2 Agosto
La rivoluzione italiana
L'impresa degli azzurri nell'atletica, talento e fatica, lo spirito di un ritrovato e rinnovato Paese. L'oro di Jacobs, quello di Tamberi. Velocità e salto nel futuro. Guardando a un grande esempio del passato, Pietro Mennea, la "Freccia del Sud". Ieri e oggi, un racconto sul treno della cronaca che diventa storia
Il Sol Levante è d'oro per l'Italia. E l'atletica mondiale splende d'azzurro. Trovare le parole, questo è il problema, in una Roma che stasera ti soffoca e ti abbraccia di luce. Siamo l'impero dello sport. L'impresa è di quelle che lasciano il segno sul cuore, per sempre. L'ho vissuta su un treno che mi portava dalla stazione di Oristano a quella di Elmas aeroporto, mentre scorreva sul finestrino la pianura del Campidano, ingiallita dal caldo e dal fuoco. Diretta da Tokyo, Discovery sul mio smartphone. Per due volte in un pomeriggio da ronfata fissa ho fatto il matto, credo m'abbiano preso per un cronista in pensione un po' picchiatello, ma stavo assaporando quella cosa che si chiama gioia totale, quella felicità improvvisa che arriva in due spazi della vita: nell'amore e nello sport. Oro nel salto in alto, oro nella corsa che fa l'Olimpiade, i 100 metri su pista. Mi viene in mente il grande Dan Peterson quando raccontava le schiacciate sotto canestro di Los Angeles Lakers e Boston Celtics: "Mamma, butta la pasta!". Pomodoro e spaghetti, siamo italiani. E ora, come a Londra, nell'arena di Wembley, cari tutti "mangiate la pasta".
In vetta al mondo dell'atletica. Gianmarco Tamberi, oro nel salto in alto (Foto Epa).Che quello del salto in alto, Gianmarco Tamberi, stesse preparando la sorpresona, era più di un sospetto fondato, l'ha apparecchiata come la sceneggiatura di una commedia americana, con la grazia di un ragazzo che sa che può perdere, ma sta inseguendo la Nike di Samotracia, la dea alata della vittoria che tutti una volta nella vita dobbiamo vedere (Parigi, museo del Louvre) per capire la magia dell'Antica Grecia, l'alba fiammeggiante dell'Occidente. Che grande personaggio è quest'uomo che s'inerpica in aria. Chiamava la folla, parlava con la telecamera, esponeva il gesso di un maledetto infortunio in pista, quello che...
Il Sol Levante è d'oro per l'Italia. E l'atletica mondiale splende d'azzurro. Trovare le parole, questo è il problema, in una Roma che stasera ti soffoca e ti abbraccia di luce. Siamo l'impero dello sport. L'impresa è di quelle che lasciano il segno sul cuore, per sempre. L'ho vissuta su un treno che mi portava dalla stazione di Oristano a quella di Elmas aeroporto, mentre scorreva sul finestrino la pianura del Campidano, ingiallita dal caldo e dal fuoco. Diretta da Tokyo, Discovery sul mio smartphone. Per due volte in un pomeriggio da ronfata fissa ho fatto il matto, credo m'abbiano preso per un cronista in pensione un po' picchiatello, ma stavo assaporando quella cosa che si chiama gioia totale, quella felicità improvvisa che arriva in due spazi della vita: nell'amore e nello sport. Oro nel salto in alto, oro nella corsa che fa l'Olimpiade, i 100 metri su pista. Mi viene in mente il grande Dan Peterson quando raccontava le schiacciate sotto canestro di Los Angeles Lakers e Boston Celtics: "Mamma, butta la pasta!". Pomodoro e spaghetti, siamo italiani. E ora, come a Londra, nell'arena di Wembley, cari tutti "mangiate la pasta".
In vetta al mondo dell'atletica. Gianmarco Tamberi, oro nel salto in alto (Foto Epa).Che quello del salto in alto, Gianmarco Tamberi, stesse preparando la sorpresona, era più di un sospetto fondato, l'ha apparecchiata come la sceneggiatura di una commedia americana, con la grazia di un ragazzo che sa che può perdere, ma sta inseguendo la Nike di Samotracia, la dea alata della vittoria che tutti una volta nella vita dobbiamo vedere (Parigi, museo del Louvre) per capire la magia dell'Antica Grecia, l'alba fiammeggiante dell'Occidente. Che grande personaggio è quest'uomo che s'inerpica in aria. Chiamava la folla, parlava con la telecamera, esponeva il gesso di un maledetto infortunio in pista, quello che gli levò la possibilità di agguantare il podio nelle Olimpiadi di Rio 2016. Santo cielo, bisognerebbe scritturarlo per un film con Walter Mattau e Jack Lemmon, se ancora fossero tra noi quei due geni della battuta. Tamberi saltava, io trepidavo, come tutti gli italiani. E se non ce la fa? Ma che cazzo dici, pensavo litigando con il mio esserino interiore in preda allo spavento dell'altezza, smettila di rompere i coglioni e guarda che cosa combina "Gimbo", idiota. Quando ha saltato i 2,37... oplà, che gattaccio si sta librando di schiena. L'asticella arriva a quota 2,39 e ora quella misura ti sembra l'Everest. Ossignore, fagli spuntare le ali sulle spalle, come la Nike, un decollo verticale da Sea Harrier, Sant'Efisio guarda che sono in treno, questo salta e io non voglio star male, steso sui binari, mettici la tua mano, fallo volare, il Tamberi. Troppo in alto, troppa fatica, troppa tensione, troppo che diamine ne so, sta di fatto che l'asticella finisce sul materassone e per poco non ci finisco anche io, ma su quello del letto dell'ospedale di Cagliari. Altro che aereo per la Città Eterna, appisolata e sognante. E ora che si fa? Confusione, canta Battisti. Sono in parità, Tamberi e quella nobile aquila nera del Qatar, Mutaz Barshim. Si abbracciano, parlano, e fanno quello che si fa di fronte all'oro olimpico: niente spareggio, andiamo entrambi a delibare la medaglia sul punto più alto del podio. Nella cronaca, passaggio da Hitchcock, non si capiva un fico secco di cosa stessero architettando i due, poi il pianto di Tamberi, il suo corpo che plana stavolta sulla pista, a terra, la mano sul cuore, un torrente negli occhi, il grido di un titano che ha appena scalato l'Olimpo. Ho pensato a Sara Simeoni, il suo oro, lo spettacolo di Mosca 1980, ho chiuso gli occhi e me la sono goduta tutta, fino all'ultima stilla questa bevanda ghiacciata della vittoria. Il salto in alto, l'Italia che vince il primo oro nell'atletica e per la prima volta nella gara maschile sale in vetta, a toccare le stelle.
Il momento della vittoria. Lo sprint finale di Marcell Jacobs nei 100 metri (Foto Epa).Godere e di nuovo sperare. Non è finita, tra qualche minuto c'è un'altra sfida. Il treno si ferma a Uras-Mogoro, non vedo nessuno in attesa sulla banchina, tanto meno salire sul vagone, il caldo ha fatto evaporare ogni figura, il capotreno che poco prima mi aveva offerto al bar della stazione di Oristano un caffè (la gentilezza sarda, cose d'altri tempi), mi guarda e spiccica preoccupato "direttore, come sta?", evidentemente la mia faccia tradisce qualcosa di strano, siamo vicini al colpo apoplettico, alle paresi facciale, al casino ormonale, AstraZeneca mi farà diventare verde come l'incredibile Hulk ma con il fisico di uno che divora cozze crude e beve Nieddera (rosato di Cabras), ora le papille gustative sono paralizzate, un'arsura che non vi dico, insomma, una fase da finalissima con l'esistenza. Ma quando parte questa finale?
I giapponesi sono davvero crudeli, guarda che cosa combinano, la pista dei 100 metri diventa scura, vibrano le luci di Tokyo nella notte, così, giusto un po' di maquillage scenografico per far salire la tensione. Eccolo qui, il rettilineo della vita, i cinque cerchi olimpici, fammi un po' vedere come sta messa la faccia di Marcell Jacobs... Ok, decisamente migliore della mia che si frange sul vetro del treno, siamo ripartiti da un pezzo e io che pensavo fossimo immobili, tra poco c'è la stazione di Samassi-Serrenti che per quelli della mia età significa "andiamo a ballare al Biggest?" (tempi polverosi, fradici e bellissimi), tutto è pronto. S'accendono le luci, ancora i primi piani de is curridoris. Cento metri. Che vuoi che sia? Jacobs qualche ora prima ha sbrigate le pratiche di una semifinale di plastica sicurezza, tempo con un record europeo nuovo di zecca, 9"84. Ma qui adesso ci sono i mostri americani della pista, gente che solleva schegge d'asfalto quando scatta, "sono tutti neri" e come diceva un amico che non c'è più ma resta, Pietro Mennea, non c'è scampo di fronte alla supremazia del corpo e alla fame di vincere. Quando presentarono Mennea a Mohammed Alì, ecco l'uomo più veloce del mondo, il re della boxe gli disse: "Scusa, ma tu sei bianco". Mennea gli risposi con un dardo della disfida di Barletta: "Dentro sono più nero di te". E forse questa volta abbiamo un altro italiano con la benzina super e la volontà di quello che sfreccia avanti e non lo prendi più. Bianco o nero, è tinto d'azzurro, è un italiano vero (Toto Cutugno, altro che l'opera omnia della Scuola di Francoforte), suvvia Marcell, fai il miracolo, ti prego. Ma che dici, ancora tu? Stai calmo, aspetta lo sparo e non respirare e soprattutto non ruminare pensieri che magari portano pure sfiga. Falsa partenza. Ma vaffanculo! Così mi fate morire. Quello che sbircio sullo smartphone, Marcell, non fa un plissè, immobile. Squalificano un atleta di cui non ricordo il nome, il mio pensiero è quello di una carogna, lo so: "Uno in meno". Andiamo avanti, si parte o no? Altro che, sparo e vai con lo scatto. Per nove secondi e ottanta centesimi ho visto un ghepardo in pista, stavo online su Discovery, dunque la fase da documentario ci sta, ma quello che sta frantumando gli avversari è Jacobs, fa una gara da pazzi, sul petto si vedono i pistoni che pompano energia, è in testa, lascia tutti sul posto, il cinese Wu è un'ombra, non ha carburante, l'americano Kerley ci prova ma non entra in scia di Jacobs, il canadese De Grasse tenta la rimonta finale ma il suo motore si pianta. Oro di Jacobs a 9"80, Kerley argento con 9”84 e De Grasse in bronzo con 9”89. Io sono sbronzo di gioia. Silenzio, poi l'urlo finisce sui binari, ritorna nel vagone dove nel frattempo sono scattato in piedi. Ma che fai? Festeggio l'Italia che in 11 minuti ha rivoluzionato i canoni dell'atletica. Jacobs oro, Tamberi oro. "Mangiate la pasta".
***
Le strade a Roma sono deserte stasera, l'atletica non fa esondare le masse in strada come il calcio, ma abbiamo visto la più grande giornata di sport della storia italiana. Queste medaglie d'oro sono da mordere, hanno un sapore intenso, inarrivabile per qualunque altra disciplina (forse il tennis, con il suo durissimo gioco psicologico, tiene testa alla potenza e armonia del movimento dell'atletica, della corsa e del salto), dietro queste vittorie c'è una fatica che (ri)conosco, me la raccontò anni fa Pietro Menna, un grande italiano. Eccolo qui, un capitolo di "Tutte le volte che ce l'abbiamo fatta". Parla l'uomo che fece l'impresa, colui al quale Jacobs si è ispirato. Tra qualche riga non avrete più un solo dubbio sull'eredità immensa di fatica, sudore, lacrime, amore e potenza lasciata dalla "Freccia del Sud", Pietro Mennea.
Città del Messico. 12 settembre 1979. Universiadi. L’Ultimo Bianco aspetta i tre ordini dello starter.
«Ai vostri posti!»
Ti posizioni sui blocchi. Un piede su quello anteriore. L’altro su quello posteriore. Il ginocchio appoggiato a terra. Mani a castelletto dietro la linea di partenza. Eccoti qua. Non lo sai ancora, ma sei l’Ultimo Bianco. Vicino a te ci sono i primi modelli di dragster neri e gli ultimi sovietici da laboratorio. Non te ne curi affatto. Tu vieni da Barletta. Sei la «Freccia del Sud» e c’è il traguardo davanti a te. Hai la mente Altrove. 14 luglio 1965. Ritorni per una frazione di secondo a casa di Salvatore e Vincenza. Tuo padre ordisce un abito, tua mamma è un generale ai fornelli. La radio è accesa: «Felice Gimondi ha vinto il Tour de France». «Pietro, l’abito è finito. Ora vallo a consegnare al cliente». Sono le dieci del mattino. Esci con la stoffa tagliata e cucita da tuo padre. Hai voglia di correre. L’hai sempre fatto. Fin da quando sui cinquanta metri dello stradone sfidavi una Porsche e un’Alfa Romeo. Macchina contro Natura. A vincere eri tu. E ora? Ora che sei destinato a diventare l’Ultimo Bianco e non lo sai, ora ce la farai a vincere sotto il cielo di Città del Messico?
«Pronti...»
Innalzi le anche. Fai avanzare le spalle. Carichi i piedi sui blocchi. Un felino pronto alla corsa. Piove a Città del Messico. Scorrono davanti ai tuoi occhi altri giochi olimpici. Altri campioni ad alta velocità. Tommie Smith e John Carlos erano sul podio di Città del Messico con il pugno alzato, il capo chino, scalzi, e un guanto nero verso il cielo. Era il 16 ottobre 1968 e tu, ragazzino fragile, eri a Termoli con la staffetta 4x100 della tua squadra, l’Avis Barletta. Correvi veloce.
Undici anni dopo, il ragazzino fragile è diventato un uomo: al centro della pista a Città del Messico ci sei tu. E Tommie Smith è un numero da abbattere: 19 secondi e 83 centesimi. E tu sei solo, silente, un italiano destinato a diventare l’Ultimo Bianco.
«Bang!»
Sei una pila. Elettrizzato. Le mani si levano da terra. I piedi balzano dai blocchi. Il corpo è un proiettile. Braccia e gambe si attraggono come cariche. Sincronia. Il tuo motore da sprinter accelera la frequenza. Conosci la curva come lo stradone di casa. «Freccia del Sud» avanti tutta sulla corsia numero 4. Primi cento metri in 10,34. Secondi cento metri in 9,38. La maglia azzurra numero 314 è in testa. Ci sei, il traguardo è là. Lo sai che stai per salire sul podio. Pane, olio e fatica. Tagli il traguardo con un colpo di testa e sì: hai vinto. Non alzi le braccia al cielo. Non sorridi, ancora. L’orologio Omega segna 19,72. Record del mondo. Sei un figlio del vento, sei il figlio di un altro tempo. Sei Pietro Paolo Mennea, l’Ultimo Bianco.
Pietro Paolo Mennea è la descrizione di un attimo. La sua vita non si esaurisce con le gare; l’istante bruciante è la sua essenza finale, il distillato energetico frutto di pianificazione, preparazione, lavoro. Racconta Mennea: «Su 365 giorni l’anno, tutti di allenamento, ne saltavo solo quindici. A casa, a Barletta, tornavo solo tre volte. Per il resto, sempre a Formia, mattina e pomeriggio, anche a Natale e Pasqua. Alla sera mangiavo come un matto, ma niente alcolici e cibo piccante. Stavo in un albergo che ospitava ricevimenti nuziali, a me andavano i resti, era una pacchia: antipasti, primi, secondi, contorni, frutta, dolci. Ero abituato bene, con mia madre che mi preparava la pasta al forno alle tre di pomeriggio. Non sono mai stato male di stomaco e a livello muscolare, in venti anni di attività, non mi sono mai strappato. Quelli che si allenavano con me non reggevano il ritmo, se ne andavano dopo un anno, sfatti. Quando Vittori, nei convegni, mostrava il programma di lavoro gli chiedevano: “Ma chi ha fatto queste cose è ancora vivo?”». Sì, è ancora vivo. Ha i capelli bianchi, lo stessa struttura fisica dei tempi della pista, lo stesso sguardo che a sbalzi si sgancia dall’oggi per lanciarsi sul domani. Ma il suo razzo della memoria decolla grazie a un carburante che non brucia ma diffonde un profumo di cose perdute, curva e rettilineo diventano improvvisamente un colpo dolce di remo nel mare dei ricordi. E davanti al mio taccuino e alla mia penna ora ho uno sprinter del racconto: «Sono nato in una famiglia povera, papà era sarto, mamma casalinga, lo aiutava a confezionare i vestiti, accudiva alla casa e doveva crescere cinque figli. Dei cinque figli, io ero quello prescelto per fare le cose più umili. Quali erano le cose più umili? Lavare per terra, lavare i vetri, lavare la cucina, lavare i piatti. A tre anni mia mamma mi comandò a prendere un bottiglione di varechina, enorme, mentre tornavo a casa mi si ruppe e... ecco, guarda... ho una cicatrice qua... ho lavorato da un calzolaio, in un bar, in un negozio di tessuti... e attenzione! Questi sono valori, sono le cose più umili che ti fanno crescere e mantenere i piedi per terra».
Sì, Mennea è ancora Mennea. Iperveloce ieri. Iperattivo oggi. Tante medaglie (15 d’oro, 3 d’argento, 6 di bronzo) e quattro lauree (Scienze politiche, Lettere, Scienze dell’educazione motoria, Giurisprudenza), uno studio legale, una fondazione benefica che porta il suo nome. Inesauribile nella ricerca del risultato perfetto. Sorride con una punta di lucida amarezza di fronte alla storia del self made man presa in prestito da Steve Jobs, come se noi in Italia non avessimo l’esempio, la storia, il traguardo tagliato con le braccia alzate da mostrare a chi cerca il futuro.
«Se non avessi avuto quell’infanzia non avrei fatto quello che ho fatto nella vita. Viaggiando un po’ da solo... noi non avevamo niente, ma volevamo tutto. Partendo da niente volevi tutto. Quando Steve Jobs dice che bisogna essere hungry and foolish... a noi ci fa ridere. Lui ha trovato gli investimenti per impostare le aziende, creare il prodotto... e noi... noi non avevamo nulla: solo la nostra cultura, la nostra famiglia... noi non avevamo nemmeno il televisore, andavamo a vedere la tv in un circolo di anziani. Era su un baldacchino, pagavi 50 lire, ti mettevi seduto – non su una sedia, ma per terra – e vedevi “Lascia o raddoppia”.»
Benvenuti al Sud, retori del nulla. Benvenuti al Sud, figli di papà con la paghetta, la minicar, la laurea triennale e il weekend tra pupe e sballi. Benvenuti al Sud, genitori stolti, padri Bel Ami e mamme Bovary. «Papà è sempre stato il mio primo tifoso. Ma la persona da cui ho preso il mio carattere è mia madre: è lei quella dura, durissima. Ti racconto un episodio: comincio a correre, vado in crisi adolescenziale. Normale. Solo scuola e sport. Scappo di casa. Vengo a Roma. Nella famiglia di mio padre, undici figli, due sorelle erano suore. Allora scappo, vado nel convento di Santa Chiara a Colle Oppio, vicino al Colosseo, citofono, quella mi vede: “Pietro, che fai qua? Tu non ci puoi stare qui. Siamo tutte suore. Devi tornare a casa”. Torno a casa. Mamma non mi dice niente. Poi, al momento opportuno, prende un bicchiere e... mi spacca la testa. Il bicchiere è intatto. La testa si spacca. Da quel momento non mi sono più fermato. Né nel correre né nello studiare. L’ho fatta soffrire, ero il suo unico aiuto. Era la delusione e rabbia di una mamma che pensa che stai scappando via, non nel senso di andar via... Era una perdita dal punto di vista educativo.»
Benvenuti nel mondo di un uomo del Sud, nato con la faccia da Totò e un fisico che, non ci avresti mai scommesso, nascondeva la carica di Flash Gordon. Mennea è un caso unico di ingegnerizzazione della prestazione con il miglior metodo naturale possibile: la fatica. Questa sconosciuta ai giorni nostri, diventa il carburante di una carriera fulminea. Non basta il talento. Serve l’allenamento. «Non avevo compagni in grado di sostenere i miei carichi di lavoro. Vittori partiva con la moto o la sua macchina. Sono quello che si è allenato di più in assoluto. Un esempio di lavoro quotidiano? Venticinque volte i sessanta. Dieci volte i trecento».
Il suo record del mondo sui 200 metri ha resistito diciassette anni, fino quando il nero Michael Johnson ha spostato qualche centesimo di secondo più in là il muro che nel 1979 aveva eretto l’Ultimo Bianco: 19"66, seguito poi da Usain Bolt con i suoi 19"19. Ma il suo 19"72 è ancora il record europeo. Un predestinato? Pietro Paolo pensa di no, o forse sì. Un po’ ci gioca, ma in lui prevale la convinzione che senza preparazione e duro lavoro niente è possibile.
«Avevo delle qualità, ma non eccelse. Non ero predestinato a diventare un campione. L’ho costruito, poco alla volta. Faccio un esempio del perché non sono nato predestinato. Vado a vincere una gara ad Ascoli Piceno, la città di Carlo Vittori. Lui mi vede sui 300 metri. Il mio allenatore dell’Avis Barletta dice a Vittori: “Perché non prendi Mennea una settimana con te, così lo correggi tecnicamente?”. Vittori risponde: “Ma che ci devo fa’ con questo?”. Ero magrolino, mingherlino, non avevo il fisico da sprinter. E Vittori disse: “Questo deve magna’ la bistecca...”. Stavo là... assistevo alla conversazione. Tornai a Barletta. E invece di smettere, mi allenai sempre di più. Vittori poi divenne il mio allenatore». Fisico atipico, carattere introverso, un fulmine in pista, un pentolone di idee in ebollizione. E il Sud. E la polvere da mangiare. E la storia da studiare. E la genetica da esplorare. E i classici greci da rovistare. E Gianni Brera, maestro da ricordare. «Alla prima olimpiade, quella di Monaco, venne nel campo di riscaldamento. Mi voleva attribuire una genetica particolare. Lui pensava: questo non può fare 10 secondi netti sui cento e 20,2 sui duecento. Così si presentò davanti a me. E disse a Vittori: “Posso conoscere Mennea?”. Presentazione: “Gianni Brera”, “Pietro Mennea”. Brera chiede a Mennea: “Ti puoi mettere di spalle a me?” Sì. “Ti posso toccare il cranio?” Mi tocca il cranio. Finito il tutto mi fa: “I tuoi avi sono originari della Mesopotamia”. Lo guardo incredulo... mah! Se lo dice Gianni Brera, sarà vero. Torno al Villaggio Olimpico e telefono ai miei genitori. Parliamo e alla fine, prima di terminare la conversazione, chiedo loro: “Voi avete bisnonni o trisnonni originari della Mesopotamia?” E loro? Silenzio. Secondo me pensavano: deve essere successo qualcosa a nostro figlio, questo s’è scimmunito... “No, Pietro, siamo tutti originari di Barletta e dintorni”. Poi ho scoperto perché Brera aveva fatto quest’affermazione. Aveva studiato al liceo classico, letto le storie di Polibio. Nelle sue cronache, c’è una famiglia nobile, originaria della Mesopotamia, imparentata con un generale ateniese dei tempi di Pericle che si chiamava Nicia».
Ecco qui, il Mennea mitologico, quello da Monte Olimpo, l’eroe, il semidio, un po’ uomo e un po’ divinità, quello con i natali sulle Termopili, quello che corre scalzo su strade impolverate e sassi e lance e spade e fortificazioni. La Grecia, il suo secondo Paese («ci andrei a vivere») e l’America, la terra della libertà dove tutto è possibile.
«Iu- es-sei, Iu-es-sei» e i suoi miti. «Quando ho battuto il record del mondo di Tommie Smith, mi hanno presentato a Mohammed Alì, Cassius Clay. Ero diventato quello che oggi è Usain Bolt, l’uomo più veloce del mondo. Così l’entourage di Alì mi presenta: “Mohammed, Mohammed, ti presentiamo l’uomo più veloce del mondo”. Quello mi guarda e commenta: “Scusa, ma tu sei bianco”. E io rispondo: “Sì, ma dentro sono più nero di te”. Si è messo a ridere perché ha capito. Si aspettava di vedere un atleta di colore, alto un metro e novanta, non un fringuellino. Questo a dimostrazione che non bisogna avere tutte ‘ste qualità. Tutto si costruisce con impegno». L’impegno, quello nelle strade dell’infanzia. La sfida uomo-macchina. «A Barletta mi cimentavo nelle corse in piazza, intorno alla cattedrale. Avevo manifestato queste qualità di giovane velocista, a tal punto che s’era sparsa la voce.» E cosa accadeva? «Accadeva che macchine di grossa cilindrata che arrivavano dal Nord italia venivano a Barletta a sfidarmi.» Biella e pistoni contro le piume delicate del «fringuellino».
Notti meridionali. Notti stellate. Notti povere. Notti da corsa all’oro. «Eravamo cinque figli, in tre dormivano in un armadio-letto. La mattina era un mobile e la sera un letto. Io dormivo in mezzo. Venivano a citofonarmi per fare le gare, intorno alle undici di sera, i miei genitori non sapevano niente. Mi affacciavo... I miei fratelli arrabbiatissimi: “‘Cazzo fai? Devi dormire!” “Voi dormite!” La voce al citofono: “Pietro, è arrivata una Porsche targa da Brescia che ti vuole sfidare”. Falla aspettare, prendo pantaloncini e scarpe e scendo». Mennea scende le scale, arriva in strada, con quel fisico da cameriere meridionale, uno scattista da pizzeria.
La memoria di Mennea è un autodromo fatto in casa. «Sfida sui 50 metri. A motore spento, si partiva uguali. Se la macchina chiedeva di partire con il motore acceso, allora avevo 10 metri di vantaggio.» Niente medaglie, ma moneta. «Mi davano 500 lire, siamo nel ‘67. Con quei soldi compravo il panino alle undici e qualcosa a scuola, andavo al cinema e poi mi restava da spendere per il fine settimana.» Ragazzini e motori. «Altre chiamate. Ricordo un’Alfa Romeo 1750 sprint, rossa... ho cominciato così, con queste sfide qui... poi c’è stato un arrivo al fotofinish... è arrivata la polizia e ho smesso con le sfide alle auto per fare le prime gare.»
Messico, Olimpiadi del 1968. Tommie Smith al centro, John Carlos a destra, mostrano il pugno guantato di nero.Il sogno di Mennea ha il colore dei black rockets di oggi, missili in pista. Nero. Ciak, si corre. «Vidi in tv nel ‘68 la finale olimpica dei duecento metri in Messico. Vinse Tommie Smith, quello del pugno nero. E mi sono detto: “Mah... perché non provare a inseguire il sogno di Tommie Smith: record del mondo e vittoria alle Olimpiadi”. È scattato là l’inseguimento, avevo sedici anni. E ho superato il record di Tommie Smith, nello stesso posto, undici anni dopo, undici centesimi in meno. Sono combinazioni. Potevano essere dodici centesimi, no: undici. Potevano essere tredici anni, no: undici. Stessa pista, stesso impianto.»
Combinazioni. Messico City, alta quota, record del mondo. Un bianco povero d’Italia supera un nero povero d’America. Boato. Pensieri. «Quando ho tagliato il traguardo ho pensato alla famiglia. Pubblicamente tu puoi fare tutte le dichiarazioni che vuoi... ma c’è poco da fare: noi giriamo il mondo, arriviamo, ricopriamo ruoli, ma poi alla fine si torna là.» Nel luogo dove tutto comincia. A casa. Dalle labbra di Pietro Paolo fioriscono parole che battono il tempo del cuore: «Mamma, sto seguendo sempre l’insegnamento che mi hai dato. Papà, correrei ancora per te». Un eterno nuovo inizio. «Ho cominciato così. Corsa alle macchine. Trasferimento a Formia. E inseguimento di qualcosa che non avevo.» Si chiama fame. «Sì, è la fame. E senza quella fame non vai da nessuna parte. Ecco perché Steve Jobs ci fa un baffo. Deve venire lui a dirci che dobbiamo essere arrabbiati... mah, c’abbiamo una rabbia noi addosso... non perché siamo nati arrabbiati, ma perché il contesto era quello. Non avevamo niente, neppure da mangiare. I miei pantaloni da corsa me li ha cuciti mio padre... li conservo ancora, non mi vanno neppure nel braccio adesso... siamo partiti da zero. E quel partire da zero ci ha dato poi la carica per fare bene. E sicuramente, se non avessi fatto l’atletica, avrei fatto qualche altra cosa.» L’Ultimo Bianco è stato un velocista atipico. E se lo proiettiamo sul presente, se pensiamo a cosa sfreccia in pista, ne afferriamo la carica. La rivoluzione della struttura fisica e dei materiali è stata importante anche in un mondo apparentemente «primitivo» e impermeabile all’innovazione come quello della corsa. Dal 1979 a oggi invece tutto è mutato e Mennea descrive questo cambiamento con la visione di tutto, uomo, mezzi, materiali, contesto: «Sono cambiate molte cose, le piste, il fisico degli atleti. Ricordo la mia generazione: il russo Valerij Borzov, lo stesso Don Quarrie, giamaicano come Usain Bolt, erano più bassi rispetto a Bolt, io pesavo 69 chili ed ero alto appena un metro e ottanta. Gli atleti oggi hanno dieci centimetri in più di altezza e dieci chili in più di peso. Tutto cambia, tutto si evolve. Un contributo al rendimento e al superamento dei limiti è dovuto anche alle piste. Usain Bolt è un velocista come Tommie Smith, ma rispetto a lui è più potente. Oggi le barriere da abbattere sono 9,5 nei 100 metri e i 19 nei 200. E credo che possa essere lui in futuro ad abbatterle. Bolt diventerà il più grande velocista della storia».
Leggende dello sprint. Pietro Mennea e Tommie Smith (Foto Ansa).Il problema è che sulla scia di un razzo come Bolt, trent’anni dopo, c’è sempre lui, Mennea. «Se fossi in pista oggi? Non farei niente di diverso rispetto a quando correvo. Prendete il mio record del mondo, a distanza di trent’anni: se fossi stato in gara a Berlino o a Pechino, sarei arrivato secondo». Le leggende finiscono nei musei, a Mennea è toccato in sorte di organizzerselo da solo, il museo. Fa parte del patrimonio della sua fondazione: 300 coppe, cimeli e trofei, medaglie. La lista è infinita, ma per capire chi è Pietro Paolo bisogna immaginarselo, con il presidente Sandro Pertini che gli regala una scatola o il re Umberto che gli dona gemelli, portachiavi e portasoldi. Ecco, è l’attenzione al dettaglio che fa di Mennea uno strano italiano. Non accumula semplicemente i ricordi, le imprese, gli oggetti. Ma li riordina, li classifica, li espone. La vittoria progettata in pista, prosegue la sua corsa anche nella vita. In quell’uomo c’è del metodo e quel pizzico di follia che serve a pensare che niente è impossibile, ogni traguardo è raggiungibile e migliorabile.
L’impresa del record del mondo a Città del Messico e la medaglia olimpica di Mosca sono il frutto di una visione che parte da lontano, un progetto che viene portato avanti nel tempo senza mai cedere, con lo sguardo sui numeri fondamentali per la costruzione di un Campione Immortale: «Mancava ancora un record mondiale e l’oro olimpico per far sì che la mia carriera agonistica potesse considerarsi completa». In meno di un anno Mennea centra il suo obiettivo. La sua missione è un viaggio lungo, una traversata. Pietro Paolo conquista l’oro olimpico a Mosca nel 1980 nella gara dei 200 metri dopo aver partecipato a tre campionati europei (Helsinki 1971, Roma 1974, Praga 1978) e due olimpiadi (Monaco 1972 e Montréal 1976). La sua partenza nel calendario della vittoria segna «agosto 1971», un’era in cui i 100 e 200 metri erano dominati dal sovietico Valerij Borzov, atleta ammirato da Mennea, che in quei campionati europei conquistò la medaglia di bronzo con la staffetta 4x100. Mennea taglia traguardi a raffica, ma non punta al risultato singolo, costruisce il suo romanzo avendo bene in mente il momento culminante, quello che consegna un nome alla Storia: l’oro di Mosca.
Stadio Lenin di Mosca, 28 luglio 1980. Ore 20.09. L’Ultimo Bianco è il recordman mondiale. Ora è a caccia della medaglia d’oro in un’olimpiade.
«Bang!»
«Ecco, buono l’avvio. Parte più svelto Wells nei confronti di Mennea che lo supera subito. Ecco vedete, lotta lotta, spalla a spalla tra Wells e Mennea. È al comando attualmente l’inglese, poi si distende anche Quarrie. Mennea cerca di recuperare... cerca di recuperare... recupera! recupera! recupera! recupera! Ha vinto! Ha vintooo! Straordinaria impresa di Mennea!»
La voce di Paolo Rosi entra nelle case degli italiani. È l’esplosione di gioia di un giornalista che conosce sport e fatica, un grande ex rugbysta della Roma che divenne telecronista in un concorso con altre due voci e volti della Rai destinati a diventare storia del giornalismo: Tito Stagno e Adriano De Zan. Altri tempi anche per la Rai. I giorni della «straordinaria impresa di Mennea». L’oro di Mosca. Mennea è in ottava corsia. L’inglese Allan Wells è in settima. «Spalla a spalla.» Wells aveva appena vinto i 100 metri in 10,25, davanti al cubano Silvio Leonard e al bulgaro Petar Petrov. Nei quarti di qualificazione per la finale dei 200 metri il britannico aveva fatto segnare un 20,59, che Mennea aveva eguagliato nel suo turno. In semifinale Leonard si era imposto su Petrov e Mennea su Quarrie. La gara, con queste premesse, era destinata a diventare un combattimento corpo a corpo.
Nel sorteggio dei posti di partenza per la finale, Mennea finisce all’esterno, in ottava corsia e alla sua sinistra si ritrova Wells, mentre Quarrie parte in quarta corsia e Leonard è all’interno, in prima corsia. Mennea è solo alla sua destra. Leonard solo alla sua sinistra. In mezzo, una sfida a tutta velocità. Una gara incredibile, non solo per il prodigioso recupero di Mennea, ma per l’intensità complessiva sprigionata dai primi quattro velocisti nei metri finali. Tra Mennea e Wells ci sono due centesimi di secondo, ma tra Quarrie e Leonard il distacco è addirittura di un solo centesimo. L’Ultimo Bianco batte un altro bianco, due neri dei Tropici inseguono.
L’oro di Mosca è la caccia al tesoro che finisce bene. Ricorda Mennea: «Il traguardo per cui io ho cominciato a fare questa attività, il sogno raggiunto. Avevo vinto nel ‘78 a Praga il campionato d’Europa, avevo stabilito il record mondiale a città del Messico, avevo vinto il mondiale; dopo l’oro a Mosca, non ce la facevo più, ero svuotato. Insegui insegui insegui, è naturale che ti stanca mentalmente e fisicamente. Ero stanco. E smisi di correre. Se avessi avuto una classe dirigente all’altezza, mi avrebbero dovuto dare un po’ di mesi di riposo per poi farti tornare con la dovuta carica. Una volta mi intervistò Tosatti e mi chiese: “Perché smetti proprio quando devi raccogliere economicamente quello che hai seminato? Record del mondo, gli europei, olimpiade”. Gli risposi: “Sono quindici anni che bevo acqua minerale, ma non gassata, naturale. Ora voglio provare a bere per quindici anni acqua minerale gassata, per poi passare alla birra”. Lui si mise a ridere. Io, volendo essere onesto con me stesso e il mio mondo, ho perso una barca di soldi. Quando tu hai per le mani un atleta come me, un atleta che hai spremuto abbastanza, prima o poi lo devi fermare. È un fatto fisiologico. Là bastava poco, bastava caricare le batterie. Se mi sento tradito? Quello passava il convento».
L’Ultimo Bianco. Dopo sarà sempre Black Power. Los Angeles nel 1984 sarà di Carl Lewis; a Seul nel 1988 vince Ben Johnson (ma viene squalificato perché positivo all’antidoping e la medaglia torna ancora a Lewis); a Barcellona nel 1992 Michael Marsh vince i 200 e Linford Christie i 100; ad Atlanta nel 1996 i 100 metri saranno predati da Donovan Bailey, mentre i 200 vengono dominati da Michael Johnson; a Sidney nel 2000 Maurice Greene fa vedere la polvere a tutti nei 100 metri. L’impero nero-americano si espande nel 2004 ad Atene con Justin Gatlin sui 100 metri e Shawn Crawford nei 200 metri. Nel 2008 a Pechino comincia l’era di Usain Bolt: primo nei 100 e 200 metri.
Gli italiani sono spariti dalla corsa, i bianchi si sono estinti dalla velocità e Pietro Paolo ha una sua spiegazione che fila come un treno: «Il problema dell’assenza di velocisti non è solo italiano, ma riguarda l’Europa in generale. Basta guardare i blocchi di partenza della finale dei 100 metri: erano tutti atleti di colore. Il vecchio continente paga una crisi e una decadenza sociale che frusta le ambizioni dei più giovani. I ragazzi sono meno interessati allo sport, si prefiggono altri obiettivi».
Quando gli dici che è l’Ultimo Bianco, Mennea sorride, poi ci pensa su e capisci che la sua mente è già scattata dai blocchi di partenza verso una dimensione dove si intrecciano passato e futuro. Ma nel pianeta della velocità nera Mennea vede l’imprevisto della storia, un altro Pietro Paolo che spunta dalla curva. «Il campione può nascere ovunque, anche nella velocità. Perché nessuno credeva ai miei risultati? Perché noi al Sud al pomeriggio andiamo a dormire, facciamo la pennichella. Poi ci piace la vita calma, i nostri genitori bevono vini forti che sporcano i bicchieri. E l’esistenza se la prendono tranquilla. Nessuno va di fretta. E allora uno si chiede: come fa a nascere un velocista al Sud? Cosa è successo? Invece no, il campione può nascere ovunque.» Nello sport c’è il traguardo, ma nella vita no: la vita è una corsa senza fine. «No, non c’è traguardo. Devo ancora fare un sacco di cose. La corsa non finisce mai e non ci sarà un traguardo finale. Perché il traguardo lo sposti sempre in avanti.» L’Italia taglierà il traguardo? «Se non cambia la cultura dell’italiano, non ce la fa, ed è un grosso peccato perché dobbiamo essere orgogliosi del posto dove siamo nati. Difendere l’Italia quando qualcuno la vuole bistrattare e denigrare perché è un grande Paese.»
***
Pietro mi chiamò qualche mese dopo, all'inizio del 2013, in una fase scartavetrata della mia vita. Mi disse: "Mario, di qualsiasi cosa tu abbia bisogno, io ci sono". Il 13 marzo di quell'anno morì. Non mi aveva detto niente del suo male, sorrideva, era carico di vita, mi trasmise la forza per continuare a inseguire i sogni. Andai alla camera ardente, salone d'onore del Foro Italico, restai in silenzio, smarrito, un dolore stanco. Ripresi a correre, ero di nuovo sulla pista della vita. Ecco perché Jacobs, figlio di un'Italia che suda, con la biografia a zig zag e la corsa dritta come una freccia, ha ricordato l'impresa di Mennea, al velocista di Barletta si ispira chi vince con talento e fatica. Ecco perché siamo un grande Paese. Queste vittorie, Wembley e Tokyo, sono una ritrovata e rinnovata Italia.
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4.6 Eventuali eccezioni al diritto di recesso, ove previste da Codice del consumo – decreto legislativo 6
settembre
2005, n. 206, saranno comunicate al consumatore in sede di offerta prima dell'acquisto.
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7.2 L'Utente si impegna al pagamento del corrispettivo in favore del Fornitore nella misura e con le
modalità definite
nei precedenti articoli.
7.3 L'Utente si impegna ad utilizzare l'Abbonamento e i suoi contenuti a titolo esclusivamente personale, in
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collettiva e senza scopo di lucro; l'Utente è inoltre responsabile per qualsiasi uso non autorizzato
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7.4 La violazione degli obblighi stabiliti nel presente articolo conferisce al Fornitore il diritto di
risolvere
immediatamente il contratto ai sensi dell'articolo 1456 del codice civile, fatto salvo il risarcimento dei
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8. Tutela della proprietà intellettuale e industriale
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8.2 Tutti i diritti sono riservati in capo ai titolari; l'Utente accetta che l'unico diritto acquisito con
il contratto
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elaborazione dei
contenuti è espressamente vietata.
8.3 La violazione degli obblighi stabiliti nel presente articolo conferisce al Fornitore il diritto di
risolvere
immediatamente il contratto ai sensi dell'articolo 1456 del codice civile, fatto salvo il risarcimento dei
danni.
9. Manleva
9.1 L'Utente si impegna a manlevare e tenere indenne il Fornitore contro qualsiasi costo – inclusi gli
onorari degli
avvocati, spesa o danno addebitato al Fornitore o in cui il Fornitore dovesse comunque incorrere in
conseguenza di usi
impropri del Servizio da parte dell'Utente o per la violazione da parte di quest'ultimo di obblighi
derivanti dalla
legge ovvero dai presenti termini d'uso.
10. Limitazione di responsabilità
10.1 Il Fornitore è impegnato a fornire un Servizio con contenuti professionali e di alta qualità; tuttavia,
il
Fornitore non garantisce all'Utente che i contenuti siano sempre privi di errori o imprecisioni; per tale
motivo,
l'Utente è l'unico responsabile dell'uso dei contenuti e delle informazioni veicolate attraverso di
essi.
10.2 L'Utente riconosce e accetta che, data la natura del Servizio e come da prassi nel settore dei servizi
della
società dell'informazione, il Fornitore potrà effettuare interventi periodici sui propri sistemi per
garantire o
migliorare l'efficienza e la sicurezza del Servizio; tali interventi potrebbero comportare il rallentamento
o
l'interruzione del Servizio. Il Fornitore si impegna a contenere i periodi di interruzione o rallentamento
nel minore
tempo possibile e nelle fasce orarie in cui generalmente vi è minore disagio per gli Utenti. Ove
l'interruzione del
Servizio si protragga per oltre 24 ore, l'Utente avrà diritto a un'estensione dell'Abbonamento per un numero
di giorni
pari a quello dell'interruzione; in tali casi, l'Utente riconosce che l'estensione dell'Abbonamento è
l'unico rimedio in
suo favore, con la conseguente rinunzia a far valere qualsivoglia altra pretesa nei confronti del
Fornitore.
10.3 L'Utente riconosce e accetta che nessuna responsabilità è imputabile al Fornitore:
- per disservizi dell'Abbonamento derivanti da malfunzionamenti di reti elettriche e telefoniche ovvero di
ulteriori
servizi gestiti da terze parti che esulano del tutto dalla sfera di controllo e responsabilità del Fornitore
(per
esempio, disservizi della banca dell'Utente, etc...);
- per la mancata pubblicazione di contenuti editoriali che derivi da cause di forza maggiore.
10.4 In tutti gli altri casi, l'Utente riconosce che la responsabilità del Fornitore in forza del contratto
è limitata
alle sole ipotesi di dolo o colpa grave.
10.5 Ai fini dell'accertamento di eventuali disservizi, l'Utente accetta che faranno fede le risultanze dei
sistemi
informatici del Fornitore.
11. Modifica dei termini d'uso
11.1 L'Abbonamento è disciplinato dai termini d'uso approvati al momento dell'acquisto.
11.2 Durante il periodo di validità del contratto, il Fornitore si riserva di modificare i termini della
fornitura per
giustificati motivi connessi alla necessità di adeguarsi a modifiche normative o obblighi di legge, alle
mutate
condizioni del mercato di riferimento ovvero all'attuazione di piani aziendali con ricadute sull'offerta dei
contenuti.
11.3 I nuovi termini d'uso saranno comunicati all'Utente con un preavviso di almeno 15 giorni rispetto alla
scadenza del
periodo di fatturazione in corso ed entreranno in vigore a partire dall'inizio del periodo di fatturazione
successivo.
Se l'Utente non è d'accordo con i nuovi termini d'uso, può esercitare la disdetta secondo quanto previsto al
precedente
articolo 3.
11.4 Ove la modifica dei termini d'uso sia connessa alla necessità di adeguarsi a un obbligo di legge, i
nuovi termini
d'uso potranno entrare in vigore immediatamente al momento della comunicazione; resta inteso che, solo in
tale ipotesi,
l'Utente potrà recedere dal contratto entro i successivi 30 giorni, con il conseguente diritto ad ottenere
un rimborso
proporzionale al periodo di abbonamento non goduto.
12. Trattamento dei dati personali
12.1 In conformità a quanto previsto dal Regolamento 2016/679 UE e dal Codice della privacy (decreto
legislativo 30
giugno 2003, n. 196), i dati personali degli Utenti saranno trattati per le finalità e in forza delle basi
giuridiche
indicate nella privacy policy messa a disposizione dell'Utente in sede di registrazione e acquisto.
12.2 Accettando i presenti termini di utilizzo, l'Utente conferma di aver preso visione della privacy policy
messa a
disposizione dal Fornitore e di averne conservato copia su supporto durevole.
12.3 Il Fornitore si riserva di modificare in qualsiasi momento la propria privacy policy nel rispetto dei
diritti degli
Utenti, dandone notizia a questi ultimi con mezzi adeguati e proporzionati allo scopo.
13. Servizio clienti
13.1 Per informazioni sul Servizio e per qualsiasi problematica connessa con la fruizione dello stesso,
l'Utente può
contattare il Fornitore attraverso i seguenti recapiti: help@newslist.it
14. Legge applicabile e foro competente
14.1 Il contratto tra il Fornitore e l'Utente è regolato dal diritto italiano.
14.2 Ove l'Utente sia qualificabile come consumatore, per le controversie comunque connesse con la
formazione,
esecuzione, interpretazione e cessazione del contratto, sarà competente il giudice del luogo di residenza o
domicilio
del consumatore, se ubicato in Italia.