavorano, si preparano all'inverno del coronavirus e studiano il Grande Sorpasso su quel che resta del centro del mondo. I nostri giornali sono il pianto del virus, la nostra cultura è completamente smarrita (resistono poche voci isolate di intellettuali, scrittori e filosofi che hanno colto il sonnambulismo delle masse e la cecità dei governanti) e inerme. Siamo in uno stato di passività, laddove servirebbe una difesa attiva. Il virus non è sparito, non sparirà se non con il vaccino, nel frattempo dobbiamo trovare un modo per continuare a lottare e a vivere. Non sta avvenendo, il dibattito italiano sulla scuola ne è una desolante prova, la Francia ha mostrato il disorientamento (e disordine) del suo popolo e della sua guida. Resta la Germania, troppo piccola per poter dire la sua nel nuovo ordine mondiale del coronavirus che si sta costruendo. E soprattutto c'è ancora l'America, sempre opera in fieri, fortezza che tenta di resistere all'assalto della Cina. Il quadro generale è quello delle macerie fumanti senza un'idea di ricostruzione. Non abbiamo la forza morale, questo è il punto chiave. Andiamo in Oriente, dove si fa il mondo di domani, seguite il titolare di List.
01
La lezione dell'Oriente
Di cosa discutono in Oriente? Prima pagina del South China Morning Post, il principale giornale di Hong Kong:

Il dibattito pubblico è sul rapporto dell'ex colonia britannica con la Cina, la nuova legge (liberticida) sulla sicurezza, il coronavirus è un sottotesto presente nella foto del titolo principale, ma non è il focus della prima pagina. L'edizione online ha la notizia del momento:

Andiamo allora in Giappone, home page del Japan Times:

Le dimissioni di un grande...
Che succede? Il mondo è appeso al bollettino del coronavirus. Quale mondo? L'Occidente "civilizzato", perché in Asia si sono rimessi in moto, lavorano, si preparano all'inverno del coronavirus e studiano il Grande Sorpasso su quel che resta del centro del mondo. I nostri giornali sono il pianto del virus, la nostra cultura è completamente smarrita (resistono poche voci isolate di intellettuali, scrittori e filosofi che hanno colto il sonnambulismo delle masse e la cecità dei governanti) e inerme. Siamo in uno stato di passività, laddove servirebbe una difesa attiva. Il virus non è sparito, non sparirà se non con il vaccino, nel frattempo dobbiamo trovare un modo per continuare a lottare e a vivere. Non sta avvenendo, il dibattito italiano sulla scuola ne è una desolante prova, la Francia ha mostrato il disorientamento (e disordine) del suo popolo e della sua guida. Resta la Germania, troppo piccola per poter dire la sua nel nuovo ordine mondiale del coronavirus che si sta costruendo. E soprattutto c'è ancora l'America, sempre opera in fieri, fortezza che tenta di resistere all'assalto della Cina. Il quadro generale è quello delle macerie fumanti senza un'idea di ricostruzione. Non abbiamo la forza morale, questo è il punto chiave. Andiamo in Oriente, dove si fa il mondo di domani, seguite il titolare di List.
01
La lezione dell'Oriente
Di cosa discutono in Oriente? Prima pagina del South China Morning Post, il principale giornale di Hong Kong:

Il dibattito pubblico è sul rapporto dell'ex colonia britannica con la Cina, la nuova legge (liberticida) sulla sicurezza, il coronavirus è un sottotesto presente nella foto del titolo principale, ma non è il focus della prima pagina. L'edizione online ha la notizia del momento:

Andiamo allora in Giappone, home page del Japan Times:

Le dimissioni di un grande uomo politico, Shinzo Abe, il più longevo premier della storia del Giappone. Un fatto politico enorme che coglie il Giappone nell'era del coronavirus, una sfida. Segnaliamo il titolo in basso a sinistra sulla home page del Japan Times: l'incontro dei ministri della Difesa degli Stati Uniti e del Giappone a Guam, l'intesa sulla strategia per il contenimento della Cina e l'ombrello missilistico di Tokyo. Diamo ancora uno sguardo largo, sugli equilibri del Pacifico, questa è la Nikkei Asian Review:

Ancora Shinzo Abe, il problema della successione, il futuro delle relazioni tra Cina e Giappone. Andiamo avanti, edizione asiatica del Financial Times:

Titolo principale dell'edizione cartacea del fine settimana, ancora Shinzo Abe (che apre anche le edizioni di Europea, America e Medio Oriente, quella inglese invece ha come titolo d'apertura il governatore dellaa Banca d'Inghilterra che parla della nuova politica monetaria.
Ora guardate i titoli dei due principali quotidiani italiani, Corriere della Sera e Repubblica:

Registrano la cronaca francese, sono già sintonizzati sulla chiusura. Quanto a Shinzo Abe, il Corriere fa un titolo che non coglie le parole di Abe sul futuro (affrontare l'inverno del coronavirus) e il rapporto del premier con il popolo giapponese (le scuse), quanto a Repubblica il problema della lettura in prima pagina non si pone, Abe non esiste.
***
In Asia il coronavirus continua a circolare, è chiaro, ma siamo davanti a due mondi: l'Occidente è ripiegato su se stesso, l'Oriente ha un approccio completamente diverso con l'epidemia, è una difesa attiva, l'Europa continua a ragionare con la testa rivolta al lockdown (leggere: collasso economico, carestia e fame) e se Macron arriva a ipotizzarlo di nuovo per la Francia, vuol dire che potremmo vederne un altro anche in Italia. L'impatto psicologico del coronavirus su un corpo in declino è questo, la sua resa. E l'Europa è in declino, il suo inverno demografico ne è la prova più grande, ma non è certo l'unica.
02
La forza di Shinzo Abe:"Chiedo scusa al popolo"

Le dimissioni di Shinzo Abe sono l'esempio di come si assolve il compito del servizio pubblico, della leadership politica in tempi di coronavirus, della forza, dell'orgoglio, della nobiltà - e dell'umiltà, senso della misura, cifra stilistica dell'uomo - di fronte a un nemico invisibile. Non si alzano le mani, non si pensa a distruggere la mente delle persone (danni colossali, di cui vediamo solo un bagliore oggi) con una politica di segregazione, si governa. Il primo ministro del Giappone si conferma una delle grandi figure del dopoguerra, uomo della pace, stratega delle relazioni internazionali dell'Asia, innovatore della politica economica ("Abenomics"), servitore del suo paese con un senso delle istituzioni altissimo. Shinzo Abe, 65 anni, è stato il più grande primo ministro del Giappone, quello che ne ha segnato la storia con 2800 giorni di governo. "Chiedo scusa al popolo giapponese", ha detto nella conferenza stampa in cui ha annunciato le sue dimissioni. Problemi di salute, non è in pericolo di vita, ma i dolori e la cura per il colon lo debilitano. Abe ritiene in cuor suo di non avere energie sufficienti per "prendere le decisioni giuste". Nell'agenda del Giappone c'è una battaglia contro il coronavirus, le riforme costituzionali per dotarsi di una politica di Difesa non più solo passiva (il Giappone vede la Cina e la Corea del Nord nel suo orizzonte balistico), il confronto duro con l'espansionismo cinese nel Mar Meridionale della Cina, la partnership strategica con gli Stati Uniti, le relazioni con l'Unione europea e il ruolo di paese-guida del Pacifico in competizione con Pechino e le tigri asiatiche.
Abe è il primo leader di una grande potenza che lascia durante la crisi del coronavirus, anche questo è un segno di cui bisogna prendere nota per il prossimo futuro. Non sarà l'unico. Le sue dimissioni hanno fatto colare a picco l'indice Nikkei della borsa di Tokyo, guardate cosa è successo con l'annuncio:

La stagione dell'Abenomics è durata dal 2013 al 2018, il primo ministro ha dovuto affrontare la realtà del paese più vecchio del mondo (insieme alla Germania e all'Italia, quest'ultima non pervenuta) con una crisi demografica enorme, grafico tratto da uno studio dell'Asian Development Bank Institute:

Un paese che ha assorbito meglio di altri lo shock della Grande Crisi del 2008 e del debito grazie alla propensione dei suoi cittadini verso l'investimento in titoli di Stato. Altra tabella, la differenza tra la Grecia e il Giappone sui detentori del debito pubblico:

Ancora differenze culturali, consuetudini e sistemi economico-finanziari strutturati in maniera diversa: la Grecia aveva nel 2011 il 70% del suo debito in mano a investitori esteri, il Giappone il 5%. Il problema del Giappone resta la sua inesorabile senilità, ma la sua forza è che ha un sistema capace di dare risposte efficaci. Questa è l'eredità culturale e politica più grande che lascia Abe al futuro.
Shinzo Abe lascia con un'opera da completare, il paese ha bisogno di riforme strutturali, la "terza freccia" della sua dottrina. Sarà il compito del suo successore, vedremo cosa uscirà dal cilindro del Partito liberale giapponese. La decisione arriverà il 15 settembre, lo riferisce l'agenzia stampa nipponica Kyodo. Nomi? Il toto-nomine è valido per tutte le latitudini. Tra i candidati, l'ex ministro degli Esteri Fumio Kishida e l'ex titolare della Difesa Shigeru Ishiba, entrambi si sono dichiarati a disposizione per l'incarico. Ancora, l'ex capo di gabinetto Yoshihide Suga e il ministro alla Difesa Taro Kono. È un gioco che comincia ora e cambierà parecchie volte nel corso delle prossime due settimane. Abe resta in carica fino alla scelta del successore. "Chiedo sinceramente scusa", un leggero inchino, gli occhi che si abbassano, è il simbolo non della resa, ma della fierezza del popolo giapponese. Sarà sempre "Banzai".
***
C'è altro? La depressione cosmica del dibattito sulla riapertura della scuola italiana.
03
La scuola tiene banco (e basta)
Allacciate le cinture, questo è il tenore del nostro dibattito interno: la responsabile dell'Istruzione, Lucia Azzolina, ha capito che rischia la testa e chiama il governo a impegnarsi tutto sulla riapertura; maestri e professori a loro volta hanno capito di essere diventati improvvisamente quelli mandati allo sbaraglio e cominciano a chiedere cosa li attenderà in aula (pensate solo alle orde dei genitori-pedagoghi-fai-da-te, alle potenziali denunce dell'ossessionato di turno, al peso dell'insegnamento in condizioni di incertezza e panico della società italiana, nutrita in questi mesi con dosi da cavallo di paura e segregazione); a questi vanno aggiunti gli insegnanti più anziani (la percentuale di over 55 è del 40-45% e gli ultra 62enni sono 171 mila) ai quali fino a ieri è stato detto di restare a casa e possibilmente fare anche un balletto sul balcone per festeggiare non si sa bene cosa; la politica si scanna, una guerra totale tra maggioranza e opposizione che non porta a soluzioni condivise, provvedimenti bipartisan, una politica d'aggressione continua tra gli uni e gli altri, sulla pelle naturalmente dei bambini e degli adolescenti, ai quali lasceremo un debito monstre e un'educazione precaria. Nota di cronaca, un fatto: è cominciata la consegna dei banchi monoposto. Il resto è un grande vuoto intorno. Risolveranno tutto gli insegnanti e i presidi, come sempre è avvenuto, ma anche questo è un capitolo da ricordare per il futuro.

Prima del primo giorno di scuola di un'altra era, qualcuno guardi "La scuola", il film di Daniele Lucchetti, un ritratto agrodolce della vita scolastica in Italia. Silvio Orlando è il professor Vivaldi, scena dello scrutinio, epica, valutazione del primo della classe, Astariti:
Preside, Astariti non è bravo, Astariti è un "primo della classe". Astariti non c'ha i capelli tagliati alla mohicana, non si veste come il figlio di uno spacciatore, non si mette le scarpe del fratello che puzzano. Astariti è pulito, perfetto. Interrogato, si dispone al lato della cattedra senza libri, senza appunti, senza imbrogli. Ripete la lezione senza pause: tutto quello che mi è uscito di bocca, tutto il fedele rispecchiamento di un anno di lavoro! Alla fine gli metto 8, ma vorrei tagliarmi la gola! [...] Ma perché Astariti è la dimostrazione evidente che la scuola italiana funziona solo con chi non ne ha bisogno!
Durante lo scrutinio - fatto in palestra perché il resto della scuola pare sia inagibile - succede un po' di tutto, il dialogo è surreale, comico, una commedia che declina in una sublime tristezza, poi arriva la comunicazione del bidello: "Scusate, è arrivata una telefonata in portineria, dice che c'è una bomba da qualche parte".
***
Che facciamo ora? Passaporto valido per l'espatrio, andiamo in America. Grande romanzo, la battaglia per la Casa Bianca.
04
Welcome on board, Joe
Nessuna tregua. Donald Trump ha chiuso il teatro della Casa Bianca ed è volato in New Hampshire, Manchester, un altro Stato in bilico, perso per un soffio nel 2016. Trump ha tirato dritto sulla linea che aggancia i dem alla protesta violenta: "Biden è un politico di carriera "che metterà in pericolo la sicurezza degli americani" e, naturalmente, i manifestanti "passeranno dalle rivolte per le strade alla gestione del governo". Missione? "Salvare la democrazia dalla folla. Nessuno sarà al sicuro nell'America di Biden".

Le immagini sono quelle di una campagna alla quale la convention sembra aver impresso una svolta. È ancora presto per trarre conclusioni, ma il dinamismo della campagna repubblicana è visibile e per i democratici si sono accese tutte le spie nella sala comando del sommergibile di Joe Biden. Gli ascolti tv sono leggermente migliori per il candidato dem che nella serata finale ha totalizzato 24,6 milioni di telespettatori, contro i 23,8 della serata finale di Trump. Ma quello che appare determinante è il clima, il sentimento degli elettori, della base dei due partiti. I repubblicani sembrano entrati in una fase in cui credono nella "rimonta". E quando ci credi, buona metà del lavoro è fatto. Attendiamo i fatti sulla riva del Potomac con il taccuino squadernato.

La strategia del candidato su Zoom è evaporata, i democratici cambiano spartito, altro giro, altra musica. La convention repubblicana che di nome era a Charlotte e in realtà era ovunque, i viaggi di Trump negli Stati in bilico, la minaccia sempre più reale di un aggancio e un sorpasso. Troppo. Alla fine, è successo quanto abbiamo anticipato: Joe Biden farà i comizi negli Stati in bilico. La realtà è più forte dei desideri, il candidato dem ha dovuto prendere atto di una cosa ineludibile: la sua campagna è debole, gode dei vantaggi della crisi del coronavirus e del collasso da lockdown, ma con un presidente che fa volare l'Air Force one da un set all'altro, dal Wisconsin alla Pennsylvania, con una sagoma pronta a giocare tutte le palle che passano dalla sua parte del campo, anche quelle più dure (nel fine settimana andrà dove l'uragano Laura ha seminato distruzione), non puoi restare chiuso in casa con la mascherina e raccontare al popolo americano che tu sei il Commander in Chief che lo guiderà in tempi di guerra come questi. Biden ha dovuto prendere atto della realtà e, prima che sia troppo tardi, cambia strategia. La notizia è questa, poi c'è quello che tutti i giorni interpreta un presidente da sottosopra, Trump.
05
Luce e tenebre. L'America conservatrice
Nomination, discorso di chiusura, agenda. I repubblicani confermano quanto dicono i sondaggi, Trump è forte sull'economia e la sicurezza, sono i due punti d'attacco sui quali i dem hanno il fianco scoperto. Sul primo si materializza con un piano di nuove tasse per 4 mila miliardi in 10 anni e l'espansione delle norme ambientali che per la business community sono un regalo ai concorrenti globali (leggere alla voce Cina); sul secondo sta arrivando il boomerang della violenza nelle zone suburbane guidate dai governatori democratici. Biden e Harris hanno cominciato a rispondere alla campagna repubblicana che "aggancia" i dem alla guerriglia urbana. In questo scenario, anche schierarsi con la nobile protesta anti-razzista diventa un problema di comunicazione, percezione del messaggio e uso strumentale che può farne l'avversario.

La campagna presidenziale in America non è il regno del fair play, è un match di wrestling dove i colpi sono veri. Kamala Harris fa la sua battaglia in nome dei diritti, è il suo ruolo, ma più andrà avanti la campagna, più verrà fuori il problema dell'equilibrio del suo messaggio, sta emergendo come un'isola vulcanica il tema della moderazione dei dem, della necessità di assumere (anche) una posizione centrista nello spazio politico e la Harris sembra finora non aver colto in pieno questo aspetto importante: più sposta a sinistra la campagna dei dem, più i repubblicani avranno un argomento forte per dire agli americani che quella del ticket Biden-Harris è una presidenza "socialista" e "morbida" nei confronti dei violenti. È l'antico tema della legge e dell'ordine. Nella vecchia e dormiente Europa tutto questo fa sorridere, si liquidano questi argomenti con uno sbuffo incipriato, ma stiamo parlando dell'America, un posto dove l'immaginario si è fatto, si fa (e disfa) con la Bibbia, la forca e la Colt.

South Lawn della Casa Bianca, mille ospiti sul prato, Stars and Stripes sormontate dall'aquila dorata, coccarde, lo scenario ammobiliato per una campagna presidenziale. Ivanka Trump ricorda che "Washington non ha cambiato Donald Trump, è Trump che ha cambiato Washington", chiama il padre, "a warrior in the White House". Trump scende le scale con Melania, mano nella mano, tutti in piedi, cravatta regimental azzurra e rossa per il presidente, abito verde per la First Lady, la regia fa uno stacco di telecamera dal basso verso l'alto, tappeto rosso, è l'entrata in scena che ti aspetti, tutto "Made in America".

"Four more years". Applausi. "U-S-A". Le prime parole sono per chi è in Texas, Louisiana, Arkansas e Mississippi, per le popolazioni colpite dall'uragano Laura, "sarò là nel fine settimana", annuncia. Ringraziamento alla famiglia, parole di zucchero filato per Melania, amore per i figli "più di quello che posso esprimere", ringraziamento per il lavoro di Mike Pence. Accettazione della candidatura, "I profoundly accept this nomination for President of the United States". Approvazione del pubblico, ancora e sempre "U-S-A". Preludio del programma del secondo mandato: "Il partito di Abramo Lincoln è unito, determinato, pronto per milioni di americani", nel mio secondo mandato ricostruirò l'economia, tornerò velocemente all'occupazione piena, e proteggerò l'America da tutti i pericoli, conducendola verso nuove frontiere e scoperte, un nuovo spirito d'unità per la nostra grande nazione". Torna il registro biblico che abbiamo annotato sul taccuino in tutte le convention, l'opposizione tra la luce e le tenebre, quel passaggio che segna la distanza tra la cultura politica dei democratici e quella dei repubblicani: "L'America non è nelle tenebre, è la torcia dell'intero mondo".
La torcia della Bibbia, Zaccaria, 12:6: "In quel giorno farò dei capi di Giuda come un braciere acceso in mezzo a una catasta di legna e come una torcia ardente fra i covoni; essi divoreranno a destra e a sinistra tutti i popoli vicini. Solo Gerusalemme resterà al suo posto". Ogni parola usata s'addensa di simboli, la torcia è quella della Statua della Libertà, al centro della baia di Manhattan, la fiamma sul fiume Hudson, "La Libertà che illumina il mondo", quella che stringe la torcia nella mano destra, mentre porta sulla sinistra una tavola con una data, 4 luglio 1776, il giorno dell'Indipendenza americana.

Il racconto di Trump è l'America libera, l'America trasformatrice, l'ottimismo, questa è la direzione scelta dai repubblicani, in netto contrasto con il paese che muore nell'oscurità su cui hanno puntato i democratici. Il 3 novembre vedremo quale racconto dell'America sarà quello vincente.
06
Il teatro della Casa Bianca
La Casa Bianca è il luogo della Storia, Trump ne richiama nomi e figure, la casa di Teddy Roosevelt e Andrew Jackson, di Grant e Eisenhower, di Thomas Jefferson, di Abraham Lincoln, di Franklin Delano Roosevelt che qui accolse Winston Churchill per preparare "la vittoria nella Seconda guerra mondiale". La costruzione di una nazione, le guerre e la scoperta, la sfida del domani e la parola libertà che si lega in maniera indissolubile. E ora, l'ultima battaglia, il nuovo "nemico invisibile", il coronavirus che "sconfiggeremo per emergere più forti di prima".

C'è un passaggio che segna un distacco totale dai dem, una linea di demarcazione, una faglia culturale profonda che segna questa campagna presidenziale: "Quello che unisce le generazioni è una incrollabile fiducia nel destino dell'America e una infrangibile fede nel popolo americano". La collisione dei due mondi, da una parte i dem del "noi e voi", il dipinto di un paese in inesorabile declino, le tenebre, dall'altra gli Stati Uniti che continuano ad avere "una missione speciale nel mondo". La storia galoppa nella retorica del discorso di Trump: "È questa convinzione che ha ispirato la formazione della nostra unione, la nostra espansione verso ovest, l'abolizione della schiavitù, il passaggio dei diritti civili, il programma spaziale e il rovesciamento del fascismo, della tirannia e del comunismo". La risposta americana che nel presente si traduce in una promessa: "Produrremo il vaccino forse prima della fine dell'anno, forse anche prima".
Questa parte del discorso di Trump sulla grandezza americana serve a introdurre un'ombra che incombe, il nemico in questa campagna, il Partito democratico di Joe Biden: "Eppure, nonostante tutta la nostra grandezza come nazione, tutto ciò che abbiamo raggiunto è ora in pericolo. Questa è l'elezione più importante nella storia del nostro Paese". Compare la guerra dei due mondi, le due Americhe: "In nessun momento gli elettori si sono mai trovati di fronte a una scelta più chiara tra due partiti, due visioni, due filosofie o due agende. Questa elezione deciderà se salvare il sogno americano o se permettere a un programma socialista di demolire il nostro amato destino. Deciderà se creare rapidamente milioni di posti di lavoro ben pagati o se schiacciare le nostre industrie e inviare milioni di questi posti di lavoro all'estero, come è stato stupidamente fatto per molti decenni. Il vostro voto deciderà se proteggere gli americani rispettosi della legge o se dare libero sfogo alla violenza degli anarchici, degli agitatori e dei criminali che minacciano i nostri cittadini". È la chiamata di Trump alla battaglia. I contenuti da Armageddon della convention democratica e la cronaca da guerriglia di queste ore hanno fornito il chiodo per appendere il quadro dei repubblicani. Sono le conseguenze inattese della campagna dei dem sulla catastrofe già consumata. E sono diventate un problema per un partito che guida la corsa, ma improvvisamente sente un terreno fragile sotto i piedi.
Trump sfodera l'artiglio, dà la zampata, non usa giri di parole, fa Trump al suo meglio che per gli avversari coincide con il suo peggio: "Questa elezione deciderà se difenderemo lo stile di vita americano o se permetteremo a un movimento radicale di smantellarlo e distruggerlo completamente. Non succederà. Alla Convention nazionale dei Democratici, Joe Biden e il suo partito hanno ripetutamente assalito l'America come terra di ingiustizia razziale, economica e sociale, quindi stasera vi faccio una semplice domanda: Come può il Partito Democratico chiedere di guidare il nostro Paese quando ha passato così tanto tempo a distruggere il nostro Paese?". Sono le domande che circolano tra gli elettori moderati, quelli che guardano le immagini della devastazione, muovono il piccolo e grande business americano. I repubblicani hanno l'obiettivo chiaro, puntare sui centristi indecisi, convinceranno gli elettori a andare a votare per loro e non per Biden-Harris?
07
Il risveglio dem. Biden farà comizi negli Stati chiave

Una cosa è certa, il messaggio è talmente minaccioso che ha indotto i democratici a cambiare strategia. Contenere Trump è impossibile, gli eventi stanno cambiando il contesto della campagna più rapidamente di quanto immaginavano gli strateghi democratici. L'idea originaria era quella di giocare di rimessa, ma con la speranza di rimandare la palla indietro stando fermi, immobili. Con Trump questa è un'illusione, hanno sottovalutato ancora una volta il carattere dell'uomo, The Donald, piaccia o meno, è un combattente, copre tutte le parti del campo e il problema con un soggetto simile è che manda sempre la palla ai lati del campo, la fa viaggiare veloce, scende sotto rete in un lampo e assesta lo smash. È un animale politico strano, sulla terra rossa è un passista, fa lunghi scambi e cerca di buttare giù l'avversario per sfinimento, sul prato verde è infido, pericoloso, da numero che non t'aspetti. Tennis. Guardate l'uso che fa dei poteri presidenziali: s'accende la telecamera, parte lo show, la grazia concessa, la cittadinanza per chi sognava l'America, l'Air Force One che diventa il simbolo della velocità, la reazione, il movimento, la Casa Bianca che si trasforma in set del potere. Tutto ha una logica narrativa stringente, fin dalle località scelte con cura dai repubblicani per lanciare il loro messaggio.

Osservate il luogo che il vicepresidente Mike Pence scelto per il suo discorso: Fort McHenry, a Baltimora, "la città dei pirati", il baluardo pentagonale di chi si era ribellato al dominio inglese, la conquista dell'Indipendenza. Sono elementi essenziali del discorso politico americano, chi pensa di poterne fare a meno compie un errore, non conosce la storia o la piega secondo i suoi desideri. Queste immagini scorrono tutte inesorabilmente nel fiume della gloria, della potenza, della storia, della solidità della fortezza America, un luogo permanente della cultura, della letteratura, del cinema degli Stati Uniti.
08
Battleground States. Pelosi fiuta il pericolo
Nancy Pelosi ha fiutato il pericolo e avvisa Biden di non accettare appuntamenti al buio. Fosse per lei, il dibattito tra Biden e Trump non si farebbe mai: "Non credo che ci dovrebbero essere dibattiti, non legittimerei una conversazione con lui né un dibattito in termini di presidenza degli Stati Uniti". Quello che è un ovvio attacco a Trump è in realtà un avviso delicato a Biden: non scendere nell'arena con Donald. Biden ha detto che farà l'esatto contrario: "No, ho intenzione di dibattere con lui. Sarò il fact-checker sul palco mentre discuto con lui". Sarà una serata da pop-corn.
Biden continua a guidare la corsa con 7.1 punti di vantaggio nella media nazionale di Real Clear Politics, ma i segnali di un suo cedimento si moltiplicano. L'ultimo sondaggio di Reuters/Ipsos (svolto tra il 19 e il 25 agosto) mostra una flessione in alcuni strati dell'elettorato e un effetto zero della convention democratica sui consensi.

Dopo quello pubblicato da Politico, un altro certificato del "No Bump". Biden guida la corsa 47 a 40 su Trump, ma ci sono segni preoccupanti di flessione nelle zone suburbane (-4 punti) e in questi numeri non c'è l'effetto della convention repubblicana. Ci sarà? Sulla corsa di Biden non s'è visto, attendiamo i numeri di Trump.
Cosa succede negli Stati in bilico? Occhio alle curve dei due candidati:

Tre punti di vantaggio di Biden, niente, perché sono dentro l'errore statistico. Ora guardate cosa sta succedendo in Michigan:

Ultimo sondaggio di Trafalgar sul Michigan:

Trump è in testa, il sondaggio è stato condotto dal 14 al 23 agosto, incorpora dunque l'effetto (quasi zero) della convention democratica e non quella dei repubblicani. La Rust Belt nel 2016 aveva votato per Trump e naturalmente si potrebbe dire che Biden dunque fa tornare i dem competitivi dove il "muro blu" di Hillary Clinton crollò. Il problema è che non si possono fare analisi politiche senza contesto: il 2020 non è il 2016 (soprattutto per Trump). Il presidente ha di fronte la tempesta perfetta: una crisi sanitaria (il coronavirus), il più grande collasso della produzione dal dopoguerra (effetto del lockdown), la rivolta nelle zone suburbane dell'America (questione razziale). Se questi elementi restano in campo con forza Biden vince, ma se il coronavirus si affievolisce, la ripresa economica va e le rivolte diventano un boomerang, allora Trump può cominciare a mettere la freccia per il sorpasso. Ci sono molti "se" per tutti, ecco perché la corsa resta aperta. Biden ora è il favorito, lo resterà probabilmente fino all'ultimo giro di pista, ma la vittoria non è assegnata a tavolino, deve correre, tanto.
09
Il partito di Trump è il partito di Trump
Sta succedendo quanto abbiamo anticipato nelle nostre cronache su America 2020: Biden cambia strategia elettorale. Era chiaro che sarebbe accaduto, era più che sufficiente guardare i dati economici e i corsi azionari di Wall Street, la curva dell'epidemia. Il contesto della corsa non poteva essere solo quello del Giudizio Universale con l'Arca di Noè di Joe. Poi è arrivato il colpo di cannone della convention repubblicana, la campagna di Trump è partita il 24 agosto. E da questo momento è un'altra corsa, Joe Biden non ha più la vittoria in tasca. È in netto vantaggio, se si votasse oggi, vincerebbe. Ma non si vota oggi, ci sono due mesi di tempo. Chi legge le cronache locali, quello che raccontano gli strategist democratici e repubblicani, vede che Trump è di nuovo nella fase MAGA, osserva sul territorio i segnali che dicono che la base repubblicana è motivata e si riconosce in Trump. Basta scorrere i titoli per rendersene conto: "Il Gop di oggi è il partito di Donald Trump" (Npr); "Il partito di Trump Trump regna supremo alla RNC" (Los Angeles Times); "Il partito repubblicano ora è il partito di Trump" (BBC); "Una cosa è chiara, questo ora è il partito di Donald Trump" (CNN). Serve altro? Un radar sugli Stati della Rust Belt. Ecco perché Biden esce dallo scantinato. Fa la mossa che non può più rinviare, quella che (forse) eviterà ai dem di perdere una gara già (in)decisa.

Lavoro e sicurezza, "Jobs", "Law and Order", "l'America socialista" di Biden e la "terra della prosperità" di Trump. Due Americhe, una Casa Bianca. Siamo di fronte a una corsa di dragster che sputano fuoco. Biden andrà negli Stati-chiave perché la sua strategia dell'assenza è diventata un pericolo mortale. Fin dal primo giorno della convention repubblicana è apparsa la fragilità, la rottura come uno specchio dei pixel dello Zoom democratico. Il cambio di Biden era un fatto scritto, la campagna nel "basement" della sua abitazione, in Delaware, si è trasformata in un picnic sulle sabbie mobili, mentre Trump bombardava tutte le postazioni dei dem. Il modo più rapido e efficace per dissipare un vantaggio elettorale che resta ancora grande, ma sempre più in bilico. Biden, saggiamente, cambia quello che non si poteva più sostenere, una campagna presidenziale da segregato in casa. Ieri sera, intervistato da MSNBC ha cominciato dicendo che stava prendendo in considerazione l'idea di andare a Kenosha, in Wisconsin, il teatro dove si è spostata la protesta del Black Live Matters, poi ha inserito la chiave sul cruscotto, acceso il navigatore e annunciato che andrà dove balla il voto e si decide la presidenza, in Wisconsin, Minnesota, Pennsylvania e Arizona. "Battleground States", Stati in bilico.
Biden sa che questo è un giro di giostra che non passa inosservato, tutta la comunicazione dei democratici era giocata sulla compostezza - fino all'immobilismo - mascherina e distanziamento sociale, niente viaggi, stop alla campagna fisica, "go online" e lasciamo che Trump sia consumato con il coronavirus. Finora aveva funzionato, poi è partito il treno di The Donald. Biden sottolinea in perfetto stile igienista che la sua campagna si svolgerà "nel rispetto della regole stabilite dai vari Stati per la pandemia", ma il fatto politico è quello del candidato dem che improvvisamente.. "si muove". Un dettaglio? Gli americani notano i dettagli e si fanno una domanda: può il futuro Commander in Chief stare chiuso in casa? No. "Welcome on board, Joe".