Che succede? In Italia ben poco, a meno che non si pensi che un tribunale che s0spende l'elezione di Giuseppe Conte alla presidenza dei Cinque Stelle sia una notizia che cambierà la vita del Paese. Forse quella di Conte, mentre il destino dei pentastellati appare quello di un contrappasso, da partito giustizialista a movimento così democratico da essere "regolato" dalla giustizia. Sono baruffe perfino divertenti, ma il mondo ha decisamente problemi più urgenti.
Il radar è puntato sugli Stati Uniti, perché è dall’America inquieta che giungono i venti della crisi, l’amministrazione Biden è intrappolata nei paradossi, tenta di divincolarsi dai suoi guai proiettandoli altrove (in Ucraina) mentre il suo principale problema è tutto interno, un declino costante della Casa Bianca, del Congresso e del Pentagono, che sta emettendo sinistre radiazioni.
01
L'Ucraina, la Russia e il manuale di guerra
C’è chi pensa di accendere un flash di guerra in Ucraina, il più classico dei diversivi, ma si tratta di una mossa disperata per due motivi:
1. L’Unione Europea non è disposta a seguire gli Stati Uniti in un’avventura a Est contro la Russia di Vladimir Putin, una guerra con Mosca è impensabile per qualsiasi Stato europeo, non stiamo parlando dello smantellamento di una distilleria clandestina di whisky nel Tennessee, ma della seconda potenza nucleare a un tiro di missile balistico dalle capitali del Vecchio Continente. Qui tutti parlano con il Cremlino, acquistano il suo gas e tessono relazioni spesso complicate ma che nella storia non si sono mai interrotte;
2. Mai dimenticare gli insegnamenti del manuale della guerra. Il generale Bernard Law Montgomery, Lord di El Alamein, durante un dibattito alla Camera dei Lord, il 30 maggio del 1962, avvisò quelli che si dilettavano con il bricolage della guerra, due sono le regole da mandare a memoria:
La prossima guerra di terra sarà molto diversa dall'ultima, in quanto dovremo combatterla in modo diverso. Nel prendere una decisione in merito, dobbiamo prima essere chiari su alcune regole di guerra. La regola 1, alla pagina 1 del libro di guerra, è: "Non marciare su Mosca". Ci hanno provato in tanti, Napoleone e Hitler, e non va bene. Questa è la prima regola. Non so se le vostre signorie conoscano la regola 2 della guerra. È: "Non andate a combattere con le vostre truppe di terra in Cina". È un paese vasto, senza obiettivi chiaramente definiti, e un esercito che vi combattesse verrebbe inghiottito dai cosiddetti Ming Bing, gli insorti del popolo.
La storia non mente, mai svegliare l'orso russo. Nel frattempo, girandola di incontri.
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Putin: certe armi non possono stare vicino ai nostri confini
Distanza. Un tavolo e due leader. L'incontro al Cremlino tra Vladimir Putin e Emmanuel Macron.
Mosca. Emmanuel Macron è volato in Russia per incontrare Vladimir Putin (nella foto che apre List, il suo arrivo al Cremlino). Un incontro durato cinque ore - poco fa, dopo le 22.00, la conferenza stampa congiunta - dove i due leader hanno concordato sulla necessità di cercare una soluzione diplomatica, il presidente francese gioca la carta del rapporto personale costruito con il presidente russo nel corso degli anni e il suo obiettivo lo ha ribadito al Cremlino: "Dobbiamo lavorare per evitare un'escalation, non dobbiamo ripetere gli errori del passato e il nostro dovere è lavorare insieme per andare avanti". Da parte sua Putin ha definito "utile" l'incontro dove sono state discusse "le richieste russe di garanzie di sicurezza", ha affermato che "alcune delle sue idee, delle sue proposte, possono gettare le basi per un progresso comune", ma ribadito che "oltre ad aver spostato le loro infrastrutture militari vicino ai nostri confini, la Nato e i suoi Stati membri si ritengono autorizzati a darci lezioni su dove e come posizionare le nostre forze armate, e considerano possibile chiedere di non svolgere esercitazioni e manovre pianificate".

La conferenza stampa al Cremlino di Putin e Macron (Foto Epa).
Sul governo ucraino Putin ha detto che "naturalmente, da parte mia, ho attirato l'attenzione del presidente sulla riluttanza delle attuali autorità di Kiev a rispettare gli obblighi previsti dal pacchetto di misure e accordi di Minsk nel formato Normandia, compresi quelli raggiunti ai vertici di Parigi e Berlino. A mio avviso, è ovvio a tutti che le attuali autorità di Kiev hanno tracciato la rotta per lo smantellamento degli accordi di Minsk, non ci sono progressi su questioni fondamentali come la riforma costituzionale, l'amnistia, le elezioni locali, gli aspetti legali dello status speciale del Donbass". Il problema di Mosca è semplice da comprendere: "Certe armi non dovrebbero essere dispiegate vicino ai nostri confini".
Putin ha dato una visione di cosa significhi ingaggiare un conflitto con la Russia: "Se l'Ucraina si unisce alla Nato e riprenderà la Crimea con mezzi militari, i Paesi europei saranno automaticamente coinvolti in un conflitto militare con la Russia", ha detto Putin. "La Russia è una delle principali potenze nucleari e in alcune componenti di modernità supera addirittura molte altre", ha sottolineato, "non ci saranno vincitori. Vi troverete coinvolti in questo conflitto contro la vostra volontà". Lo ha detto mentre era al fianco di Macron. Più chiaro di così.
Il portavoce del Cremlino, Dmitri Peskov, ha spiegato sulla durata dell'incontro le parti "non avevamo stabilito alcun limite. Tutto era a discrezione dei presidenti". L'incontro è iniziato con un bilaterale e poi proseguito con una cena di lavoro. Abbiamo anche il menù: scampi, zuppa di cinque specie di pesce, ravioli agli spinaci e sorbetto allo zenzero. Poi storione, cervo con patate dolci e more e per dessert una crostata di pere con gelato alla vaniglia. Il vino servito era prodotto rigorosamente in Russia: Chardonnay del 2015 e Rebo. Hanno cenato al meglio, i colloqui sono una buona cosa, l'iniziativa di Macron è da lodare.
E a Washington che fanno? Il presidente Biden ha incontrato alla Casa Bianca il cancelliere tedesco Olaf Scholz e ha detto: "Se la Russia invade l'Ucraina, noi siamo pronti, tutta la Nato è pronta a reagire". Siamo sempre al "se". La storia della crisi dell’Ucraina così impiattata non ha senso, al Cremlino basta che la Nato tenga lontani i suoi missili dai tetti di Mosca (il tema dei “5 minuti di Putin”), ma gli Stati Uniti insistono con il racconto di un’invasione imminente dell'Ucraina, il linguaggio sembra preso dagli anni Sessanta, piena Guerra Fredda. A cosa può mai servire questo racconto? Nonostante l'enfasi, il tema non appassiona l'opinione pubblica americana, i cittadini hanno altri problemi. Da cosa sta cercando di sfuggire Biden?
03
La trappola economica americana
Da una trappola economica. Guardate questo grafico sul tasso di disoccupazione in America:
L’ultima volta che il tasso di disoccupazione negli Stati Uniti finì sotto il 3% l’America era al termine della guerra in Corea (1950-1953) e la recessione era dietro l’angolo. A che punto è l'inflazione negli Stati Uniti, grafico del Dipartimento del Lavoro:
A dicembre ha toccato il 7%, un numero che per l'amministrazione Biden è un incubo. Perché? Ogni volta che nella storia economica americana l'inflazione ha superato il 5% è poi arrivata una recessione, è accaduto nel 1970, 1974, 1980, 1990 e 2008. Il problema della Casa Bianca è tutto qui. E in novembre si vota per le elezioni di medio-termine e i Democratici rischiano di perdere il controllo del Congresso.
04
L'economia di guerra (e il rischio di una recessione)
Gli analisti della Casa Bianca sostengono che siamo in una fase di economia post-guerra e prendono in esame sei episodi storici per dare una lettura dell'attuale situazione, grafico su inflazione e guerra:

A che punto siamo di questa storia? L'inflazione corre, il presidente della Federal Reserve di St. Louis, James Bullard, stima che il tasso di disoccupazione cali al 3% nel corso del 2022, dunque saremmo in una situazione da post-guerra coreana. Ma questo significa che l'economia si sta surriscaldando, i prezzi stanno salendo e così anche le retribuzioni dei lavoratori. Sembra uno scenario ottimo, in realtà la storia economica dice che questa è l'anticamera di un improvviso crollo della crescita. Per la Federal Reserve si tratta di un allarme rosso: fermare la spinta potente dell'inflazione senza innescare una recessione e un rialzo della disoccupazione. È la ricerca di un atterraggio morbido in un mondo post-pandemico in cui l'economia dal marzo del 2020 (il mese dei lockdwon, la fase acuta del coronavirus) si sta profondamente ristrutturando.
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Inflazione, occupazione, tassi. Il grande della Federal Reserve
La Fed ha annunciato una politica di rialzo dei tassi per evitare la spirale dell'inflazione - il primo arriverà in marzo - ma i timori di un impatto negativo sulla crescita sono alti. La Banca centrale americana (e la Banca centrale europea della quale francamente sotto la guida di Christine Lagarde non si comprende la rotta) è di fronte a una questione di tempistica e intensità della sua azione. Guardare la storia dei cicli economici è fondamentale, ma una domanda si fa strada nella mente di chi osserva lo scenario del mondo post-coronavirus: e se fossimo di fronte a una dimensione inedita? Fino a qualche settimana fa, i leader dei governi (e ancora una volta, la Bce) affermavano (sulla scorta di analisi che si sono rivelate errate, vedere la sorprendente revisione dell'inflazione da parte di Bankitalia, stima raddoppiata in pochi mesi) che "l'inflazione era un fenomeno temporaneo". L'ascesa dei prezzi dice esattamente il contrario, le difficoltà nell'approvvigionamento delle materie restano tutte sul campo, alcuni settori industriali sono a rischio (l'auto è in una fase delicatissima, come vedremo), la più grande economia del mondo, la Cina, ha varato una politica di "isolamento" che pone seri interrogativi sul futuro della manifattura occidentale. Il rischio per la Fed è di fare troppo o troppo poco, grande dilemma. Né l'occupazione né l'inflazione stanno andando secondo le previsioni, il prezzi sono oltre ogni stima, mentre il mercato del lavoro - nonostante la diffusione capillare di Omicron - ha aggiunto altri 467mila nuovi posti e le paghe salgono. Valgono ancora le formule usate nel mondo pre-pandemico? Grande dilemma. Il 2019 - con l'inflazione americana sotto il 2% (1,8%) e il tasso di disoccupazione al 3,5% - è lontanissimo da un 2022 che vede l'inflazione al 7% e la disoccupazione al 4%.
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La fabbrica Italia è a rischio
Fatti lontani? Forse per le pagine dei giornali italiani, impegnati nell'inseguimento dell'ultima dichiarazione dell'ultimo leader politico, ma questi sono gli elementi chiave per capire la contemporaneità e non finirne travolti. Non c'è solo l'impatto dei prezzi energetici sulle bollette (che colpisce tutti e mette i più poveri in una condizione ancora più precaria, tanto da essere l'unico punto sul quale i partiti sono concordi: serve un ulteriore intervento del governo), è in corso una ristrutturazione dell'economia e se ne vedono i lampi sulla manifattura. In Italia questa rivoluzione sta entrando nella fabbrica dell'automobile, il settore è in una profonda crisi, tra l'incudine della transizione energetica a tappe forzate (un grave errore dell'Unione europea) e il martello della mancanza di microchip la cui domanda nell'economia digitalizzata è alle stelle (la cui produzione non è nel controllo dell'Europa).

Mercoledì a Palazzo Chigi ci sarà un vertice del governo con i produttori, Federmeccanica e i sindacati ha scritto a Palazzo Chigi sul "rischio di de-industrializzazione". Chi ha le idee chiare sul tema è il ministro dello Sviluppo, Giancarlo Giorgetti, che ha avvisato i naviganti: "Dobbiamo considerare chi controlla le materie prime ed evidentemente questo soggetto non si trova in Europa. Quindi, facciamo attenzione perché stiamo consegnando il futuro del settore dell'auto a un soggetto che sta fuori dall'Europa e mi fermo qui perché credo che tutti abbiamo capito di chi sto parlando". Giorgetti si riferisce alla Cina e mette in guardia chi fa del "green" un ecologismo insostenibile: "Gli ambiziosi obiettivi 'green' devono essere letti anche "con pragmatismo: standard ambientali elevati devono andare di pari passo con la sostenibilità economica, cosi' da evitare effetti distorsivi e minimizzare l'introduzione di vantaggi competitivi nel mercato interno a beneficio di Paesi terzi e a scapito dei Paesi europei". Traduzione: non solo non diminuiranno le emissioni (senza Cina e India non si fa niente), ma perderemo fabbriche e posti di lavoro.
La lettera di Federmeccanica e sindacati è chiara, ne riportiamo un brano:
Anche oggi, pur a fronte di una caduta della produzione nazionale di autoveicoli - che passa dagli oltre 1,8 milioni di veicoli nel 1997 ai soli 700.000 nel 2021, di cui meno di 500.000 autovetture - il settore Automotive nel suo insieme ha un peso rilevante nell’economia italiana grazie ad una progressiva autonomia ed internazionalizzazione dei mercati dei produttori di componenti presenti nel Paese, con un forte contributo alle esportazioni. Nel 2019 il settore Automotive valeva un fatturato di 93 miliardi di euro, pari al 5,6% del Pil, 5.700 imprese e 250 mila occupati, il 7% dell'intera forza lavoro dell'industria manifatturiera italiana (fonte ANFIA). Nel solo comparto della fabbricazione di autoveicoli, rimorchi e semirimorchi operano oltre 2mila imprese, 180mila lavoratori ovvero l’11% del totale degli addetti metalmeccanici, che producono un valore aggiunto superiore ai 13 miliardi di euro ovvero il 13% del totale metalmeccanico, esportando 31 miliardi di euro, poco più del 50% del fatturato complessivo e circa il 16% delle esportazioni metalmeccaniche e il 7% di quelle nazionali.
I numeri della sola Motor Valley italiana, in Emilia Romagna, dovrebbero bastare a far aprire gli occhi. Un complesso industriale di 16.500 aziende e oltre 90.000 addetti, con 16 miliardi di fatturato annuo e un export di 7 miliardi. Qui hanno radici e sede marchi noti in tutto il mondo: Automobili Lamborghini, Dallara, Ducati, Ferrari, Haas, Magneti Marelli, Maserati, Pagani e Toro Rosso. La Motor Valley è la sede di 4 autodromi internazionali (Modena, Varano, Imola e Misano), 6 centri di formazione specializzati, 6 case costruttrici, 13 Musei, 18 collezioni, 10 operatori del settore e 188 team sportivi. Siamo nel cuore della manifattura italiana. Rischia di fermarsi.