Che succede? Il primo round di consultazioni di Mario Draghi si chiude con Matteo Salvini che apre "senza condizioni" al governo istituzionale e i Cinque Stelle che non potendo dire no, non riescono a dire neanche pienamente sì.
La mossa di Salvini spiazza chi è privo di fantasia, vive di schemi ideologici e non conosce bene la storia della Lega. Salvini ha incontrato Draghi con il tavolo apparecchiato e le due portate principali ben cotte (crescita economica e interesse nazionale) e aprendo al sostegno all'esecutivo dell'ex presidente della Banca centrale europea ha fatto una scelta che ha (ri)messo la Lega al suo posto, quello di un partito di governo che da trent'anni guida le Regioni più avanzate del paese e oggi ne amministra 14 su 20, nell'euro e con l'euro. La Lega è un tassello importante della mappa parlamentare e l'apertura di Salvini al governo Draghi è una svolta nella storia contemporanea della politica italiana.
È bene ricordare che la Lega è il partito più longevo presente in questo sgangherato Parlamento italiano (è stata fondata nel 1989), è anche l'unica formazione che mantiene un'organizzazione, una disciplina e preparazione di gruppo sconosciuta agli altri. Piaccia o meno, il "draghismo" di Salvini è una buona notizia perché aiuta l'esecutivo a nascere secondo quanto auspicato dal presidente Sergio Mattarella:
Avverto, pertanto, il dovere di rivolgere un appello a tutte le forze politiche presenti in Parlamento perché conferiscano la fiducia a un Governo di alto profilo, che non debba identificarsi con alcuna formula politica.
Questo è lo spirito con cui deve prendere vita il governo Draghi, ogni altra soluzione che tenti di deviarne la genesi, è un tradimento delle indicazioni del presidente della Repubblica. Fuori da questo schema, ci sono soltanto le elezioni, che in assenza di un'alternativa largamente condivisa dunque rappresentano sempre la via maestra.
Naturalmente c'era (e c'è ancora) chi si stava preparando a mandare tutto in frantumi. E per questo la mossa di Salvini ha fatto saltare i piani per coprire con il nome di Draghi un'operazione gattopardesca: fallito il Conte Ter, metto dentro Forza Italia e vado avanti come prima più di prima. Era lo schema immaginario del Pd, saltato come tutte le pentole che sono finite nella cucina dem.
Mario Draghi incontra alla Camera Matteo Salvini e i capigruppo della Lega (Foto Ansa).
Il disegno ancora emerge nelle mezze frasi di alcuni politici, nell'uso ambiguo della parola "perimetro" (l'ha pronunciata Conte e non a caso, come vedremo) per sottolineare che bisogna tracciare dei confini, mettere dei paletti, erigere palizzate. Dunque l'idea di lasciar fuori la Lega non è affatto accantonata, ma a questo punto risulta molto complicato farlo per tre ragioni:
1. Bisogna dire no a Salvini (che ha detto sì, senza porre condizioni) e questo rifiuto sarebbe incomprensibile, anti-democratico, contrario all'appello fatto dal capo dello Stato;
2. Il rifiuto alla mano tesa di Salvini sarebbe una formidabile arma in mano al leader leghista per condurre una campagna elettorale vincente;
3. Un governo che si propone di ricostruire il paese non può nascere senza il contributo del primo partito italiano.
Salvini da oggi è in una posizione "win win". Questa è la forza della sua mossa. Siamo all'ovvio dei popoli, ma è bene ribadirlo perché c'è chi si agita e l'obiettivo reale non è quello di mettere fuori gioco Salvini, ma far colare a picco l'intera operazione del governo Draghi. Chi? Nel Palazzo sanno tutti che Giuseppe Conte fino alla vigilia della chiamata dell'ex governatore della Bce ha provato a far saltare il banco, ha dipinto Draghi come una minaccia (e non solo negli ultimi giorni), ha agitato il suo nome come quello di uno spaventapasseri, tanto si è prodigato nel sabotare il passaggio politico che - secondo quanto riporta il "Corriere della Sera" a firma di Francesco Verderami - proprio nel momento dell’incarico, mentre il presidente Mattarella lanciava un drammatico appello al paese, Conte stava "facendo di tutto” e telefonava al senatore Causin esortandolo a “tenere duro” sostenendo: “Ho il controllo del Movimento, non voteranno la fiducia a Draghi e io tornerò al governo”. Poi, magicamente, eccolo in piazza Colonna, a megafonare su un banchetto l'appoggio a Draghi.

Il banchetto del Conte (Foto Ansa).
Non è andata per ora come voleva Conte, il quale è già nei panni di un altro personaggio: prima sovranista pentastellato, poi europeista in progress, ora draghista in pochette. Il campione del trasformismo, Conte. La sua è una storia che (forse) non finisce qua, perché l'ex premier ha un problema che non si può certo nascondere, si vede e fa tic tac: il tempo. Aveva due opzioni: restare in sella o andare al voto. È arrivato Draghi. Ha perso la poltrona e non si vota. Ha fallito proprio dove credeva di saperla lunga, la politica. Infilzato da Renzi e dalla sua incapacità di comprendere la trama e l'ordito del Palazzo. Finché si comportava come un potere monocratico, ha giocato facile entrando e uscendo dai social, senza mai essere politico, consumando ben due governi di segno contrario. Ora è un uomo che fa piani per spezzare il tempo della sua attesa nell'ombra. Perché più giorni passano senza lo charme della poltrona, più il pubblico (egli cerca spettatori, prima di tutto) si dimentica della sua figura; più scende la cappa dell'oblìo, più la sua brillante carriera dallo zero a tutto va verso il tramonto. Conte ha bisogno di un palcoscenico, deve casalinizzare qualcosa, proseguire l'incantesimo del nulla che parla di nulla, continuare a raccontare la storia dello statista mentre in realtà è un instagram-populista.
Si è consumato nel vuoto, tenta di riaccendersi con lo stesso vuoto. Non per niente i Cinque Stelle si dilaniano anche sul suo nome, ecco dunque balenare il dibattito sulla sua leadership pentastellata (anche questa votata da nessuno), sul suo prossimo incarico di governo (di cui Draghi non ha mai parlato con nessuno), sul suo contributo decisivo alla pax draghiana (e in realtà lavorava per finirlo in culla). Lo storytelling di Conte è un fantasy con le chiavi al contrario.
Cinque Stelle da Draghi. Al centro, Beppe Grillo. Alla sua destra, Vito Crimi (Foto Ansa).
Sul tavolo di questa storia resta la polvere di stelle del Movimento. Lacerato, con Beppe Grillo costretto ancora una volta a tenere insieme i cocci, Beppe Crimi che all'uscita dall'incontro con Draghi balbetta qualcosa che non è una linea ma il disperato origami di chi non riesce a dire la cosa più logica: non siamo più quelli del vaffa, non possiamo andare a votare, teniamo famiglia e in fondo ci piace anche stare al governo. Non c'è niente di male, si chiama età adulta, è quella che ti evita di finire affogato in un bicchier d'acqua, ma nel meraviglioso mondo dei pentastellati pretendono di restare tutti Peter Pan con l'indennità parlamentare. Che cosa accadrà? Non vogliono la Lega in maggioranza (dopo averci fatto un governo), pensano che Conte sia insostituibile (ma volano i coltelli se si parla di una sua leadership nel partito), hanno detto mai più con Renzi (e poi erano pronti a farci un picnic insieme), sono dilaniati, forse qualcuno non voterà Draghi, ma alla fine saranno là, quelli dell'anti-casta, tutti insieme appassionatamente al tavolo del migliore su piazza, il campione dell'establishment di cui hanno bisogno per salvare ste stessi. Siamo in pieno contrappasso dantesco, una meraviglia politico-letteraria.
Al centro del maelstrom, il Partito democratico. Polverizzato da una strategia sbagliata fin dalle premesse, messo all'angolo dall'eccezionale capacità di movimento di Renzi, continua nonostante questa dura sconfitta a essere un elemento fondamentale del sistema, ne va recuperato il senso politico, la missione. Ammesso che i suoi dirigenti colgano il nuovo contesto innescato dalla chiamata di Mario Draghi.
Nicola Zingaretti e la delegazione del Pd durante le consultazioni al Quirinale (Foto Ansa).
Nicola Zingaretti dovrebbe fare tesoro di quanto è successo: ha inseguito Conte fino all'estrema unzione, si è ritrovato Draghi che saliva al Quirinale e ora non può far altro - giustamente - che appoggiarlo, per senso di responsabilità prima di tutto, per seguire correttamente la rotta del Quirinale e, sia chiaro, anche per mancanza di alternativa. Il Pd ha bisogno di ritrovarsi, ma se usa la cassetta degli attrezzi del pre-Draghi, finisce di nuovo fulminato. Di fronte all'apertura di Salvini il Pd è chiaramente spiazzato. La svolta del leader della Lega è evidente, la sua risposta a Draghi è una risposta all'appello di Mattarella "a tutte le forze politiche presenti in parlamento" e dire no alla Lega equivale e negare il messaggio del Presidente della Repubblica. Nella segreteria del Pd s'agita la domanda del compagno Lenin: che fare? Non potendo dire "niet" a Salvini, devono provare a immaginare un piano B. Qual è?
Il Pd potrebbe sostenere la tesi che la svolta di Salvini è puramente tattica, non di sostanza, volta solo a mettersi in una condizione di vantaggio politico (il che intanto equivale a dire che le menti lucide del Nazareno si sono parecchio offuscate, visto che non hanno saputo calcolare la mossa, fatto grave per dei professionisti della politica), dunque meglio non fidarsi di Salvini. E al netto dei problemi che questa linea aprirebbe nei confronti di Draghi e Mattarella.
In aggiunta a tutto questo, il Pd potrebbe anche sollevare il tema del collocamento della Lega in Europa, la sua vicinanza a Orban e Le Pen (e il primo va ricordato che fa parte del Ppe), insomma calare sul tavolo la "carta ideologica" delle famiglie politiche europee, tentare di ricostruire in Italia la dottrina "dell'arco costituzionale" intorno all'europeismo. Le dichiarazioni di Salvini però lo hanno già reso meno incisivo e va inoltre ricordato che il garante del format dell'esecutivo si chiama Mario Draghi, mister Euro, fa abbastanza sorridere pensare che la Lega possa inoculare il virus dell'euroscetticismo nel corpo dell'ex presidente della Bce, la cui caratura è ben più rilevante di quella di tutti i dirigenti del Pd messi insieme. Detto questo, un avvicinamento della Lega al Partito popolare europeo sarebbe più che logico, auspicabile, vista proprio l'accelerazione impressa da Salvini con le sue dichiarazioni sull'Europa e il governo Draghi e di certo questo addirittura innesca un processo probabilmente ineludibile, non sarebbe affatto sorprendente vederlo maturare nei prossimi mesi e anche su questo a sinistra potrebbero restare di nuovo spiazzati, con conseguenze ancora più grandi sul piano della competizione alle prossime elezioni. Salvini, piaccia o meno, ha messo in moto la macchina della storia del suo partito e i suoi avversari dovrebbero ricordare che di fronte alla scacchiera si è sempre in due, anche quando si gioca da soli si combattono fino alla morte (del re) l'Io e il suo doppio.
In ogni caso, fatte tutte queste considerazioni, resta un problema di sbocco politico. Quale? Il Pd potrebbe potrebbe proporre a Draghi il varo di un "governo tecnico", senza politici. Ma anche questa strada è piena di chiodi: sarebbe automaticamente chiudere la porta al "governo politico" di cui si parlava nel centrosinistra fino a ieri, quindi negare se stessi e mettere il Movimento Cinque Stelle in un'altra dimensione che fino a quel momento era stata scartata. Si dirà che non è la prima volta che il Pd si contraddice nelle ultime settimane, ma sarebbe sempre un'operazione di risulta, un ripiegamento, una fase difensiva incolore e dagli esiti imprevedibili. Dire a Draghi cosa fare, inoltre, significa di fatto indebolire il progetto (e di nuovo, l'iniziativa del Quirinale). Non solo, ma significa anche levare a Draghi prospettiva, tempo, durata. Il professore avrebbe mano libera nella scelta della squadra, ma in un quadro politico più incerto. I governi tecnici sono di nessuno, si tratterebbe di un'esperienza lontana da quella del governo Ciampi del 1993, rischierebbe di essere una tela dipinta da un grande autore a cui però mancano i chiodi e la cornice. Un'incognita che potrebbe sfociare in elezioni anticipate all'arrivo della prima burrasca (che ci sarà). Se il governo è tecnico, cadono i tecnici, non i politici, è il retropensiero del parlamento in questo scenario.
La speranza del Pd potrebbe anche essere quella di innescare un "no" di Salvini al governo tecnico, ma il rischio di restare infilzati per la terza volta è altissimo. Non avendo infatti posto alcuna condizione, Salvini può tranquillamente votare il governo tecnico e poi eventualmente differenziarsi nel corso della legislatura, i suoi voti peserebbero lo stesso e in caso di smottamento successivo del gruppo grillino (molto probabile), addirittura il peso leghista sarebbe accresciuto.
A dispetto di quel che molti pensano, i giochi sono tutti aperti, non è stata questa la giornata decisiva per la nascita del governo Draghi. Si è chiuso il primo giro di consultazioni e il quadro politico (tutto è politico, anche un governo tecnico) dell'esecutivo che verrà è ancora in via di composizione.
Draghi durante gli incontri con i leader dei partiti non ha mai svelato tutte le sue carte, ha dipinto lo scenario, il contesto, richiamato l'urgenza e la necessità, le ragioni che fondano il suo impegno, ma là si è saggiamente fermato. Immaginate la faccia di chi lo ha incontrato, persone abituate a ragionare con il manuale Cencelli in mano. E per questo che i partiti si muovono al buio, lo sceneggiatore è Draghi, il regista è Mattarella, il quale ha dato l'idea del soggetto. Se cade il soggetto, si va alle elezioni. E non sarà la sinistra a raccoglierne i migliori frutti, questo dicono i sondaggi.
Il programma del governo Draghi ha la strada già tracciata da due parole chiave - vaccinazione e ricostruzione - ma il format dell'esecutivo, la sua natura, la squadra di Palazzo Chigi, non hanno un disegno compiuto. In queste ore tutti sono al lavoro con squadra e compasso, ma va detto chiaramente che chi traccia il "perimetro" ha in mente un soggetto che non corrisponde a quello del Quirinale. È finita un'epoca e stanno prendendo male le misure.