di Maite Carpio
Sono stanca, siamo tutti stanchi. No? C’è questa sensazione generalizzata di spossatezza che è diventata ingombrante e molesta come il vento di maestrale. E poi non finisce mai. Le giornate sono lunghe, ma ci pare di non aver fatto nulla, i giorni si susseguono uno all’altro e ci sembrano tutti uguali, sono spariti i rituali di una volta, quelli che scandivano il tempo sereno del compiacimento quotidiano (che allora ci sembrava pure noioso!) e sono stati travolti puri gli spazi (ora possiamo solo sbirciare qualche piccolo angoletto delle case degli altri o gli sfondi finti creati dalle app) che ci garantivano un senso di appartenenza a una comunità - posti di ritrovo come la palestra, il circolo, il ristorante, le inaugurazioni, una conferenza, le recite dei bambini, una prima al teatro, e come no, l’ufficio! - i luoghi sicuri della nostra esistenza.
Diciamo che non siamo circondati più da quella spinta vitale che prima senza saperlo, anche meccanicamente se volete, ci rendeva l’esistenza molto piu piacevole. La stanchezza poi, è uno dei sintomi principali per chi si ammala di Covid, e stando ai racconti e alla cronaca, dura anche a lungo, si puo superare la fase critica, ma ti rimane addosso la sensazione di sentirti estenuato per settimane o mesi. La chiamano sindrome della fatica e la sentiamo tutti, quelli che si sono e non si sono ammalati, il che fa venire il sospetto che si tratti di una stanchezza antica, non causata solo dall’epidemia. Come se il Covid fosse il palcoscenico dove va in scena un esaurimento primordiale che oggi viene vissuto con il casco della realtà aumentata. È tutto molto strano. L’inattività alla quale ci costringe il confinamento ci fa sentire stanchi, ma di testa, non è quella bella fatica di aver tentato di finire una maratona, di una corsa in bicicletta o di scalare una montagna. E poi, sentiamo di fare poco, ma nessuno di noi ha pensato che questo tempo sia come quando te ne vai in vacanza, inutile dirlo, è davvero un altra cosa.

Io, per esempio, sono stanca di passare tutto il giorno a guardare la mia faccia sullo schermo in un collegamento virtuale continuo. Anche se provo a resistere, il mio sguardo indefettibilmente cade sempre su me stessa e tutto quello che non va (e non devo essere l’unica, durante la pandemia si sono moltiplicate su Google le ricerche sugli interventi di chirurgia estetica). È insopportabile passare la giornata sulla dimensione dei propri o altrui difetti, prima li sospettavi, ma poi arrivava lo sguardo di qualcuno più comprensivo e saggio di noi che ci faceva credere che stavamo semplicemente esagerando. Ora, il narcisismo che prima dilagava, ha trovato praterie infinite dove andare a fare man bassa. E il narcisismo, si sa, non è fonte di felicità. Comunque l’incontro fisico ci costringeva ad uscire dal limitato perimetro del nostro piccolo io e sempre io. Questa permanente scenificazione di un ego incontrollato è diventata estenuante. Per una ragione anche molto semplice, non bisogna disturbare Freud o la scuola Lacaniana per capirlo, la verità è che non ci guardiamo più negli occhi, lo schermo è solo una finzione dell’incontro, dove tutto diventa distrazione, spettacolo (davanti allo schermo alziamo tutti per forza anche il tono della voce). La mancanza del contatto fisico, di abbracci, sguardi, saluti più o meno affettivi, dell’incontro con gli altri, il non poter sorridere o semplicemente il fatto che gli altri non riescano a rimandarci l’immagine che si sono fatti di noi (qualche volta per fortuna nostra), tutto ciò ci toglie una delle nostre più importanti fonti di energia e vitalità. Sembrerà strano ma, dopo un anno, la mancanza dell’incontro con lo sguardo vero degli altri è diventata logorante. Il momento più bello delle nostre giornate è diventato andare a fare la spessa o a comprare dei fiori, sigarette, un biglietto della lotteria, cercando gli occhi di chi sta dietro a un bancone, nel tentativo inutile di “attaccare il bottone”.
All’inizio della pandemia, abbiamo considerato l’altro come un minaccia e ci divertiva il gioco di “trova l’untore”, ma ormai non è piu da hit parade. Sentiamo che la mancanza degli amici, dei conosciuti, anche quelli poco graditi, ci allontana da un fonte di “contentezza” che davamo per scontata. Il nostro corpo per sentirsi tale ha bisogno dell’incontro con gli altri (so cosa state pensando!). Esistere, sentire, creare, comunicare, esprimersi... si fa con il corpo e passa attraverso gli altri. Il linguaggio è corporale, non c’è niente da fare. Se lo sguardo con i quali ci ricambiano i nostri animali di compagnia, i nostri cani, gatti, i pappagalli, le tigri, i maialini o le galline, ce li fa amare senza condizioni e ci scioglie nella tenerezza più assoluta, pensate all’effetto che fa su di noi il contatto fisico con i nostri simili, anche se non ci piacciono, non importa. Siamo disegnati per sopravvivere e perpetuare la specie (ah! l’amore!), ma abbiamo anche un corpo che veicola il nostro bisogno di essere riconosciuti, apprezzati, amati (o anche odiati, è lo stesso), ma comunque è la dimensione del nostro essere che piu conta. Ce lo dovremo ricordare quando questa crisi sanitaria, e manca poco, sarà finita. La memoria è collettiva. Come dice l’Odissea, sappiamo della nostra nascita solo perché in quel momento c’era un altro che ci è stato testimone.

Torniamo a noi, non voglio divagare inutilmente. Vorrei rivendicare, senza se e senza ma (che bella espressione della lingua italiana!) il nostro diritto a riconoscere che siamo tutti molto “provati” - se non vogliamo bestemiare con la solita lamentella dell’ essere “stanchi" - e che una ragione c’è. Per non perdermi nella piccolezza dei ragionamenti a vanvera, sono andata a leggere il saggio di Slavoj Zizek, filosofo contemporaneo conosciuto ai nostri lettori e più volte citato qui su List, intitolato “Virus: catastrofe e solidarietà” per cercare di capire qualcosa su come il Covid ha modificato l’esistenza di noi poveri essere umani e ho scoperto con grande gioia che cita in uno dei suoi capitoli il lavoro di Byung-Chul Han, un pensatore sudcoreano da non perdere di vista che insegna all’Universita delle Arti di Berlino e fa riferimento a uno dei suoi lavori intitolato, non certo per caso, “La società della stanchezza”, un testo di dieci anni fa dove descrive e analizza il fenomeno della fatica come la malattia endemica di quello che lui definisce, in maniera geniale, “la società del rendimento”. Abbiamo introiettato e fatto crescere dentro di noi un giudice interiore che ha sostituito la figura del vecchio capomastro, tipica della lotta tra le classi, alla quale abbiamo rinunciato in nome della “realizzazione personale”, senza renderci conto che siamo rimasti sempre schiavi, anche se in questo caso non di un altro ma di noi stessi.

Byung-Chul Han è davvero un fuoriclasse, sostiene con grande lucidità come l’idea di essere competenti, efficaci, produttivi, redditizi, all’altezza delle aspettative, ecc ecc... Insomma, tutto ciò che fa diventare la nostra vita una vera SPA, con tanto di trimestrale, ci ha perpetuato come schiavi. Siamo diventati capi e vittime contemporaneamente di noi stessi, nel nome dell’efficenza, dei risultati (chissà poi chi li misura) e della proiezione che vogliamo dare di noi. Decisamente stancante, poveri noi. Ho letto il libro e c’è un passaggio delle sua riflessione che mi ha colpito particolarmente. Secondo Byung, l’imbroglio piu paralizzante è che siamo arrivati a credere che tutto questo possiamo chiamarlo tranquillamente “libertà”. Preferiamo sfruttare noi stessi ad essere sfruttati da un altro, strana confusione, ma è curioso che questo sia il punto di caduta che ci fa sentire “liberi”. La tirannia del rendimento ci porta inevitabilmente alla mancanza di autostima e al farci del male da soli. Abbiamo dichiarato guerra a noi stessi. Franz Kafka ha scritto parecchio sull’argomento, per cui navighiamo in acque conosciute, ma in questi tempi l’immagine ci torna indietro piu desolante che mai. Il mantra neoliberal ”se fallisci è solo colpa tua” è diventato la condanna contemporanea del popolo che aspetta ai piedi del Monte Sinai.

Nella serie "Industry" di HBO - se non l avete vista, smettete di leggere queste righe e andate a cercarla subito - si racconta in maniera impietosa come funziona il sistema di sfruttamento ai tempi nostri, e non si tratta piu della lotta di classe: è la storia di un gruppo di giovani tutti apparentemente brillanti, che si riducono inconsapevolmente allo stato di schiavitù, mentre pensano di far carriera nell’affascinante mondo della finanza della City. Le regole sono spietate, la morale non esiste. Conta solo la ricerca del successo, come la ricerca dell’oro ai tempi del western. Per anni, abbiamo pensato che potevamo andare avanti all’infinito a far crescere il nostro PIL, il fatturato del mondo, i bond del management e degli aspiranti a tali, avere i risultati che contano o il progresso tanto ambito, contando solo sulle capacità del nostro sforzo fisico e della nostra furbizia. Poi è arrivato il Covid e la ricchezza accumulata negli ultimi anni è volata via in un colpo solo. Ora incombe sulle nostre teste un'idea fatidica: che ci vorrà tanto a recuperare tutto quello che avevamo pensato di accumulare per sempre e che non è detto che ci riusciremo. E in più c’è il tarlo di un altro sospetto... ma chi ha detto che il fallimento è colpa nostra? Byung-Chul Han lo chiama “delirio di ottimizzazione”, una sorte di distopia digitale che non ci fa capire la realtà dei tempi in cui viviamo. Lo “smart working” o “home working” come giustamente gli americani definiscono questa modalità (perché dovrebbe essere piu intelligente rimanere a casa?) è l’espressione massima del concetto di auto sfruttamento. I coreani hanno coniato il termine “corona blue” per definire questo stato depressivo generalizzato che è arrivato insieme alla pandemia. I più stanchi di tutti, ne sono convinta, sono i nostri anziani. Quelli che hanno pagato il prezzo più alto di questa pandemia. La crisi sanitaria passerà tra qualche mese (il delirio di ottimizzazione ha qualche lato positivo, tra questi c'è la veloce scoperta del vaccino), ma tutti i mesi passati in solitudine, sentendo la precarietà e le paure piu ignote dell’esistenza, per loro non torneranno più. Per i giovani sarà un ricordo, per gli anziani è e rimarrà una esperienza indelebile.
Comunque, ovviando la misurazione clinica del fenomeno, possiamo dire senza paura di sbagliare che, arrivati quasi alla fine di questo episodio della storia, siamo tutti “molto provati”. Ancora meglio, siamo tutti molto stanchi. Perché la scienza dell’anima sa bene che quando parliamo di stanchezza in realtà vogliamo dire tristezza. Siamo stanchi, ma la verità è che siamo tristi. Mi domando pero quando si è insediata tra di noi questa tristezza generalizzata. C’era già prima del Covid? Abbiamo trovato finalmente una buona ragione per esternarla? Forse il virus è stato un catalizzatore della nostra fragilità, della nostra malinconia, della nostra sindrome da impostori.

Tra qualche mese avremo talmente tanti vaccini che non sapremo come conservarli, per cui il problema non sarà piu sanitario. Ma ahimè non sarà finita con il successo del vaccino. Prima della pandemia eravamo già tutti fissati con il karma della nostra salute. Integratori, alimenti per celiachi, intossicazione dei metalli, digiuni, allergie, radicali liberi, endocrinologi scambiati per cartomanti... un rosario che il Covid ha spazzato via come se fosse il climate change. Nessuno di noi vuole soffrire (e perché dovremo farlo se non siamo proprio costretti dalla fatalità?), vogliamo tutti prolungare la nostra esistenza e migliorare la qualità della nostra vita, ma questa ossessione per la sopravvivenza ci ha fatto dimenticare la qualità del tempo che viviamo. La salute è diventata l obiettivo unico e supremo (Nietzsche la chiama “la nuova dea”) infatti durante i numerosi lockdown abbiamo rinunciato a diritti fondamentali, inclusa la libertà, in nome della salute collettiva e chi sa di quale altra idea, senza battere ciglio.
Ora, dopo tutto quello che abbiamo vissuto quest’anno, facciamo fatica al solo pensiero di dover ricominciare da capo. Ma come? Con tutto lo sforzo che abbiamo fatto? A cosa sono serviti i nostri sacrifici se poi se li porta via, senza avvertire, un virus sconosciuto che non sappiamo come combattere? Non c’è nemmeno intorno a noi una guida politica (va bene, diciamo sociale!) visionaria che ci faccia credere che sappiamo dove stiamo andando. Abbiamo delegato il disegno della nostra sorte collettiva e del nostro destino ai numeri della scienza (come contestare una così sensata e saggia decisione?), ma ci vuole ben altro per sollevare il nostro stato d’animo. È sfumata l’illusione di quello che avevamo costruito, in realtà abbiamo sperimentato che tutto è come i castelli di sabbia che facevano in spiaggia da bambini e, nel profondo di noi, sappiamo che ci tocca, ancora una volta, rimboccarci le maniche e ricominciare un'altra volta. La crisi economica fa paura, tanta, come il virus. Purtroppo non c’è ancora il vaccino contro la tristezza, dobbiamo tornare a sentirci gli uni vicini agli altri, stringerci tutti insieme al nostro destino comune, diventare più comprensivi e magari cosi scoprire che c’è un antidoto contro la tristezza che possiamo sviluppare noi, facilmente, senza doverci affidare alle complicazioni della scienza.
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L'immagine che apre questo numero di List è un celebre dipinto di Edward Hopper del 1957 intitolato "Western Motel", esposto nella Yale University Art Gallery. Hopper, genio americano della pittura, fa dello sguardo, dell'improvvisa e abbagliante solitudine dei luoghi collettivi, la galleria della sua introspezione sulla società dell'alienazione.