6 Settembre
Destra, sinistra, Draghi
Il premier Conte dice che in caso di sconfitta alle regionali per il governo non cambia nulla, ma evoca la figura dell'ex presidente della Bce e auspica il bis di Mattarella. Che cosa sta succedendo nella maggioranza? America 2020: accettare la sconfitta, questo sarà il problema. La lezione dello sceriffo di Saigon
Che succede? Tornano (sono già tornati e lo vedremo nel voto regionale) temi che si chiamano "economia" e "immigrazione". Succede che il governo è in difficoltà perché si sta esaurendo la spinta dello "stato d'eccezione", il consenso di Giuseppe Conte è in calo e sta emergendo nel dibattito (senza che lui faccia niente) la figura di Mario Draghi. Il premier ha avuto una infelice uscita sull'ex presidente della Banca centrale europea ("lo volevo presidente della Commissione Ue, mi disse che era stanco", perché Conte dispone anche del futuro di Draghi, si capisce) e questo segnala che la sua paura è proprio lui, Draghi. È chiaro che l'ex numero uno della Bce ha due possibili destinazioni: la presidenza della Repubblica e Palazzo Chigi. Dicono in benpensanti: "I partiti non vogliono Draghi". Ah, che novità, perché c'era qualcuno che voleva Monti? Dicono quelli che oggi è tornata la politica: "Non è tempo di un governo tecnico". E perché dovrebbe essere tecnico, di grazia? Dicono quelli che la sanno lunga: "Conte ha l'appoggio del Vaticano". Ma davvero? E come mai ai sapientoni che conoscono tutte le trame vaticane è sfuggito il dettaglio della nomina nel luglio scorso di Draghi come membro ordinario della Pontificia Accademia delle Scienze sociali? Che domande.
Non a caso Conte auspica un bis di Sergio Mattarella al Quirinale. Così evita la presenza di Draghi sul Colle, la figura carismatica che de facto governerebbe l'Italia (il presidente della Repubblica ha poteri formali e sostanziali importanti, il contesto storico degli ultimi 30 anni ne ha potenziato l'azione politica) e per la sua riconferma nella casella di Palazzo Chigi spera nel no dei partiti a "soluzioni di governi tecnici", appunto. A mantenere il consenso poi sarà sufficiente la pioggia di denaro del Recovery Fund. Illusioni. È vero che Conte è un uomo...
Che succede? Tornano (sono già tornati e lo vedremo nel voto regionale) temi che si chiamano "economia" e "immigrazione". Succede che il governo è in difficoltà perché si sta esaurendo la spinta dello "stato d'eccezione", il consenso di Giuseppe Conte è in calo e sta emergendo nel dibattito (senza che lui faccia niente) la figura di Mario Draghi. Il premier ha avuto una infelice uscita sull'ex presidente della Banca centrale europea ("lo volevo presidente della Commissione Ue, mi disse che era stanco", perché Conte dispone anche del futuro di Draghi, si capisce) e questo segnala che la sua paura è proprio lui, Draghi. È chiaro che l'ex numero uno della Bce ha due possibili destinazioni: la presidenza della Repubblica e Palazzo Chigi. Dicono in benpensanti: "I partiti non vogliono Draghi". Ah, che novità, perché c'era qualcuno che voleva Monti? Dicono quelli che oggi è tornata la politica: "Non è tempo di un governo tecnico". E perché dovrebbe essere tecnico, di grazia? Dicono quelli che la sanno lunga: "Conte ha l'appoggio del Vaticano". Ma davvero? E come mai ai sapientoni che conoscono tutte le trame vaticane è sfuggito il dettaglio della nomina nel luglio scorso di Draghi come membro ordinario della Pontificia Accademia delle Scienze sociali? Che domande.
Non a caso Conte auspica un bis di Sergio Mattarella al Quirinale. Così evita la presenza di Draghi sul Colle, la figura carismatica che de facto governerebbe l'Italia (il presidente della Repubblica ha poteri formali e sostanziali importanti, il contesto storico degli ultimi 30 anni ne ha potenziato l'azione politica) e per la sua riconferma nella casella di Palazzo Chigi spera nel no dei partiti a "soluzioni di governi tecnici", appunto. A mantenere il consenso poi sarà sufficiente la pioggia di denaro del Recovery Fund. Illusioni. È vero che Conte è un uomo che fiuta il pericolo, ma essendo anche imprigionato nel suo Io, non vede che il suo problema non si chiama Draghi. Il pericolo ha il volto dei 126 miliardi di debito pubblico accumulati in soli 4 mesi, quasi 2600 miliardi di ipoteca sul futuro, e la fine del quantitative easing della Bce. La realtà sta per presentare il conto. E molte sono le opere in fieri. Preparatevi. Nel frattempo, facciamo il nostro giro di giostra. Seguite il titolare di List.
01
L'inaffondabile Conte
Giuseppe Conte ha detto che resterà a Palazzo Chigi e, chissà perché, la cosa non desta alcuna sorpresa. Conte è "l'avvocato del popolo" (autodefinizione) che in Parlamento si battezzò orgogliosamente "populista" e per restare al governo un anno dopo divenne un democratico di sinistra e europeista. Quindi il premier che afferma che nulla cambierà per il governo, qualsiasi sia il risultato del voto delle regionali, è un fatto che rafforza quel che è evidente a tutti: Conte si ritiene inaffondabile. E in effetti ha qualche ragione per pensarlo, perché i suoi partner di governo sono deboli e sono spaventati dalla prospettiva di tornare al voto nazionale. Il centrodestra vincerà ancora un altro turno elettorale regionale e, a dispetto della realtà tragica per la maggioranza, la cosa passerà in cavalleria, perché l'importante è tenere alto il muro contro Salvini, il quale nel frattempo ha conquistato praticamente quasi tutto il paese. Se questa era la strategia di contenimento del "pericolo fascista", allora è fallita.
Conte come si dice in gergo "mette le mani avanti", perché nel voto regionale le cose potrebbero andare malissimo (sconfitta del Pd in Toscana), male (4 a 2 finale per il centrodestra, con tenuta della Toscana), bene (3 a 3 a sorpresa con recupero in Puglia o nelle Marche) e addirittura benissimo con un ribaltone del pronostico più probabile, cioè un 2 a 4 per il centrosinistra. Matteo Salvini dice "punto al 7 a 0" (si vota anche in Valle d'Aosta, regione che ha un quadro politico particolare e non comparabile con quello delle altre 6) e aggiunge che aspetta "la sera del 21 settembre per contare i voti veri e saranno sorprendenti anche in Campania". In politica tutto è possibile, ma sul taccuino di List teniamo fermo il 4 a 2 per il centrodestra e il radar acceso sulla Toscana. C'è altro? Certo, come cantava Giorgio Gaber, destra e sinistra. E naturalmente Draghi. È tutto molto più concreto di quanto si immagini.
02
Destra e sinistra
Destra e sinistra esistono ancora? La domanda è più o meno come quella sugli Ufo, ma se te la fanno in un dibattito che si è tenuto ieri a Dogliani, al Festival della tv e dei nuovi media, devi pur rispondere. Certo che esistono, sono più o meno vive e lottano insieme a noi. Le vedremo in campo il 21 settembre, quando sarà chiaro chi ha vinto e chi ha perso le elezioni regionali. Partiamo dalla definizione dei due spazi politici. Sarà stato il caldo, ma ho provato a uscire dal discorso quotidiano per vedere se esistono ancora quelle che un tempo erano chiamate "categorie politiche." Massimo Giannini, direttore de La Stampa, mi ha alzato la palla dicendo che "il problema è la definizione della sinistra". Lo smash è stato facile, perché la sinistra è in crisi d'identità dai tempi del crollo del Muro (1989), è in cerca d'autore da allora (l'elenco dei leader presi come punto di riferimento è da soap opera, uno su tutti, Zapatero...) e su questo punto c'è una crisi (ir)risolta e speculare con la destra. Quale? Partiamo dalla triade classica dei conservatori: "Dio, Patria, Famiglia". Al pubblico di Dogliani sarà sembrato un colpo di sole un discorso di filosofia politica (o presunto tale), ma se non voliamo alto siamo costretti a un rasoterra sulle dichiarazioni del nostro Tocqueville, Giuseppe Conte, dunque... andiamo con ordine, cominciamo da una cosa modesta, partiamo dal problema di Dio.
"Dio è morto, Marx è morto e neanche io mi sento tanto bene" è la formula che funziona: la destra ha perso la centralità di Dio nel discorso politico (e nella vita dell'uomo, il Don Chisciotte di Miguel de Cervantes è il vagito del romanzo europeo, il suo esordio in un "mondo senza Dio" dominato dalla ragione di Cartesio - sul tema consiglio di leggere L'Arte del Romanzo, di Milan Kundera).
Si dirà che questo è un dilemma che riguarda solo i conservatori, ma in realtà questo soggetto ha il suo "doppio" a sinistra, mostra il suo volto con la morte di un altro dio, il comunismo. Da una parte abbiamo la salvezza ultra-terrena, dall'altra c'è l'utopia della salvezza terrena rappresentata dal socialismo. Per destra e sinistra, l'urgenza improvvisamente è quella di riempire un vuoto. Per la destra il problema ha una radice antica che coincide con il processo di secolarizzazione della società contemporanea, per la sinistra è la strage delle illusioni che si materializza nel crollo del Muro di Berlino.
Il Partito di Dio finisce in Italia con il risultato dei referendum sul divorzio (1974), la legge sull'aborto (1978) e il fallimento del referendum che ne chiedeva l'abrogazione (1981). È in questi tre eventi (dove fu gigantesco il ruolo del piccolo Partito radicale di Marco Pannella, che aveva colto perfettamente la crisi culturale della Chiesa e la forza creatrice/distruttrice delle donne) che la destra italiana finisce e inizia la sua traversata nel deserto.
La sinistra prosegue con le sue certezze fino quando a Berlino vanno giù tutte le certezze. Achille Occhetto dirà "non ci sono buchi nelle nostre bandiere". Aveva ragione, non c'era un buco, s'era aperto un abisso che nessuno ha ancora colmato.
Come è stato colmato il vuoto? La destra ha trovato la risposta in un -ismo identitario, ha ridisegnato il suo spazio vitale e ha trovato naturale farlo sui confini della patria. La conseguenza è che questo spazio va difeso. Il tema del coronavirus è importante, ha cambiato la nostra quotidianità, ha curvato lo spazio dell'immaginario, martellato le vecchie abitudini. Tutto vero, lo ha ricordato Maurizio Molinari sul palco di Dogliani, ma confesso che più il direttore di Repubblica sosteneva questa analisi e più pensavo che questo quadro fosse precario, fragile, destinato a scomparire. La realtà sta già illuminando il domani: sul coronavirus non costruisci una piattaforma, un programma politico, la politica della "biosicurezza" (perfettamente svelata nel libro del filosofo Giorgio Agamben, intitolato A che punto siamo? L'epidemia come politica, è perfetta per una dittatura (non a caso ha funzionato solo nella Cina di Xi Jinping, dove tutto è opaco), ma l'Occidente è democrazia, una libertà imperfetta e compressa, ma pur sempre libertà.
La prova arriva dalle difficoltà che sta incontrando Joe Biden negli Stati Uniti, il suo messaggio resta dark, cupo, la sua è una teologia della punizione del peccato originale (il contagio), tanto che il riflesso condizionato è quello della frase a cui resterà inchiodato: "Non esiterò a ordinare un altro lockdown". In America, dove non ha funzionato il primo, il secondo è impossibile. Domanda sul taccuino: cosa succede se scoprono il vaccino? Succede che tutto il racconto politico basato sul coronavirus evapora e il partito della mascherina sparisce.
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Altro? Nel panorama italiano c'è un solo fatto che catalizza l'attenzione: Berlusconi in ospedale. Il professor Alberto Zangrillo oggi ha spiegato che "il paziente è tranquillo e sta reagendo il modo ottimale alle cure". Il decorso è regolare ma Zangrillo ribadisce che la "fase è delicata". E l'ottimismo? "Manifesto un cauto ottimismo che ribadisco, non vuol dire cantare vittoria dato che Berlusconi appartiene alla categoria definita più fragile". Il contagio del Cavaliere ha offerto il chiodo che serve al titolare per appendere il quadro sul caso con un commento sull'Unione Sarda. Ci sono parecchie lezioni, sono valide erga omnes, non solo tra i nuraghi.
03
Il caso che non c'è (e quello che c'è). Il contagio di Berlusconi
Calma e gesso. È la regola dei giocatori di biliardo, È sempre bene ricordarla quando si sollevano polveroni e l’emozione prende il sopravvento sulla razionalità. La crisi del coronavirus ci ha insegnato molte cose, la prima delle quali è che nei momenti di tensione bisogna ragionare. La notizia in prima pagina è il ricovero di Silvio Berlusconi, è positivo al coronavirus, ha bisogno di cure e la tenacia per superare anche questo momento al Cavaliere non manca. Gli auguriamo una pronta guarigione e il ritorno rapido alla vita pubblica. Il caso Berlusconi ci offre lo spunto per fare un punto nave su questi mesi di crisi del coronavirus, riannodare i fili, raccogliere le tessere del mosaico, parlare del rapporto tra lo Stato centrale e la Sardegna.
Durante il lockdown abbiamo registrato e provato sulla nostra esperienza quotidiana - perché abbiamo continuato a lavorare in sede, all’esterno, facendo i cronisti - numerosi esempi di perdita dell’equilibrio: la segregazione alla cinese (che non poteva fermare il virus e avrebbe causato un collasso dell'economia, cosa purtroppo accaduta), le surreali istruzioni del governo poi culminate nella "regolazione" dei rapporti con "l’affetto stabile", la spettacolare caccia all’untore che ha raggiunto il suo apice con le immagini dell'inseguimento di un runner solitario in spiaggia. Questa era la prima fase del bio-thriller. Poi è arrivata la seconda fase, non meno interessante sul piano antropologico, la riapertura delle attività economiche, con gli scampoli di un’estate che vogliamo tutti dimenticare. Gli imprenditori ci hanno provato, da soli e in condizioni caotiche, dentro una giungla di norme ideate solo per parare il culo (scusate, ma è il "termine tecnico" da usare in questo passaggio del pezzo) delle élite politiche e burocratiche. Basta leggere i verbali del Cts pubblicati l'altro ieri: gli esperti volevano l'immunità legale e minacciavano le dimissioni in caso contrario. Zero responsabilità.
È in questo periodo che nasce il caso Sardegna, un caso che non c’era, ma era perfetto da elevare come capro espiatorio degli errori gravi fatti da altre Regioni. Salgono i contagi da rientro, facile, la colpa è dei sardi. Sappiamo com'è andata, aveva ragione il presidente della Regione, Christian Solinas, che chiedeva i test in ingresso (e il governo disse no) e oggi le risposte sono balbettanti perché le scelte politiche non sono mai neutre. Ci hanno assegnato la parte degli untori, le vittime dipinte come carnefici. Abbiamo già scritto che questa è la politica dell’uomo bianco e noi la rispediamo al mittente.
Poi è arrivato il caso Briatore, animatore di una movida internazionale che ha poco a che fare con gli usi e i costumi dei sardi. Infine è scoppiato il caso Berlusconi, il cavaliere positivo al coronavirus. Anche stavolta è partito il tam tam del virus con le launeddas. Ribadiamo il concetto: non esiste il Covid nuragico, non c'è un virus autoctono, non si contrae bevendo mirto. Esiste un problema sanitario di importazione (che si sta affrontando); esiste un problema di comportamenti da parte di carovane di descamisados che non hanno alcun rispetto delle minime regole che sono più che sufficienti per limitare i rischi; esiste un problema di rispetto della nostra terra e della nostra cultura da parte dello "straniero"; esiste un problema di cecità ideologica della politica nazionale; esiste un problema generale di assenza di buon senso e di uso politico della crisi del coronavirus che deve finire. Da parte di tutti, maggioranza e opposizione.
Il contagio di Berlusconi evoca baccanali in Costa Smeralda che tra l'altro nel caso del Cavaliere non ci sono stati. Silvio è sempre stato un bon vivant, su questo non abbiamo dubbi, ma anche alla sua età è un uomo che prima di tutto lavora senza risparmio. Non sappiamo chi abbia veicolato il virus e come sia arrivato in casa di Berlusconi. E ha ragione la figlia Barbara quando dice che "la caccia all'untore è una cosa da Medioevo e la trovo umanamente inaccettabile".
L'esperienza del coronavirus è preziosa perché ora sappiamo cosa fare: siamo capaci di testare, tracciare e trattare i casi e dobbiamo farlo con intensità; dobbiamo fare i controlli all'ingresso, proteggere non "i confini" (ci pensa il Mar Mediterraneo) ma la nostra salute e il record mondiale di longevità; modernizzare la nostra Sanità, a partire dalla formazione e protezione del personale medico; preparare un piano anti-pandemia su misura (perché può succedere di nuovo e altri virus nasceranno e arriveranno dall'altra parte del mondo - vi consiglio di leggere Spillover, di David Quammen); varare un piano di digitalizzazione a tappe forzate con investimenti pubblici e privati; dare alla scuola strutture sicure e agli insegnanti il riconoscimento per il lavoro unico che svolgono; creare nuovi spazi esterni di educazione per i nostri figli, essere sardi è un privilegio, la nostra prima maestra è l'Isola con il suo incanto; preparare al meglio la prossima stagione turistica con chi lavora sul campo e presentarci dalla primavera del 2021 come una terra sicura, Covid free, quale eravamo prima che il governo imponesse una linea suicida. È la linea del buon senso, quello che è mancato a Roma. Siamo in missione di pace, ma con l'elmetto. E abbiamo anche lo slogan già pronto per l'uso: Forza Paris.
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Programmi per il futuro? Andiamo in America, fino al 3 novembre c'è la corsa pazza per la Casa Bianca.
04
America. Accettare la sconfitta, questo è il problema
La campagna presidenziale in America è una corsa di dragster. Ai liberal dell'editoria la cosa provoca incubi notturni, in redazione pensavano che Trump fosse già allo spiedo e invece si ritrovano con un Biden che fa di tutto per essere rosolato. Manca la serenità per guardare le cose in maniera fredda. Se vince Trump sprofondano nella depressione, se vince Biden esultano. Risultato? Nel 2016 gli intelligenti a prescindere cannarono tutte le previsioni (e ne avremo un clamoroso esempio tra qualche riga) e invece di chiedersi cosa avevano sbagliato, continuarono un minuto dopo la vittoria del phonato di Manhattan a spiegare al volgo cosa era andato storto (la loro previsione). Il copione si sta ripetendo. Noi attendiamo pazienti sulla riva del Potomac con il taccuino squadernato.
La corsa è ancora lunga, Trump può perdere, ma la notizia è che può vincere. Nonostante tutto quello che è successo. L'Economist traduce il caotico momento con questa copertina:
Bella. Ma andiamo avanti. Quanto male può andare? Ecco, bisogna mettersi d'accordo su cosa sia il bene e cosa sia il male in questa storia. Perché se l'idea è dominata dal manicheismo, allora all'Economist sbagliano (non è la prima volta, l'elenco è lungo e non aver intercettato il macigno della Brexit per il miglior giornale del mondo che ha sede a Londra è un'ombra che resta), tutti i candidati in questa partita hanno pregi (perfino Trump) e difetti (perfino Biden). Ovviamente l'Economist fa andare il girrarrosto per cucinare Trump, purtroppo si vede che hanno calcolato male il tempo di cottura. Il settimanale inglese sostiene che gli esiti del voto potrebbero essere caotici (vero) e che Trump potrebbe contestare il risultato (potrebbe farlo anche Biden, ma è un dettaglio che si dimentica), ricorda il precedente in Florida con la sfida tra Bush jr. e Al Gore, poi con sprezzo del ridicolo - perché di questo si tratta - per rafforzare la tesi del caos trumpiano prossimo venturo scrive che "nel 2006 Silvio Berlusconi ha perso per poco le elezioni in Italia e ha affermato, senza prove, che si erano verificati brogli. La Corte Costituzionale si pronunciò a favore del suo avversario e Berlusconi si arrese a malincuore". E sarebbe questo il fulgido esempio portato di fronte al tribunale della Storia per processare in via anticipata Trump? Ripasso di storia d'Italia per l'Economist. Quelle elezioni finirono così: l'Unione di Romano Prodi vinse alla Camera con soli 25 mila voti in più e perse al Senato con 500 mila voti in meno. I votanti furono oltre 35 milioni (su 42 milioni di aventi diritto), le schede bianche furono oltre 462 mila, le schede nulle (comprese le bianche) furono in tutto oltre 1.100.000. Il quadro era questo e il controllo dei voti con simili margini era non solo logico, ma doveroso. Il punto che invece l'Economist centra perfettamente è che in questa America accettare la sconfitta non è più un fatto di cavalleria istituzionale (forma e sostanza) che si può dare per scontato. Ma anche qui, non è un problema a senso unico. I democratici hanno dipinto Trump come un pericolo costante per la democrazia e, viceversa, Trump ha detto di Biden che è un socialista, ostaggio dei violenti che hanno scatenato la guerriglia nelle strade americane. Nessuno in questa storia può scagliare la prima pietra, perché nessuno è senza peccato. E la copertina è bella, ma quando leggi il contenuto è un po' corta. Che facciamo ora? Un pezzo a quattro mani sulla campagna presidenziale.
05
Il Vietam di Jfk e lo sceriffo di Trump
di Mario Sechi e Rita Lofano
L'America doppia, due mondi in rotta di collisione, il paese della divergenza insanabile, la crescita non a U e nemmeno a V, ma a K, due linee, una per l'inferno e l'altra per il paradiso, l'ascesa e il declino, la Borsa che va e la produzione che sprofonda, Wall Street che crolla e il lavoro che aumenta. Una, nessuna, centomila Americhe da raccontare. Quale sarà quella vincente il 3 novembre? Non lo sappiamo, la pentola sta bollendo, il vapore fischia, il pranzo non è ancora cotto.
Il mercato azionario in due sedute ha sfiammato una galoppata che aveva battuto tutti i record, la correzione dei prezzi dei titoli delle Big Tech è brusca, una strambata, ma nello stesso giorno vedi lo tsunami di vendite e il recupero prodigioso fino alla chiusura con una perdita modesta. Su e giù, oscillazioni paurose per chi gioca sul tavolo da poker di Wall Street. C'è chi pensa che siamo di fronte allo scoppio di un'altra bolla delle troppo celebrate Big Tech, ma il parallelo storico con le prime dotcom è difficile da sostenere, nonostante i numeri titanici: in sole due sedute Apple ha perso 219 miliardi di dollari di capitalizzazione, un numero pari al valore di quella che un tempo era la società regina del listino americano, la Exxon Mobil Corp., petrolio, energia, la potenza della trivella, l'accensione del motore. Lo scoppio della bolla del 2000? John Authers su Bloomberg spegne i fanali dei paralleli storici: "Ci sono due differenze significative rispetto a 20 anni fa. Le azioni popolari di oggi includono certamente alcune che sono molto sopravvalutate - ma stanno anche facendo profitti su una scala che le società di internet di 20 anni fa potevano a malapena immaginare". Non è lo stesso mondo, anche se succedono cose dell'altro mondo.
Cosa conta di più per la rielezione di Trump? Tutto, The Donald è un altro soggetto che oscilla come il pendolo di Edgar Alan Poe, è progettato per cogliere la notizia del momento e trasformarla in messaggio politico. Fox News pubblica sondaggi che lo danno in svantaggio negli Stati in bilico? Lui osserva la curva del Dow Jones e afferma: "Ogni volta che Fox pubblica un sondaggio che mi dà perdente il mercato crolla". Sempre sotto o sopra le righe. Sta sul pezzo e spara tutti i colpi, l'iperbole è il suo destino. Se perde, lascia un cratere atomico; se vince, prevale in uno scontro che per l'America è in ogni caso un punto di non ritorno.
Conferenza stampa, Casa Bianca. Il presidente non cita lo scivolamento degli indici azionari, ma il dato dei nuovi posti di lavoro: "Noi ci concentriamo sulla creazione di posti lavoro, mentre l'estrema sinistra crea solo violenza". Eccolo il gioco degli opposti, io faccio tu disfi che, naturalmente, funziona a parti rovesciate. E dunque se per i dem tutto va male e Trump è una calamità (in)naturale, lui snocciola "i dati dell'economia americana" che "sono senza precedenti" e "la ripresa continua". Due mondi e non necessariamente uno è vero e l'altro è falso, viviamo nell'epoca del "Blur", titolo di un ottimo libro di Bill Kovach (fu capo dell'ufficio di Washington DC del New York Times) e Tom Rosenstiel (corrispondente al Congresso per Newsweek) sull'era della con-fusione dei fatti e dei ruoli, il vero e il falso che si mischiano, i giornalisti che fanno gli attivisti e gli agit prop che fanno i giornalisti. Tutti in Rete, come tonni.
06
Quando The Atlantic scrisse: Trump non sarà mai presidente
Nel gioco al massacro di Washington, il vero e il falso si mescolano, sangue e schizzi di succo di pomodoro. The Atlantic cita un fatto che appartiene a questa terra di mezzo. Il magazine liberal scrive che Trump in Francia nel novembre del 2018 per commemorare i 100 anni della fine della Prima guerra mondiale avrebbe apostrofato i soldati americani morti come dei "perdenti" e dei "cretini". Trump doveva andare in visita a un cimitero americano, ma annullò tutto: "Perché dovrei andare a questo cimitero? È pieno di perdenti". Trump secondo The Atlantic avrebbe anche definito i 1.541 soldati americani morti nella battaglia del Bosco Belleau come dei "cretini". Fonte citata? Nessuna. Questo è il punto debole della vicenda, che fino a prova contraria la rende friabile. Così la Casa Bianca prende la scure da boscaiolo e fa la smentita secca: "Nessuno è abbastanza coraggioso da mettere il suo nome su queste accuse. È perché sono false". Tosta. Trump chiosa: "La gente, il popolo americano capisce questi orribili giochi politici". Una giornalista di Fox News, Jennifer Griffin, dice che la storia è vera, ma anche lei non cita le fonti e quindi siamo sempre al punto di partenza: Atlantic conferma Atlantic, Fox cita Fox, la Casa Bianca smentisce e Trump fa Trump. La storia fa saltare il coperchio della pentola a pressione della Casa Bianca, entra in scena la First Lady: "La storia di The Atlantic non è vera. Sono tempi pericolosi quelli in cui si crede a fonti anonime di cui nessuno sa le motivazioni. Questo non è giornalismo. È attivismo. Ed è un disservizio per il popolo della nostra grande nazione". Gong, Melania.
In attesa della conferma dei fatti, ricordiamo per chiarezza un paio di punti:
A) Trump è capace di dire quelle cose, pronunciò frasi peggiori su John McCain, catturato e torturato in Vietnam: "Non è un eroe, a me piacciono quelli che non vengono catturati".
B) The Atlantic è una gloriosa rivista liberal che fa l'opposizione al presidente. La sua miglior penna, James Fallows (che fu anche speechwriter di Jimmy Carter) il 13 luglio del 2015 impaginò un triplo salto mortale senza rete:
Donald Trump non sarà il 45° presidente degli Stati Uniti. Né il 46°, né qualsiasi altro numero tu possa nominare. Le possibilità di una sua nomination ed elezione vincente sono esattamente zero.
Bravo, Fallows. Quattro anni dopo, rischia di vedere per la seconda volta realizzata al contrario la sua profezia sbagliata.
Trump continua a pensarla male su McCain ("non siamo mai andati d'accordo" ha commentato ieri) e sulla guerra in Vietnam (e naturalmente anche in Iraq e in Afghanistan), mentre The Atlantic è sempre in trincea contro The Donald che, sorpresa, s'inventa un rovescio da fondo campo e fa lui il nome di una possibile fonte, giocando a scoprire i suoi sospetti. A chi pensa Trump come "gola profonda" (era il nickname della fonte segreta dello scandalo Watergate, vedere Tutti gli uomini del presidente, film del 1976 con Dustin Hoffman e Robert Redford) del caso sui caduti in guerra? Nella sua mente si agitano fantasmi, non può che essere un uomo in divisa: John Kelly, il generale dei marines che Trump chiamò a fare il capo di gabinetto della Casa Bianca. Il presidente sperava di mettere ordine nel caos dell'amministrazione, ma Kelly non vinse il record di durata alla Casa Bianca perché (Trump dixit) "non era in grado di gestire la pressione di questo lavoro". Lavoro? È la pressione di Trump.
Naturalmente dopo questi fatti il "nevertrumpista" per cui fino a ieri il Vietnam era quello che era (una pazza guerra, una sciagura politica e strategica innescata dall'amministrazione Kennedy) ora per scorno finisce dall'altra parte della giungla. La lotta tra fazioni, la politica polarizzata conduce a questi estremi e (im)possibili sottosopra. Rischiano tutti di fare la fine di Lee Marvin e Toshiro Mifune in Duello nel Pacifico, film del 1968 diretto da John Boorman, dove un pilota americano e un soldato giapponese, gli unici due abitanti dell'isola, combattono una guerra solitaria.
07
La lezione di Saigon
Che cosa sta succedendo nella campagna presidenziale? Perché si passa dal coronavirus alla guerriglia urbana, dalla crisi economica al morire per Saigon? Siamo nel campo minato della battaglia politica, tutto regolare. Per non perdere l'orientamento suggeriamo la lettura di un libro sull'amministrazione Kennedy e il fallimento della guerra in Vietnam: The Best and the Brightest, di David Halberstam, pubblicato nel 1972. Halberstam era un principe del giornalismo americano, una penna non convenzionale e non allineata, scrisse il libro dopo 4 anni di lavoro, vinse il Premio Pulitzer.
Un mito della storia del giornalismo americano, James "Scotty" Reston, figlio di una famiglia povera emigrata dalla Scozia in America nel 1920, spiegò il motivo che innescò la catena tragica di errori di Kennedy e dei suoi consiglieri in Vietnam. Subito dopo aver incontrato un arcigno Nikita Krushev a Vienna (gli Stati Uniti avevano fallito nell'aprile del 1961 il blitz alla Baia dei Porci a Cuba), Kennedy decise di aumentare le pressioni su Mosca e incrementò l'assistenza militare al governo vietnamita. L'incontro con Krushev scosse Kennedy a tal punto da fargli dire a Reston: "Abbiamo un problema: rendere credibile la nostra potenza. Il Vietnam è il posto giusto per dimostrarlo". Quell'impulso rabbioso di Kennedy fu la scintilla che fece partire la guerra senza fine e la più grande sconfitta militare degli Stati Uniti con oltre 58 mila morti, giovani americani spediti nella giungla a combattere le ombre dei Viet Cong. Quel conflitto fu un fallimento. E il giudizio storico non cambia a seconda di quello che dice Trump e come lo interpretano i suoi avversari.
Ferito in guerra. Marines sul fronte vietnamita durante la battaglia nella città di Hue (Foto National Archives)A cosa serve citare un libro sulla guerra in Vietnam - e l'inesperienza politica che la fece nascere - a due mesi dal voto presidenziale? C'è l'attualità, le notizie pubblicate da The Atlantic, c'è la reazione di Trump, c'è l'evocazione della figura di John McCain, c'è la guerra. E soprattutto c'è l'insegnamento del generale prussiano di Carl Von Clausewitz: "La guerra non è che la continuazione della politica con altri mezzi. La guerra non è, dunque, solamente un atto politico, ma un vero strumento della politica, un seguito del procedimento politico, una sua continuazione con altri mezzi".
La campagna presidenziale è come una guerra. E dunque il Vietnam ci interessa parecchio. Nelle pagine di The Best and the Brightest c'è una storia rivelatrice. Lyndon Johnson, il vicepresidente di Kennedy, dopo la prima riunione del governo, va a riferire entusiasta al suo mentore, Sam Rayburn (democratico, fu presidente della Camera per 17 anni) e gli racconta dell'intelligenza dei membri dell'amministrazione Kennedy, del loro raffinato intelletto, oh quanto è brillante e che menti ci sono in questo team, Sam. Rayburn, uomo di vasta esperienza politica, lo gela:
Bene, Lyndon, forse hai ragione e forse ognuno di loro è intelligente come tu dici, ma mi sentirei un po' meglio se tra questi vi fosse almeno uno che si è candidato per fare lo sceriffo una volta.
Nessuno di loro ovviamente s'era mai candidato a fare lo sceriffo. Troppo eleganti e intelligenti. E in Vietnam finì malissimo.
Lo sceriffo è la perfetta metafora, il passaggio dalle chiacchiere alla realtà. E la realtà è che la macchina del voto è partita razzo, in North Carolina sono state inviate 643 mila schede agli elettori che hanno chiesto di votare per posta, uno dei "Battleground State" insieme ad Arizona, Florida, Michigan, Pennsylvania e Wisconsin. Donald Trump, rievocando lo spettro dei brogli, ha suggerito di votare due volte, tanto per mettere alla prova il sistema: una per posta e l’altra di persona. Forse perché, come sostiene Tom Stoppard, “non è il voto che fa la democrazia ma è il conteggio dei voti”. Anche qui la Casa Bianca ha poi corretto il tiro: "Il presidente non ha suggerito niente di illegale". Flip flop. Altro giro, altra corsa. Visto che i fan tendono a seguire alla lettera quello che dice Trump, le autorità del Tar Heel State hanno fatto decollare un lungo comunicato per ricordare come votare più di una volta sia un reato. Nel 2016 erano stati meno di 40 mila a chiedere di votare per posta nella Carolina del Nord, ma con gli Stati Uniti in piena crisi da coronavirus la percentuale potrebbe fare un balzo di 10 o 15 volte. Pew Research Center segnala come la quota degli americani che ha votato per posta sia quasi raddoppiata dal 2000 al 2016, passando dal 10% al 21%. E non c'era ancora il coronavirus.
08
Caro Joe, ci vediamo in Pennsylvania
Prossime tappe della campagna? Donald Trump e Joe Biden sono pronti a salire sul ring del primo confronto diretto. Televisione. Tutti a Cleveland, Ohio, il 29 settembre. Negli Stati in bilico il corpo a corpo è già in corso. Il presidente e lo sfidante democratico questa settimana hanno fatto tappa entrambi a Kenosha, nel Wisconsin, teatro delle proteste contro il razzismo scatenate dal caso Jacob Blake.
Altro appuntamento in agenda, l'11 settembre, attentato alle Torri Gemelle, 19 anni fa. Trump e Biden andranno a Shanksville, in Pennsylvania, il luogo dove il volo United Airlines 93 si schiantò dopo un'eroica rivolta dei passeggeri contro i dirottatori che erano chiusi nella cabina di pilotaggio. Sono quasi vent'anni, sembra ieri, eravamo "tutti americani". Molti lo sono stati solo per un attimo, altri mai, altri non lo sono più. Ci sono quelli che restano.
L'America è questo intreccio di storie, passato e presente, il dramma e la farsa. Dolore e gioia. La tragedia e il comico. Le elezioni presidenziali sono un contenitore di tutti i generi del racconto. Sempre dalla Pennsylvania, il Keystone State, giovedì il presidente ha preso in giro Joe Biden che continua a indossare la mascherina contro il Covid. I repubblicani e i dem qui si dividono, mostrano le differenze, la spaccatura del mondo americano. Ci sono simboli che vengono usati come chiavi inglesi per smontare gli ingranaggi dell'avversario. Così la portavoce di Trump, Kayleigh McEnany, ha aperto "l'offensiva coiffeur" della campagna, criticando la speaker della Camera Nancy Pelosi per non essersi coperta il volto mentre era dal parrucchiere a San Francisco. Colpi di spazzola.
Si viaggia, l'Air Force One atterra e decolla tutti i giorni ormai. E in Pennsylvania vanno e vengono i destini della Casa Bianca. Qui Trump parteciperà il prossimo 15 settembre al town hall organizzata dalla Abc con un gruppo di elettori indecisi, on line e in presenza. Siamo nella fase del riscaldamento dei ferri prima del dibattito tra i due candidati. Biden che fa? È stato invitato da Abc, ma sembra non abbia ancora accettato.
Nel 2016 Trump vinse la Pennsylvania con un margine di appena 44 mila voti, meno dell’1% rispetto alla rivale Hillary Clinton. Da quando è alla Casa Bianca ha visitato lo Stato almeno una ventina di volte, privilegiando i piccoli centri, le aree rurali, quelle che lo hanno portato al trionfo quattro anni fa. Con in dote 20 grandi elettori, la Pennsylvania è determinante per la corsa presidenziale. Solo California, Texas, Florida e New York ne vantano di più. Monmouth University vede Biden al 49% in Pennsylvania contro il 45% di Trump.
Abbiamo citato la Florida, il nostro pensiero va alla bella Miami, ma quello di Biden e Trump corre verso il peso che ha lo Stato (vale 29 grandi elettori) nella corsa presidenziale. Dati, numeri, sondaggi, speranze. Ultime stime di Trafalgar sulla Florida, vince Trump su Biden 48,7% contro 45,6%.
Quinnipiac University dice che nello Stato la corsa è "Too Close To Call", è un testa a testa e non c'è un vincitore. La media di Real Clear Politics dà Biden in vantaggio di 1.8 punti. Sembra il film del 2016.
Il timore di un altro 2016 è diffuso tra i dem, basta leggere i giornali liberal per vedere fiorire gli allarmi. Il New Yorker ha pubblicato l'altro ieri un articolo dove il pericolo di un aggancio e sorpasso di Trump su Biden è come avere un Tyrannosaurus Rex sullo specchietto retrovisore dell'auto. Ma cosa deve fare Trump per fare il bis del 2016? Quello che sta facendo: spostare l'agenda, costringere Biden a inseguirlo sulle notizie, convincere la working class degli elettori bianchi a andare a votare negli Stati in bilico. Se riesce a fare queste cose nei prossimi due mesi, può vincere.
È qui che la nostra storia di oggi si salda con quella di ieri. Biden è rimasto impantanato nel Vietnam delle rivolte dei movimenti che fiancheggiano i democratici, è nella giungla della guerriglia urbana, ha dovuto condannare la violenza a Portland (senza mai essere chiaro, dice il Wall Street Journal), è dovuto andare a Kenosha dopo Trump. Joe insegue. E Trump fa quello che risolve i problemi, sventola la bandiera della legge e dell'ordine, fa la parte che mancava nel governo di JFK: lo sceriffo.
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settembre
2005, n. 206, saranno comunicate al consumatore in sede di offerta prima dell'acquisto.
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Pagamenti all'interno dell'applicazione IOS
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6. Promozioni
6.1 Il Fornitore può a sua discrezione offrire agli Utenti delle promozioni sotto forma di sconti o periodi
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6.3 L'Utente ha la facoltà di disattivare il Servizio in qualunque momento prima della scadenza del periodo
di prova
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7. Obblighi e garanzie dell'Utente
7.1 L'Utente dichiara e garantisce:
- di essere maggiorenne;
- di sottoscrivere l'Abbonamento per scopi estranei ad attività professionali, imprenditoriali, artigianali
o commerciali
eventualmente svolte;
- che tutti i dati forniti per l'attivazione dell'Abbonamento sono corretti e veritieri;
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7.2 L'Utente si impegna al pagamento del corrispettivo in favore del Fornitore nella misura e con le
modalità definite
nei precedenti articoli.
7.3 L'Utente si impegna ad utilizzare l'Abbonamento e i suoi contenuti a titolo esclusivamente personale, in
forma non
collettiva e senza scopo di lucro; l'Utente è inoltre responsabile per qualsiasi uso non autorizzato
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assumere tutte le precauzioni necessarie per mantenere riservato l'accesso all'Abbonamento attraverso il
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(per esempio, mantenendo riservate le credenziali di accesso ovvero segnalando senza ritardo al Fornitore
che la
riservatezza di tali credenziali risulta compromessa per qualsiasi motivo).
7.4 La violazione degli obblighi stabiliti nel presente articolo conferisce al Fornitore il diritto di
risolvere
immediatamente il contratto ai sensi dell'articolo 1456 del codice civile, fatto salvo il risarcimento dei
danni.
8. Tutela della proprietà intellettuale e industriale
8.1 L'Utente riconosce e accetta che i contenuti dell'Abbonamento, sotto forma di testi, immagini,
fotografie, grafiche,
disegni, contenuti audio e video, animazioni, marchi, loghi e altri segni distintivi, sono coperti da
copyright e dagli
altri diritti di proprietà intellettuale e industriale di volta in volta facenti capo al Fornitore e ai suoi
danti causa
e per questo si impegna a rispettare tali diritti.
8.2 Tutti i diritti sono riservati in capo ai titolari; l'Utente accetta che l'unico diritto acquisito con
il contratto
è quello di fruire dei contenuti dell'Abbonamento con le modalità e i limiti propri del Servizio. Fatte
salve le
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attività di
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elaborazione dei
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8.3 La violazione degli obblighi stabiliti nel presente articolo conferisce al Fornitore il diritto di
risolvere
immediatamente il contratto ai sensi dell'articolo 1456 del codice civile, fatto salvo il risarcimento dei
danni.
9. Manleva
9.1 L'Utente si impegna a manlevare e tenere indenne il Fornitore contro qualsiasi costo – inclusi gli
onorari degli
avvocati, spesa o danno addebitato al Fornitore o in cui il Fornitore dovesse comunque incorrere in
conseguenza di usi
impropri del Servizio da parte dell'Utente o per la violazione da parte di quest'ultimo di obblighi
derivanti dalla
legge ovvero dai presenti termini d'uso.
10. Limitazione di responsabilità
10.1 Il Fornitore è impegnato a fornire un Servizio con contenuti professionali e di alta qualità; tuttavia,
il
Fornitore non garantisce all'Utente che i contenuti siano sempre privi di errori o imprecisioni; per tale
motivo,
l'Utente è l'unico responsabile dell'uso dei contenuti e delle informazioni veicolate attraverso di
essi.
10.2 L'Utente riconosce e accetta che, data la natura del Servizio e come da prassi nel settore dei servizi
della
società dell'informazione, il Fornitore potrà effettuare interventi periodici sui propri sistemi per
garantire o
migliorare l'efficienza e la sicurezza del Servizio; tali interventi potrebbero comportare il rallentamento
o
l'interruzione del Servizio. Il Fornitore si impegna a contenere i periodi di interruzione o rallentamento
nel minore
tempo possibile e nelle fasce orarie in cui generalmente vi è minore disagio per gli Utenti. Ove
l'interruzione del
Servizio si protragga per oltre 24 ore, l'Utente avrà diritto a un'estensione dell'Abbonamento per un numero
di giorni
pari a quello dell'interruzione; in tali casi, l'Utente riconosce che l'estensione dell'Abbonamento è
l'unico rimedio in
suo favore, con la conseguente rinunzia a far valere qualsivoglia altra pretesa nei confronti del
Fornitore.
10.3 L'Utente riconosce e accetta che nessuna responsabilità è imputabile al Fornitore:
- per disservizi dell'Abbonamento derivanti da malfunzionamenti di reti elettriche e telefoniche ovvero di
ulteriori
servizi gestiti da terze parti che esulano del tutto dalla sfera di controllo e responsabilità del Fornitore
(per
esempio, disservizi della banca dell'Utente, etc...);
- per la mancata pubblicazione di contenuti editoriali che derivi da cause di forza maggiore.
10.4 In tutti gli altri casi, l'Utente riconosce che la responsabilità del Fornitore in forza del contratto
è limitata
alle sole ipotesi di dolo o colpa grave.
10.5 Ai fini dell'accertamento di eventuali disservizi, l'Utente accetta che faranno fede le risultanze dei
sistemi
informatici del Fornitore.
11. Modifica dei termini d'uso
11.1 L'Abbonamento è disciplinato dai termini d'uso approvati al momento dell'acquisto.
11.2 Durante il periodo di validità del contratto, il Fornitore si riserva di modificare i termini della
fornitura per
giustificati motivi connessi alla necessità di adeguarsi a modifiche normative o obblighi di legge, alle
mutate
condizioni del mercato di riferimento ovvero all'attuazione di piani aziendali con ricadute sull'offerta dei
contenuti.
11.3 I nuovi termini d'uso saranno comunicati all'Utente con un preavviso di almeno 15 giorni rispetto alla
scadenza del
periodo di fatturazione in corso ed entreranno in vigore a partire dall'inizio del periodo di fatturazione
successivo.
Se l'Utente non è d'accordo con i nuovi termini d'uso, può esercitare la disdetta secondo quanto previsto al
precedente
articolo 3.
11.4 Ove la modifica dei termini d'uso sia connessa alla necessità di adeguarsi a un obbligo di legge, i
nuovi termini
d'uso potranno entrare in vigore immediatamente al momento della comunicazione; resta inteso che, solo in
tale ipotesi,
l'Utente potrà recedere dal contratto entro i successivi 30 giorni, con il conseguente diritto ad ottenere
un rimborso
proporzionale al periodo di abbonamento non goduto.
12. Trattamento dei dati personali
12.1 In conformità a quanto previsto dal Regolamento 2016/679 UE e dal Codice della privacy (decreto
legislativo 30
giugno 2003, n. 196), i dati personali degli Utenti saranno trattati per le finalità e in forza delle basi
giuridiche
indicate nella privacy policy messa a disposizione dell'Utente in sede di registrazione e acquisto.
12.2 Accettando i presenti termini di utilizzo, l'Utente conferma di aver preso visione della privacy policy
messa a
disposizione dal Fornitore e di averne conservato copia su supporto durevole.
12.3 Il Fornitore si riserva di modificare in qualsiasi momento la propria privacy policy nel rispetto dei
diritti degli
Utenti, dandone notizia a questi ultimi con mezzi adeguati e proporzionati allo scopo.
13. Servizio clienti
13.1 Per informazioni sul Servizio e per qualsiasi problematica connessa con la fruizione dello stesso,
l'Utente può
contattare il Fornitore attraverso i seguenti recapiti: help@newslist.it
14. Legge applicabile e foro competente
14.1 Il contratto tra il Fornitore e l'Utente è regolato dal diritto italiano.
14.2 Ove l'Utente sia qualificabile come consumatore, per le controversie comunque connesse con la
formazione,
esecuzione, interpretazione e cessazione del contratto, sarà competente il giudice del luogo di residenza o
domicilio
del consumatore, se ubicato in Italia.