Che succede? Il sottosopra americano, la rivolta a Washington, l'invasione del Congresso, il lockdown a Capitol Hill, il coprifuoco a Washington DC, quattro manifestanti uccisi, la Guardia Nazionale schierata, la vittoria dem in Georgia. Eccola qui, la crisi americana con il fuoco del drago. Poi arriva la reazione, Mike Pence che molla Trump, Mitch McConnell che perde il ruolo di capo della maggioranza in Senato ma tiene il Gop ancorato a terra, la sconfitta dei repubblicani in Georgia che dà a Biden il controllo del Senato, ma una montagna di problemi perché ora il presidente eletto quando entrerà alla Casa Bianca sarà messo sotto pressione dall'ala liberal: hai i numeri, devi realizzare il programma che hai illustrato in campagna elettorale. Un programma impossibile. Su tutto, l'ombra della rivoluzione, i gruppi armati, Trump che invita tutti a tornare a casa in pace, ma "I love you" e "mi hanno rubato l'elezione". La battaglia non si ferma perché in ballo non c'è la Casa Bianca e neppure il futuro del Gop (parola di Trump: "È un partito finito"), ma quello della fondazione di un nuovo movimento politico. Dopo quello che è successo, per Trump è l'unica via, il divorzio con i repubblicani lo ha certificato lui con le sue parole. Al resto hanno pensato gli eventi, terribili.
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La rivolta a Capitol Hill ha cambiato tutto. Trump è indebolito dalla sconfitta in Georgia e dalle immagini dell'irruzione dei supporter nel Congresso. Su di lui si è abbattuta una grandinata di accuse. Le supererà? Il problema non più lui, ma l'intera architettura istituzionale degli Stati Uniti d'America. Abbiamo scritto l'altro ieri su List un passaggio che - purtroppo - è stato confermato dai fatti, lo ripubblichiamo senza cambiare una virgola.
La rottura costituzionale
(List del 5 gennaio 2020). Lo scenario della battaglia politica americana è durissimo. I rischi di una rottura costituzionale sono alti - e non sono quelli che si leggono, c'è ben altro, le possibilità di una secessione futura, un break-up dell'attuale assetto federale, sono concreti e fanno parte ormai nel dibattito interno.
La Red Nation non intende farsi governare dai dem che hanno perso la loro natura centrista, vengono considerati culturalmente aggressivi e in America tutto questo ha conseguenze profonde. L'uscita del Texas dal quadro istituzionale è uno dei temi che stanno emergendo con sempre più frequenza, la "Texit". Dall'altra parte della barricata, la secessione californiana era (e lo è nei fatti, leggere "The Stakes" di Michael Anton) uno dei mantra dei gruppi radicali - ora con una presenza forte nelle istituzioni - durante la presidenza Trump. Sono fatti che preoccupano coloro che fanno parte del vecchio establishment che in due turni elettorali (2016-2020) ha perso la presa sul sistema politico americano.

Non a caso la lettera degli ex segretari della Difesa che chiede di lasciare fuori il Pentagono dalla contesa politica (leggere bene alla voce "esercito") è stata ispirata a quanto pare (lo afferma uno dei firmatari, William Perry, ministro della Difesa durante la presidenza di Bill Clinton) da un grande vecchio come Dick Cheney, ex segretario della Difesa, ma soprattutto uomo chiave del sistema washingtoniano. È in corso uno scontro tra l'establishment e il movimento trumpiano. La questione non riguarda la telefonata di Trump al segretario della Georgia - che ascoltata tutta ha un tenore e un significato diverso da quanto riportato, guarda caso un leak venuto fuori proprio alla vigilia del voto decisivo in Georgia - la posta in gioco è quella degli assetti costituzionali degli Stati Uniti. Perché è vero che Trump ha innescato una battaglia legale sul voto (era un suo diritto, come ribadito dal Wall Street Journal), come è vero che il contesto elettorale era (è) del tutto anomalo con il voto postale di massa (esperimento da non ripetere, se ne vedono gli esiti in questo drammatico contrasto), ma è anche vero che la coalizione guidata da Biden ha una visione estrema che va in rotta di collisione con l'altra America, quella conservatrice, che oggi si riconosce in Trump, il quale, a sua volta, gioca una partita dove c'è anche il rischio dell'instabilità.
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L'instabilità è arrivata, puntuale, onesta, inesorabile. Il Congresso è stato invaso dai manifestanti pro Trump, in migliaia riuniti all'Ellipse, il prato davanti alla Casa Bianca. Chiuso il discorso di Trump, hanno fatto irruzione a Capitol Hill. Disordini, pistole, quattro manifestanti uccisi, sdegno mondiale. Il copione era già scritto, si trattava solo di una questione di tempo. Ci sono due Americhe in rotta di collisione. I numeri della Red Nation sono quelli dell'altra metà degli Stati Uniti, il paese non è San Francisco e New York.
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Trump poco prima aveva svolto un discorso che aveva un senso politico, dava corpo al suo progetto di costruire un movimento alternativo al vecchio gop. Sul taccuino del cronista, prima del crac, c'erano queste note.
America First contro America Last
Donald Trump attacca "i repubblicani deboli" in un discorso che alterna il doppio tema trumpiano dell'elezione truccata e della inaffidabilità del gruppo dirigente del Gop. Quella di Trump appare come un'accelerazione di una rottura che si sta consumando con i vertici del partito. Secondo il presidente parte del Gop è' arrendevole nei confronti dei democratici. Il tono dell'intervento di Trump è quello di uno strappo, un discorso diretto agli elettori repubblicani. Da una parte Trump e gli elettori, dall'altra il Gop dell'establishment. Trump oppone quella che chiama la linea di "America Last" tenuta dai parlamentari repubblicani al suo "America First". Hanno chiuso un occhio quando i democratici hanno aperto le frontiere, attaccato i militari e "messo l'America per ultima", dice Trump in un crescendo di attacchi il cui esito politico non è ancora messo nero su bianco, ma emerge dalle mosse politiche del presidente, dalla presenza costante di Ivanka Trump (per molti è lei l'outsider che studia per il voto del 2024, pronta a correre nelle elezioni di medio termine del 2022), nel tono e nelle parole pronunciate sul palco durante gli interventi precedenti: "C'è un altro partito repubblicano".
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Fin qui, siamo nel normale racconto politico. Poi, l'imprevisto, quello che cambia tutto, la strambata e un'altra rotta che muta il destino, per sempre.
La guerra incivile
Chi fa politica dovrebbe leggere con attenzione un libro intitolato "Massa e potere", capolavoro di Elias Canetti, premio Nobel per la letteratura. È un libro perfetto per sapere, per capire il sottosopra dell'America.
Trump si è illuso di poter dominare la massa, ma se tu la inciti a combattere, questa bolla informe e in movimento ti prende alla lettera. E va a combattere, con l'irrazionalità che scorre nelle vene. E come insegna Canetti, la massa così caricata diventa una muta di lupi che va a caccia. Scrive Canetti, sulla muta: "Un gruppo di uomini eccitati, il cui desiderio più intenso è essere di più". Realizzata la condizione dell'essere di più, arriva "la seconda forma di muta, che ha molto in comune con la muta di caccia e per alcuni aspetti coincide con essa, è la muta di guerra". Trump è rimasto incastrato nell'ingranaggio della muta.

I leader carismatici si illudono di poter plasmare la massa a loro piacimento e questa operazione a volte riesce, ma come il dritto ha sempre un rovescio: la massa diventa ingovernabile e finisce per possedere il politico. La storia è piena di rivoluzionari mangiati dalla rivoluzione che hanno accarezzato e scatenato come un fulmine che scintilla dalla mano, il primo che mi viene in mente è forse anche il più illustre, Maximilien François Marie Isidore de Robespierre. Ghigliottinò mezza Parigi, fece condannare a morte Danton, seminò il Terrore e poi rotolò anche la sua testa. Donald Trump non sarebbe né il primo né l'ultimo in questa serie di figure tragiche. Quello che è successo a Washington in fondo era un fatto annunciato: l'America è un paese devastato da una crisi prima di tutto culturale e poi politica. Abbiamo raccontato in tanti articoli le "due Americhe" in rotta di collisione, questo è solo il primo dei bagliori, altro arriverà, perché la crisi è anche costituzionale, ha un sottotesto che parla di secessione, di idee che emergono a ondate negli Stati rossi e blu, oggi si parla di "Texit" per il Texas repubblicano, la stella solitaria, ieri di "Calexit" per la California, il castello democratico hi-tech raccontato da Michael Anton in "The Stakes" come il prossimo modello (da incubo) in fase di "esportazione" in tutti gli Stati Uniti d'America. Due Americhe, due mondi che non si parlano più e non trovano ragioni per andare avanti insieme. È un dramma titanico che non a caso tracima dalla cronaca alle pagine di storia nel momento in cui la Cina corre verso il primato globale. È il romanzo degli imperi che declinano e decollano.

Trump ha radunato la sua massa di fronte alla Casa Bianca e al Washington Monument, simboli di libertà, democrazia e potenza. Nel farlo aveva (e pare abbia ancora, a giudicare dalle sue dichiarazioni) un obiettivo politico: rompere con il Partito repubblicano - cosa che ha fatto, forse definitivamente - e mettere il primo mattone di un nuovo partito, la costruzione della leadership della "Red Nation". Nel farlo, non avendo letto Canetti e non sapendo della fine di Robespierre, ha commesso il classico errore: sopravvalutare se stesso e sottovalutare la massa. Che puntualmente, all'innesco, è diventata una cosa in sé, direbbero i filosofi, un soggetto dotato di una incontenibile volontà di potenza. Facile liquidare tutto con il coperchio del "populismo", ma la realtà è che la politica contemporanea su Twitter è tutta populista e il risultato è che l'influencer è condannato a diventare follower delle pulsioni più primitive dei suoi fan (che hanno non a caso organizzato la manifestazione proprio sui social).
È la politica ridotta a dimensione virtuale che quando diventa reale assume forme drammatiche e grottesche nello stesso tempo. Basta dare un'occhiata alle immagini della rivolta che hanno fatto il giro del mondo: personaggi improbabili, tra un fumetto della Marvel, i Village People e una puntata di Fargo dei fratelli Cohen. L'America, senza alcun dubbio, "L'incubo ad aria condizionata" raccontato magistralmente in un libro di Henry Miller. Siamo arrivati alla fiction che genera la realtà, infatti Trump nasce in tv, era il protagonista di "Apprentice".

La preda era praticamente davanti alla massa, Capitol Hill, il Parlamento, il luogo dove deputati e senatori erano riuniti per certificare l'elezione di Joe Biden alla Casa Bianca. È una storia finita che Trump vuole tenere aperta oltre ogni sceneggiatura possibile. Denuncia i brogli, ma non ha trovato ascolto presso la Corte Suprema, ha perso le elezioni e come dicono a Washington "a win is a win", una vittoria è una vittoria. E Biden, piaccia o meno, ha vinto. Quattro anni fa fu Trump a vincere con grande sconcerto delle classi colte, oggi tocca a un altro. So bene che una larga parte degli elettori repubblicani pensa che ci siano stati dei brogli ed è chiaro, visti gli esiti, che il voto postale di massa è materiale da maneggiare con cura perché le elezioni hanno bisogno di uno scenario ampio, condiviso, sono l'atto supremo di un popolo che affida il proprio destino al metodo democratico. E quel popolo, almeno una volta, deve potersi guardare in faccia mentre sceglie i propri rappresentanti. Le elezioni del Covid-19, come le ha chiamate Daniel Henninger in un eccezionale articolo tempo fa sul Wall Street Journal sono una distopia e la lezione del virus è che non può essere questo il new normal.

L'America è un paese a mano armata, il secondo emendamento è un pilastro della sua Costituzione, la nazione è stata costruita sì con l'ingegno, il duro lavoro e il capitale, ma con il conforto della Bibbia, il memento della forca e la parola della Colt. Non bisogna mai dimenticarlo, si corre il rischio di confondere Vienna con Detroit. E in queste ore molti commentatori dell'istante sono irrimediabilmente accomodati in un caffè di Vienna. L'America è un paese violento, gran parte dei suoi abitanti non ha il passaporto, tutto si misura in ordini di grandezza e di ricchezza, Midwest e Sun Belt sono mondi separati dalle metropoli costiere che guardano al Pacifico e all'Atlantico. Ma se attraversi il deserto del Mojave, i campi petroliferi del Texas e le distese di girasoli dell'Ohio, lo scenario è ben diverso da quello di "Colazione da Tiffany" e lo stesso Truman Capote per fortuna ci consegnò una descrizione desolante e cruenta dell'America nelle pagine di "A sangue freddo". Splendore e miseria, omicidio e salvezza, tutto è custodito nella miniera inesauribile della letteratura americana. Che purtroppo pochi frequentano, anche dalle nostri parti, nella Vienna immaginaria del contemporaneo social-aperitivista.

L'errore e l'orrore di Trump sono nella sua fissazione per il successo e il rifiuto della sconfitta come fatto naturale e spesso salutare, la cospirazione elevata a strumento di persuasione. Una tragedia shakespeariana di streghe e profezie che si specchia dall'altra parte della barricata nell'ossessione della purezza che ti epura, al punto da far cadere la statua di Abramo Lincoln perché ritenuto non adeguato allo standard di moralità dei liberal, l'uomo che mise fine allo schiavismo, tirato giù dal piedistallo. Un paese che non ama più i suoi simboli e li sostituisce con il ruggito dei leoni da tastiera. Benvenuti nel 2021, l'anno della guerra incivile americana.