14 Gennaio
Sei giocatori e il poker del Colle sette anni dopo
Sul tavolo c'è la mano di Silvio Berlusconi e Mario Draghi, ma soprattutto c'è la partita di sei leader che cercano di vincere il piatto: l'occasione di Matteo Salvini, il passaggio di Giorgia Meloni, il rebus di Enrico Letta, la sopravvivenza di Giuseppe Conte e il king maker di ieri, Matteo Renzi, che cerca il bis della "Stangata". Sulla scena, un non detto: la nuova legge elettorale, il voto e il prossimo incarico di governo
Che succede? Per la politica italiana è una settimana di sospensione nell'acqua, una fase sottomarina. I capitani dei sommergibili stanno sul fondo, ogni tanto vanno in quota periscopica, osservano l'orizzonte, sparano un siluro e tornano in profondità. In superficie, un po' di cacciatorpedinieri nemici cercano di indovinarne la posizione, scandagliano il fondo con il sonar, tirano bombette per dare una scossa allo scafo. Carezze, nessuno vuole affondare nessuno, è una guerra di posizione.
La vera battaglia navale partirà la prossima settimana, quando i partitanti dovranno tirare le somme delle loro intrepide uscite allo scoperto e preparare il primo round di voti per l'elezione del Presidente della Repubblica. Il quadro complessivo è quello fatto ieri, non cambia di una virgola, il mio giro quotidiano di fonti (tripla A) lo conferma, i contendenti (s)mascherati sono sempre due, Silvio Berlusconi e Mario Draghi, le formule sono quelle che ho schematizzato, si aggiungerà qualche variante nelle prossime ore.
Il gioco è uno, ma le scacchiere sono tre: il Quirinale (la partita dell'eletto), il governo (la complessa partita del premier che è anche candidato e ha ricevuto l'incarico quasi un anno fa dal presidente uscente), il Parlamento (la partita degli elettori che è anche gara di sopravvivenza, termine della legislatura). Tre scacchiere dove girano un bel po' di giocatori che sono leader di partito. Quali? Vediamoli insieme.
01
Salvini oggi e il governo di domani

Quello che ha più carte da giocare e nello stesso tempo una posizione più complessa da gestire si chiama Matteo Salvini. Il leader della Lega gioca secondo uno schema che ha un obiettivo bruciante (l'elezione del presidente della Repubblica), uno che diventerà urgentissimo (il destino del governo), uno di breve periodo...
Che succede? Per la politica italiana è una settimana di sospensione nell'acqua, una fase sottomarina. I capitani dei sommergibili stanno sul fondo, ogni tanto vanno in quota periscopica, osservano l'orizzonte, sparano un siluro e tornano in profondità. In superficie, un po' di cacciatorpedinieri nemici cercano di indovinarne la posizione, scandagliano il fondo con il sonar, tirano bombette per dare una scossa allo scafo. Carezze, nessuno vuole affondare nessuno, è una guerra di posizione.
La vera battaglia navale partirà la prossima settimana, quando i partitanti dovranno tirare le somme delle loro intrepide uscite allo scoperto e preparare il primo round di voti per l'elezione del Presidente della Repubblica. Il quadro complessivo è quello fatto ieri, non cambia di una virgola, il mio giro quotidiano di fonti (tripla A) lo conferma, i contendenti (s)mascherati sono sempre due, Silvio Berlusconi e Mario Draghi, le formule sono quelle che ho schematizzato, si aggiungerà qualche variante nelle prossime ore.
Il gioco è uno, ma le scacchiere sono tre: il Quirinale (la partita dell'eletto), il governo (la complessa partita del premier che è anche candidato e ha ricevuto l'incarico quasi un anno fa dal presidente uscente), il Parlamento (la partita degli elettori che è anche gara di sopravvivenza, termine della legislatura). Tre scacchiere dove girano un bel po' di giocatori che sono leader di partito. Quali? Vediamoli insieme.
01
Salvini oggi e il governo di domani

Quello che ha più carte da giocare e nello stesso tempo una posizione più complessa da gestire si chiama Matteo Salvini. Il leader della Lega gioca secondo uno schema che ha un obiettivo bruciante (l'elezione del presidente della Repubblica), uno che diventerà urgentissimo (il destino del governo), uno di breve periodo (le elezioni) e uno di medio periodo (un incarico da prossimo premier) che ha una parabola di sette anni, il mandato del prossimo presidente della Repubblica. Salvini è un leader giovane e non può cancellare dal suo orizzonte l'idea che possa diventare presidente del Consiglio. E pensando a questo obiettivo non può che avere al Quirinale un presidente privo di pregiudizi ideologici, pronto a dare un incarico a un esponente della destra, con tutte le garanzie costituzionali per chi vince le elezioni. Una figura autorevole, non influenzabile da forze esterne, capace di gestire il rapporto con Salvini, una persona che il leader della Lega ascolta, segue in una coabitazione dove chi governa è a sua volta ascoltato e rispettato.
La guida per tutti è la Costituzione, ovviamente, ma qui siamo nel magma della politica e i rapporti personali contano. È un tema che finora non è emerso nel dibattito sul Colle, eppure tutti i sondaggi danno la coalizione di centrodestra vincente alle prossime elezioni e la Lega è ancora il partito più attrezzato per vincere nel voto politico, controlla quasi tutte le Regioni, è un partito vero (l'unico ancora in piedi in Italia nella sua forma novecentesca), con eletti in tutto il territorio, il punto di riferimento dei ceti produttivi del Nord, un gruppo parlamentare preparato e disciplinato (tranne qualche figura che non conta nulla, sono comunque pedine nelle mani di Salvini). Qual è l'identikit di questo presidente?
Quello che risponde meglio di tutti all'identikit è Mario Draghi, il quale ha accolto Salvini nel governo, ha scelto (lui, Draghi) ministri leghisti affidabili (e Salvini ha lasciato la più ampia libertà, nessuna discussione sul punto), ha costruito un rapporto solido, maturato con il tempo, non privo di momenti complicati (e chi non ne ha?), ma il dato politico è che con il premier Salvini ha un'intesa larga (più di quanto s'immagini), ha imparato a conoscere Draghi in questi mesi e il leader leghista (a differenza di Berlusconi che ha commesso una grave sgrammaticatura, come vedremo) ha subito dichiarato che la Lega resterà al governo anche in caso di elezione di Draghi sul Colle. Non è un dettaglio, è la sostanza.
Salvini dichiarerà lealtà a Silvio Berlusconi (il sesto giocatore di questo racconto, con doppio ruolo, capo-partito e candidato sul Colle) fino a quando non apparirà chiaro che il Cavaliere non ha i voti per essere eletto e soprattutto che non è il portatore della dote politica più che mai necessaria oggi, la pax istituzionale. Il Cav in questi giorni parla con i toni ultimativi del capo partito (se Draghi va sul Colle, Forza Italia esce dalla maggioranza), questo è il grande limite di una figura politica imponente che nonostante l'esperienza ancora non distingue tra la sua persona e la carica istituzionale. Se vuoi diventare presidente hai due strade: non parli e entri in fase sommergibile, sparisci dai radar (strategia che sta usando Pier Ferdinando Casini, il quale gioca il ruolo di carta di riserva della partita), oppure parli e se lo fai ti sforzi di avere il tono e il tatto istituzionale di chi si prepara a diventare il garante di tutti. Niente, Silvio fa Silvio e si dimentica di Berlusconi candidato al Quirinale.
Berlusconi qualche tempo fa si lasciò sfuggire in un'intervista a La Stampa una frase: "Senta, siamo sinceri: ma se Draghi va a fare il presidente della Repubblica poi a chi dà l’incarico di fare il nuovo governo? A Salvini? Alla Meloni? Ma dai, non scherziamo". Crac. Il Cav smentì, ma l'inchiostro resta (e il direttore della Stampa, Massimo Giannini, confermò tutto) e quella frase Salvini e Meloni non l'hanno dimenticata. La domanda sul taccuino è figlia del teatro dell'assurdo, ma va fatta: Berlusconi sul Colle darebbe mai l'incarico a un esponente del centrodestra che non sia se stesso? Non solo, Berlusconi dovendo ogni giorno dimostrare equilibrio istituzionale rischierebbe di finire nella trappola psicologica di colui che per contenere l'avversario di ieri (e domani) si dimentica di chi lo ha eletto oggi.
02
Un non detto chiamato legge elettorale (proporzionale)
Salvini ha un altro “nemico” dal quale deve guardarsi le spalle (e stare all’erta anche davanti) si chiama sistema elettorale proporzionale, senza o con sbarramento per lillipuziani. Il Rosatellum va corretto e il come non è una certezza, il voto di domani (per rinnovare le Camere) viene curvato dal voto di oggi (per eleggere il Presidente della Repubblica). E così torniamo a Berlusconi che per salire sul Colle potrebbe usare la futura legge elettorale come contropartita per convincere Italia Viva (Matteo Renzi) e il Movimento Cinque Stelle (Giuseppe Conte) a dirottare un po’ di voti (non tutti, sarebbe una partita che entrambi non possono giocare allo scoperto) sul Cavaliere.
Renzi e Conte sono avversari iper-dichiarati, ma hanno un problema comune enorme, primum vivere. Con il sistema che torna all’antico (ma senza più il confine ideologico e i partiti di un tempo, grandi, strutturati, reali punti di riferimento degli elettori) entrambi incassano una polizza sulla vita (con le mani libere) e possono pensare di traghettarsi nel futuro di un Parlamento decimato da un’autoriforma suicida (e scombinata sul piano istituzionale) con il taglio dei parlamentari. Il domani si chiama “nuovo centro” (film già visto, un miraggio mai decollato, ma in politica spesso il solo caos è già una grande occasione), fatto dai coriandoli in caduta libera di oggi, dai residuati bellici della stagione azzurra (Forza Italia) e da quella rosso-rosa (Italia Viva), dai calendisti (Azione), dai fu radicali europeisti (+Europa), dai Cambiamo, dai Coraggio Italia, nonché da altri pezzi cosmici in rotta di collisione con il nulla della galassia che nome non ha.
Il proporzionale alla viva il parroco naturalmente serve come il pane (e il reddito di cittadinanza) al pianeta giallo (Movimento Cinque Stelle) il cui leader oggi ha affermato di essere “l’ago della bilancia” (non è né l’uno né l’altro) che a forza di espulsioni ha perso peso in Parlamento e conta un più o meno zero tituli nel paese (escluse alcune zone del Meridione dove brilla il miraggio dell’eterno assegno per non lavorare). Conte ha bisogno di carburante per continuare la sua strategia del camaleonte (ieri sovranista, oggi europeista, per il domani si vedrà), il suo format con il Pd non regge perché non ha mai in mano il mazzo di carte, è nella scomoda posizione del junior partner che ha lo spazio di movimento di un gommone in una vasca da bagno. Il sistema proporzionale lo libererebbe da impegni che non può mantenere con il suo gruppo parlamentare e da una morte politica certa.
Senza un sistema con un mix di maggioritario e proporzionale (e uno sbarramento vero), le coalizioni si sfasciano e trionfa il trasformismo, il terreno ideale per chi ha pochi voti ma domani aspira a fare (sul serio) “l’ago della bilancia”. In questo scenario, Salvini premier non ci sarà mai, il presidente del Consiglio sarà sempre non quello che vince, ma quello che mette d’accordo la maionese impazzita di un Parlamento balcanizzato. Lo scenario che per la Repubblica Italiana sarebbe disastroso, una perenne ingovernabilità.
E gli altri? Hanno tutti grandi problemi che poi sono quelli della sopravvivenza della leadership, dei posti che nel prossimo Parlamento saranno pochi (preparatevi alle notti della mattanza elettorale, la scelta delle candidature nelle liste), del consenso che è volatile, dell'illusione che i like siano voti, della pandemia che ha scollegato molti dalla realtà, la grande illusione che il debito sia infinito, la crescita economica affidata alla forza di un gruppo di produttori e il resto spesa pubblica senza investimenti e tagli di sprechi. Tutto questo è destinato o a finire o a schiantarsi contro il muro della realtà. Eleggere il prossimo presidente della Repubblica significa decidere anche sul governo (perfino con Draghi) perché ci sarà un tema di politica economica che sarà ineludibile per chiunque. Anche chi è oggi all'opposizione (e aspira al governo domani) non potrà sfuggire a questo incontro.
03
Meloni, il "patriota" e quell'intesa con Letta

Giorgia Meloni è donna battagliera, intelligente, ha costruito un partito forte (operazione enorme), ma va detto che oggi vive nella comfort zone dell'opposizione. Domani potrebbe essere diverso, il centrodestra potrebbe vincere le elezioni (o perderle ancora una volta rovinosamente, come abbiamo visto nel voto delle grandi città) e allora cambia lo spartito. Meloni ha capito benissimo che il proporzionale è la tomba di ogni sua aspirazione alla premiership (è in chiara competizione con Salvini, ovvio), ha chiesto chiarezza nella coalizione sul punto (cioè un'assicurazione da Berlusconi, sulla carta) e ha fatto la mossa giusta, tuttavia resta un punto chiave: chi vuole al Quirinale? Perché al di là della battuta di tempo fa sul "vogliamo un patriota", per il resto in Fratelli d'Italia siamo al buio. Anche per nel caso di Meloni, alla fine Draghi sarebbe la persona giusta. Rapporto franco tra i due, di simpatia umana, il premier punta dritto al nocciolo delle questioni, i programmi. E in questo caso dunque vale per Giorgia quel che funziona per Matteo, la serietà di un uomo come Draghi, non figlio dei partiti e pure (Draghi dixit) con la saggezza del "nonno al servizio delle istituzioni". Meloni potrebbe tranquillamente fare un patto con Salvini e con Enrico Letta, il segretario dem con il quale lei ha un rapporto diretto, i due si fidano l'uno dell'altro, il problema a destra è se c'è da fidarsi del partito, il Pd.
04
Letta, come sopravvivere al Pd senza bruciare Draghi

Enrico Letta, ottima persona, ha un problema politico, quello che ha divorato tutti gli altri segretari: il Partito democratico. Capire cosa giri in quel mondo è come risolvere un'equazione per i viaggi nel tempo. Draghi dovrebbe essere il candidato naturale del Pd, ma come ai tempi di Nicola Zingaretti (che si dimise dopo l'arrivo dell'ex banchiere centrale per la lotta fratricida che ne era scaturita nel partito) il premier viene vissuto da molti come "lo straniero". Il problema è che Draghi non è la cinghia di trasmissione del Pd, tutto qui, e per un partito che ha bisogno di sintonizzarsi con la contemporaneità (e spesso con la realtà tout court) sarebbe un passaggio salutare, la fine di un candidato al Colle tutto dei dem, un po' di gioco istituzionale con la destra (con la quale tra l'altro governa) e una normalità conquistata che porrebbe questo partito che è l'establishment del sistema (scritto con significato positivo, ma con il limite della staticità) verso una rotta che lo conduca a diventare élite, cioè una forza dinamica del paese, aperta, culturalmente plurale, rinnovata (è un partito di "eterni" mandarini, inamovibili). Cosa impedisce al Pd di portare la candidatura di Draghi? Non si sa, o meglio si intuisce dalle mezze parole: il problema dello scarso consenso dell'alleato innaturale, i Cinque Stelle. Letta andrebbe a votare domani, ma Conte è terrorizzato dall'idea di affrontare le urne (perfino per se stesso, ha saltato tutte le elezioni suppletive, non aveva la certezza di essere eletto), dunque si vivacchia e di fronte a questo obiettivo che non ha una prospettiva politica si rischia di perdere tutto, Mattarella (che non ha alcuna intenzione, ribadita nel messaggio di fine anno, di fare il bis) e Draghi. Letta ovviamente punta a fare il pieno, confida nell'imperizia del centrodestra, nell'aiuto di Berlusconi che bloccando tutto rischia di far deragliare la sua coalizione e perfino in un soccorso azzurro (via Letta, Gianni) in caso di candidatura di sfondamento a sinistra (Paolo Gentiloni).
La tattica in surplace del Pd è pericolosa, per il semplice motivo che dal quarto voto in poi tutto è possibile e se dai catafalchi di Montecitorio dovesse uscire il folletto del Cav a quel punto si aprirebbe una crisi di governo e un abisso nel Pd, incapace di fermare il ritorno di Silvio. Sembra impossibile, ma la stessa candidatura del Cav al Colle era negata da tutti i benpensanti e ora invece è un fatto concreto. Hanno provato a proporre il nome di Giuliano Amato (per tentare una sponda indiretta con Berlusconi che in passato portò quel nome al Nazareno di rito renziano), nel tentativo di creare le condizioni domani per un governo Ursula (con dentro Forza Italia e fuori la Lega) ma non è aria, servono i voti di tutti e Berlusconi questa volta gioca per se stesso. Tutto il film è da rifare, anzi da cominciare. Nel caos, è il ragionamento di una parte del Pd, i mercati suoneranno la campana, noi diremo che bisogna tutelare il risparmio (inflazione + crisi finanziaria) così si finisce per riconfermare la coppia Mattarella-Draghi e "noi siamo a posto". Non fanno i conti con la fermezza di Mattarella e con la reazione di Draghi di fronte al niet al Colle dei democratici. Con Mattarella il governo avrebbe in ogni caso una durata politica limitata (meno di un anno) e un'efficacia ridotta (è chiaramente esaurita la sua funzione propulsiva). Con un altro presidente il premier ha il dovere di rassegnare le dimissioni, poi si vedrà se accetterà o no un eventuale altro incarico. Di dritto e di rovescio, il Pd rischia di perdere la carta di Draghi, può darsi che sia il desiderio di molti dell'apparato dem, ma nel complesso sarebbe una brutta pagina politica. Che fare? Letta deve sedersi al tavolo con Salvini.
05
Conte in cerca di un centro di gravità permanente

E Conte? Fa quel che non può essere, promette di essere "l'ag0 della bilancia", ma stasera durante l'assemblea dei gruppi parlamentari non ha potuto far altro che ricevere un mandato per il negoziato che per un leader è fatto abbastanza surreale, chi altro dovrebbe trattare se non lui? Ha detto no a Berlusconi al Quirinale, sai che sforzo, il minimo sindacale da dispensare alla truppa che vociava (ma senza avere il controllo dei voti segreti dei pentastellati in cerca di riparo dallo tsunami che verrà) e la realtà è che i parlamentari del Movimento sognano un mantenimento dell'attuale format istituzionale, la conferma della coppia Mattarella-Draghi. Una non-scelta, tradizione politica di Conte e dei pentastellati contizzati. Tengono anche loro famiglia, chiaro e umanissimo. Si tratta di un altro segnale per il centrodestra, la realizzazione di questo evento sarebbe una vittoria dello schieramento avversario, Conte prenderebbe il tempo che gli serve per cercare di risalire la china (operazione quasi impossibile) e lo farebbe, tra l'altro, aumentando la pressione e le richieste sul governo Draghi, cioè creando le condizioni per un cortocircuito a Palazzo Chigi. Conte cerca un centro di gravità permanente, ma per trovarlo deve far perdere l'equilibrio agli alleati nel governo e al premier che dovrebbe sorbirsi tutta questa brodaglia per un altro anno.
06
Renzi, il king maker a caccia del terzo colpo

Manca all'appello il king maker, Matteo Renzi. Politico di straordinaria abilità, intelligente, svelto, cattivista, un fuoriclasse della battaglia parlamentare, ha idee spesso giuste che non piacciono alla parte (purtroppo ampia) più assistita del paese, spettro che s'aggira nei sogni dei Cinque Stelle, caterpillar contro il reddito di cittadinanza, è la psicanalisi permanente di mezzo Pd (l'altro mezzo sotto sotto lo rimpiange), che soggetto da macchina da scrivere, il Capitan Jack Sparrow del Parlamento. Mise a segno con una manovra da manuale l'elezione di Sergio Mattarella (poi la rivivremo, tra qualche riga, un colpo da maestro, La Stangata) rompendo il patto e i piatti con Berlusconi, ha mandato in tribuna Salvini rimettendo in pista Conte che poi ha disfatto come un letto da rock 'n roll quando dal polsino gli è schizzata via come un lampo la carta di Draghi e dopo quella mossa nel saloon sono ancora tutti in bambola. Gong, tutti ko. Eccezionale (d'accordo, anche nel farsi del male), ma siamo di fronte a una sagoma che gioca in un altro campionato perfino quando è solo e palleggia contro il muro. Il problema è che qui si danno pedate anche nei campi di periferia e nonostante Renzi sia abituato alla ruvidezza del calcio fiorentino, in questo torneo del Quirinale pure le schiappe hanno una chance per fare danni. Il leader di Italia Viva ha un problema di sopravvivenza del suo disegno politico, se si vota, deve inventare un nuovo marchingegno (e ci sta lavorando) ma deve anche avere regole che lo tengano a galla, cioè un sistema elettorale proporzionale. Ha delineato perfettamente cosa serve (un patto per il governo contestuale a quello per eleggere il nuovo presidente, cioè una soluzione politica) ma per esserne protagonista (e ci proverà) deve giocare di grande fantasia e coraggio. Sono doti che non gli mancano, è chiaro a tutti. La via più facile (ma rischia di bruciarsi le penne dopo) è bussare alla porta di Berlusconi, negoziare con il Cav e vedere poi che succede (cosa che a un gambler come Renzi piace), quella più difficile è parlare con tutti (Salvini prima di tutti), mandare Draghi al Quirinale e salvare il sistema politico evitando la polverizzazione sua e del sistema. Se ci riesce, sarà un grande terzo colpo (Mattarella e Draghi i primi) in sette anni.
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Febbraio del 2015, sette anni fa, sembra ieri, sembra oggi, andiamo sul set de La Stangata. Elezione di Sergio Mattarella alla Presidenza della Repubblica, sembra passato un secolo, allora scarabocchiavo articoli sul Foglio.
07
Sette anni fa, la Stangata

Flashback. La musica è il ragtime di Scott Joplin rivisto da Marvin Hamlisch, le immagini sono di George Roy Hill, il titolo è La Stangata. Solo che non siamo in Illinois, non sono gli anni Trenta, i protagonisti non sono Robert Redford, Paul Newman e Robert Shaw, lo scenario non è una sala corse e di cavalli non c’è l’ombra. Siamo nel Parlamento italiano, il calendario segna 31 gennaio 2015, gli attori sono Matteo Renzi, Silvio Berlusconi e Angelino Alfano, ma il titolo in cartellone sì, perbacco, quello è lo stesso: la stangata.
L’elezione di Sergio Mattarella alla Presidenza della Repubblica è stata un capolavoro di Matteo Renzi. Impossibile non ammirarlo, andare avanti e indietro con il telecomando, fermarsi, guardare le facce incredule degli scommettitori: play, stop, rewind, forward, rallenty… cribbio! è andata proprio così.
Sì, è andata così. Sala corse. Puntata. Bidone. E vittoria per Renzi che ha indossato i panni di Henry Gondorf (Paul Newman) e ha messo in piedi una corsa dove tutto era vero e tutto era finto. La puntata di Berlusconi e Alfano era sicura, il Trofeo là, a portata di mano, luccicante come i corazzieri. Non era necessario neppure andare a cercare il fuoriclasse della pista, Seabiscuit, Ribot, Varenne, Secretariat, leggendari galoppatori. Bastava un buon esemplare, prelevato da un allevamento di consolidata tradizione, per andare spediti verso il Colle. Eccolo, un esemplare dal mantello baio, già regolato per l’andatura al trotto. Un Casini del Nazareno sarebbe stato ottimo. E Renzi-Gondorf sembrava pronto a smezzare il montepremi. Ma il Gran Premio del Patto non si è mai svolto. Gli scommettitori, improvvisamente, hanno ascoltato una radiocronaca diversa, gli altoparlanti della sala scommesse gracchiavano il racconto del Derby del Pd. Niente fotofinish, cavalli sfiniti, doping e fantini che all’ultimo momento cambiano scuderia. Ha tagliato il traguardo, solitario, un cavallo siciliano, una razza che si considerava estinta con la scuderia dello Scudo crociato, un galoppatore insospettabile, dallo zoccolo non ferrato ma pareggiato, stimato per le sue qualità dai carabinieri, già schierato anni fa in Difesa: il Mattarella.
Sceneggiatura perfetta. Sette Oscar. Nel film di Roy Hill, l’agenzia di scommesse sparisce, smontata in un paio d’ore, Henry Gondorf e Johnny “Kelly” Hoocker (Robert Redford), scappano con la cassa (e le donne) e tutti vissero felici, (s)contenti e gabbati. Ma questo non è il cinema, non è l’arte della sceneggiatura, non è l’Illinois, non sono gli anni Trenta e il Parlamento italiano (anche se non sta tanto bene), non leva ancora le tende.
The show must go on. Lo spettacolo deve andare avanti e Matteo Renzi non potrà vestire un’altra volta i panni di Gondorf senza essere scoperto. La bricconeria politica può tramutarsi in manovra che desta grande ammirazione, ma è un’arma letale che ha sempre pochi proiettili d’argento in canna. Finiti quelli, la giungla è uguale per tutti. E anche il più ingenuo tra gli agnelli, dopo aver visto morire i suoi simili, non va più a brucare l’erba vicino alla tana della volpe. “Sei stato birichino”, sono le parole di Silvio Berlusconi a Matteo Renzi, incrociato al Palazzo del Quirinale nel Mattarella Day. “Lui è un biricone”, ha risposto Renzi da Bruno Vespa, eterna terza camera del Belpaese. Eccolo, “il teatrino” di berlusconiana memoria, è di nuovo in onda. Play. Stop. Rewind. Forward. Si ricomincia con un altro gioco da telekommando e un pezzo tutto nuovo sulla scacchiera: Mattarella. Il Presidente ha giurato, ha fatto il discorso che doveva fare, ha preso gli applausi e l’incenso che doveva prendere. Copione senza colpi di scena. Quelli arriveranno dopo, con la calma epica della Balena Bianca di Melville. Mi chiedo chi farà la fine del capitano Achab.
Ora si torna a suonare lo spartito del governo. L’orchestrina finora non ha mai trovato tono e ritmo giusto d’esecuzione. Senza esser presi per gufi (meravigliosi volatili notturni) e al netto della liturgica spacconeria renziana, qui i problemi sono tutti aperti e il presidente del Consiglio dovrebbe darsi da fare per colmare il distacco tra le sue stupefacenti abilità di manovratore politico e le disarmanti operazioni di governo fatte e disfatte in questi mesi. Presto la realtà tornerà a bussare alla porta di Palazzo Chigi. C’è materia di cui discutere ampiamente, senza passare per disfattisti e nemici della patria.
Ecco due o tre cose in rigoroso ordine sparso, l’elenco ad alta gradazione di un Jepp Gambardella qualsiasi in una qualunque terrazza romana dove il liquore ha ormai messo a nudo l’ipocrisia dei divanisti. Il governo, i suoi ministri, il presidente del Consiglio, facciano due più due prima di scambiare un dato (l’ultimo sull’occupazione, positivo ma friabile come un cracker) per una tendenza, pensino al credito e non al debito prima di prendere a colpi di decreto le banche popolari (da riformare, certamente, ma dove sono i requisiti di necessità e urgenza?) e lasciare che spifferi e rumors gonfiassero con gli estrogeni della speculazione i titoli delle quotate e il portafoglio di qualche trader del Londonistan troppo bene informato, studino la materia fiscale (e la Costituzione, quella tanto cara a Mattarella) prima di riportare sul tavolo del consiglio dei ministri un provvedimento sull’evasione che sembra scritto da un tributarista che ha alzato il gomito. Continuo? Massì, perché in molti pensiamo che Renzi sia il last resort di questo Strapaese così bello, così ricco e così fragile. E qualcuno dovrà pur scriverlo che bisogna salvare Renzi dai renzisti, non per la sua augusta persona, ma per il bene del Paese. Il segretario fiorentino sarà anche il Royal Baby dipinto magistralmente da Giuliano Ferrara, ma la sua corte appare una caricatura sciacquata in Arno di quella del Cav. È vero, il leader precede, decide e l’intendenza segue l’ordine del generale, ma perdinci, lasciate che Maria Elena Boschi dai sublimi boccoli parli di riforme e non di fisco, materia sulla quale s’è incartata citando a sproposito la Francia, mentre Giletti la squadrava, encantado, ne L’Arena. Todos caballeros.
Ma certo, figuriamoci, ancora penso – nonostante tutto – “meglio Renzi”, come scrissi nell’agosto scorso sul Foglio in un pezzo dal titolo chiaro e leale come solo sanno fare gli amici sinceri: “Tutte le bischerate di Renzi”. Sono trascorsi altri cinque mesi, quasi un anno di governo, tra poco (22 febbraio), e siamo ancora là. Stop! Fermi al semaforo della vigilessa di Palazzo Chigi, snodo di una governance con un deficit preoccupante di competenza e ordine, con i decreti che sono pasticci illeggibili, con le poste di bilancio che ballano, con la pressione fiscale che diminuisce davanti alle telecamere ma rimane invariata nei documenti ufficiali, con il risparmio degli italiani tosato come non mai, con le tabelle del ministero dell’Economia che dicono una cosa, mentre il premier ne racconta un’altra, tanto la carta non canta e non conta da un pezzo e nessuno più controlla lo stenografato d’aula, i lavori delle commissioni, le norme approvate, la Gazzetta Ufficiale. Roba noiosa, bisogna leggerla e rileggerla, studiarla e i giornali sono al lumicino, meglio ridurre la faccenda a un tweet, 140 caratteri e poi si vedrà, tanto domani è un altro giorno, disse Rossella O’Hara. Eppure siamo a una svolta che ha il pathos di “Via Col Vento” e proprio per mano del Presidente del Consiglio. Change. Cambia tutto.
Napolitano è stato un “presidente di guerra”, un uomo chiamato a gestire il clangore dell’emergenza, del caos dei mercati, dello spread iperteso, della casa che brucia, dell’Europa sul punto di liquefazione, dei vertici lacrimosi tra Merkel e Sarkozy, tremanti di fronte alle armate schierate in sala trading. Ora, e lo dite voi, cari grandi elettori democratici, è venuto il tempo della “normalità”. E proprio per questo Mattarella non si farà legislatore con voi e per voi, non metterà il sigillo reale su ogni vostro strafalcione e salto costituzionale. E perfino il popolo, quello che auscultate con i sondaggi, prima o poi smetterà di firmare cambiali in bianco. Tira una brutta aria, in Europa. E lo sapete. Solo che pensate di farcela senza un disegno, per approssimazione, con cerca e trova, un drag and drop, un colpo al cerchio, uno alla botte e un po’ di aumma aumma ministeriale. Non funziona, aprite gli occhi, prima che sia troppo tardi. Guardate bene cosa accade nel Vecchio Continente: la paella di Podemos in Spagna, la ratatouille di Le Pen in Francia, il London Gin distillato da Farage nel Regno Unito, i colpi di spingarda di Matteo Salvini in Italia, il ruggito della destra ultranazionalista in Germania e, dulcis in fundo, la sinistra defaultista di Tsipras e del suo Dottor Stranamore fiscale, Yanis Varoufakis, il ministro per casual che quando è in fase moderata definisce la politica economica dell’Europa come “fiscal waterboarding”. Il governo ha qualcosa da dire su questo punto? Non le frasi di circostanza, i comunicati del ciclostile politicamente corretto. No, caro Matteo, non quelli, ti prego. Hai regalato la cravatta a Tsipras, ma lui pensa che siamo dei cravattari. Abbiamo 43 miliardi di euro di esposizione con la Grecia, ma l’altro ieri a Tsipras, quello che paga in comodissime rate, nessuno l’ha ricordato in pubblico con l’energia che dovrebbe avere chi ha un cambialone da riscuotere. Sono soldi degli italiani che in queste ore ballano il sirtaki.
Andiamo avanti? Il rendimento dei titoli di stato tedeschi è sotto quelli del Giappone, per la prima volta. Fine del Bund Party, la crescita europea è un lento con la puntina del giradischi che fa scraatch! ogni venti secondi e vai con la deflazione che in Italia ieri ha toccato i minimi e bisogna fare macchina indietro di mezzo secolo per ritrovarla così nei bollettini di guerra dell’economia. Gufo? Pessimista? Io tengo in buon conto quello che diceva Winston Churchill: un pessimista è un ottimista bene informato.
The show must go on. Lo spettacolo deve andare avanti. Anche per il centrodestra. E che spettacolo. “Asfaltati” (copyright Matteo Renzi) dal giglio magico, quelli che oggi dovrebbero rappresentare i conservatori italiani (sì, proprio quelli, esistono) hanno l’aria di un pugile che sul ring chiede “a che ripresa siamo?”, ma l’incontro è finito da un pezzo, con l’arbitro che dichiara la vittoria a sinistra, mentre la bellona a destra alza il cartellone della pubblicità del dentifricio che fa i denti più belli, il perdente si leva la dentiera, sputazza sangue, si gratta i punti di sutura e il pubblico ride a crepapelle. Suonati. Ci sarà tempo e modo per dire che cosa resta del ventennio berlusconiano, dei suoi figli sparsi e dispersi, del suo tempo gioioso e della sua allegra e tragica dissoluzione, ma di certo questo è un capitolo di comico strazio. Berlusconi è stato un leader di straordinaria grandezza – nel bene e nel male – circondato troppo spesso da uomini di altrettanto straordinaria pochezza. Grandina e nevica, là fuori, oggi e domani. È febbraio, s’alza un gelido tempo di coriandoli e balli in maschera. The show must go on.
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Febbraio 2015, sette anni fa, sembra ieri, sembra oggi. Forse sarà domani (e Ossignore, c'è ancora Berlusconi). Sì, vivremo tempi interessanti. Forse troppo.