14 Settembre
Mappa della guerra valutaria
I mercati in attesa della mossa della Federal Reserve di Powell. Il colpo di Draghi, la dura reazione della Germania, il paziente gioco della Cina, l'impaziente politica di Trump. Un giro di giostra di Gianclaudio Torlizzi nella battaglia globale della moneta
di Gianclaudio Torlizzi
È passato ormai poco più di un anno da quando gli Stati Uniti hanno ufficialmente dato il via alla guerra del container contro la Cina. Era precisamente il 6 luglio dello scorso anno quando Washington annunciò l’entrata in vigore di dazi al 25 per cento su 34 miliardi di prodotti cinesi. Una mossa, quella americana, che provocò l’immediata ritorsione di Pechino e contro-dazi equivalenti sull’import Usa. Quella prima ondata di dazi americani colpì 818 prodotti importati dalla Cina, dai veicoli elettrici ai torni industriali e altri componenti per macchinari impiegati dalle fabbriche negli Stati Uniti. I mercati finanziari, a dire il vero, avevano colto in anticipo quello che sarebbe diventato un game changer dell’ordine economico finanziario degli ultimi 40 anni. Il prezzo del rame, la cartina tornasole più affidabile circa lo stato di salute dell’economia mondiale, già 3 mesi prima l’annuncio ufficiale aveva iniziato a mostrare segnali che qualcosa non stava andando per il verso giusto (grafico in basso del contratto LME in USD/ton). Follow the money.
Lo scoppio della guerra dei container, com’era prevedibile, ha così progressivamente iniziato a riempire le pagine dei giornali: il coro di giornalisti e analisti era (e rimane) sostanzialmente unanime nell’accusare l’amministrazione americana di danneggiare il processo di globalizzazione che tanto ha giovato all’economia mondiale. In effetti da quel famoso 6 luglio la pressione americana verso la Cina è progressivamente aumentata come riassume la tabella elaborata da Goldman Sachs.
Tuttavia sarebbe riduttivo inquadrare il braccio di ferro tra Washington e Pechino solo all’interno dello squilibrio commerciale che continua a macinare record su record (grafico in basso sul passivo della bilancia commerciale Usa-Cina).
La posta in gioco è molto più alta e abbraccia questioni di carattere geopolitico (nuovo imperialismo cinese) e tecnologico (furto dei brevetti Usa da parte delle aziende cinesi, predominio sul 5G)...
di Gianclaudio Torlizzi
È passato ormai poco più di un anno da quando gli Stati Uniti hanno ufficialmente dato il via alla guerra del container contro la Cina. Era precisamente il 6 luglio dello scorso anno quando Washington annunciò l’entrata in vigore di dazi al 25 per cento su 34 miliardi di prodotti cinesi. Una mossa, quella americana, che provocò l’immediata ritorsione di Pechino e contro-dazi equivalenti sull’import Usa. Quella prima ondata di dazi americani colpì 818 prodotti importati dalla Cina, dai veicoli elettrici ai torni industriali e altri componenti per macchinari impiegati dalle fabbriche negli Stati Uniti. I mercati finanziari, a dire il vero, avevano colto in anticipo quello che sarebbe diventato un game changer dell’ordine economico finanziario degli ultimi 40 anni. Il prezzo del rame, la cartina tornasole più affidabile circa lo stato di salute dell’economia mondiale, già 3 mesi prima l’annuncio ufficiale aveva iniziato a mostrare segnali che qualcosa non stava andando per il verso giusto (grafico in basso del contratto LME in USD/ton). Follow the money.
Lo scoppio della guerra dei container, com’era prevedibile, ha così progressivamente iniziato a riempire le pagine dei giornali: il coro di giornalisti e analisti era (e rimane) sostanzialmente unanime nell’accusare l’amministrazione americana di danneggiare il processo di globalizzazione che tanto ha giovato all’economia mondiale. In effetti da quel famoso 6 luglio la pressione americana verso la Cina è progressivamente aumentata come riassume la tabella elaborata da Goldman Sachs.
Tuttavia sarebbe riduttivo inquadrare il braccio di ferro tra Washington e Pechino solo all’interno dello squilibrio commerciale che continua a macinare record su record (grafico in basso sul passivo della bilancia commerciale Usa-Cina).
La posta in gioco è molto più alta e abbraccia questioni di carattere geopolitico (nuovo imperialismo cinese) e tecnologico (furto dei brevetti Usa da parte delle aziende cinesi, predominio sul 5G) troppo spesso sottovalutate dagli osservatori in quanto non facilmente monetizzabili. In questi mesi di escalation della tensione tra le due superpotenze si continua a parlare del potenziale impatto negativo sulla crescita. Che chiaramente esiste, anche se non così in maniera così drammatica come viene spesso evidenziato. Come ben si vede nel grafico in basso, il rallentamento dell’economia mondiale in atto dal 2018 a oggi parte con il restringimento monetario delle banche centrali (Quantitative Tightening), che da alcuni mesi è stato sostituito con una nuova dose di stimoli monetari come promesso tra l’altro ieri dalla BCE.
A conferma di quanto il quadro macro venga drammatizzato eccessivamente giunge l’ultima World Economic Prospect di Oxford Economics secondo cui quest’anno la crescita mondiale si attesterà al 2,6%, mentre quella del 2020 al 2,5%. Certo, siamo sotto la soglia psicologica del 3% mantenuta nei scorsi anni, ma non siamo neppure in un clima da Armageddon.
Non solo: la guerra commerciale non pare neppure abbia fatto molto per riequilibrare il surplus commerciale cinese nei confronti del resto del mondo che continua a attestarsi a quasi mille miliardi di dollari (grafico in basso). Questo perché il calo dell’import dagli Usa (-36,6 miliardi di USD nei primi 9 mesi del 2019) è stato compensato dall’incremento dell’import dal Messico (+12,5), dal Vietnam (+9), Taiwan (+5.2) e Francia (+4.3).
Lo scoppio della trade war non ha aiutato ma, più che la guerra commerciale, a sortire l’effetto negativo sull’economia mondiale è stata l’utilizzazione da parte del presidente Donald Trump del dollaro come arma di pressione geopolitica. Weaponization of US Dollar.
L’elemento cardine su cui ruota tale politica è stata la riforma fiscale varata da Trump nel 2018 che ha messo in condizione gli Stati Uniti di poter sostenere un periodo di contrapposizione con Pechino (già fiaccata per il doloroso e lungo processo di smaltimento degli eccessi creditizi inaugurato nel 2012) potendo contare su un sostanzioso buffer di liquidità. Questo perché il primo risultato ottenuto dal pacchetto fiscale è stato il rimpatrio dei profitti prodotti all’estero da parte delle imprese americane che nel 2018 hanno raggiunto i 776 miliardi di dollari.
La manovra condotta dall’amministrazione repubblicana ha dato i suoi frutti: non solo perché ha dato sostegno all’economia Usa, che a oggi è una delle poche che continua a crescere con un tasso reale del 2% (malgrado gli allarmi di recessione imminente, privi alcun fondamento), ma anche perché ha prodotto una fuga di capitali dai paesi finiti nel mirino degli Usa, Cina in primo luogo, creando così carenza di liquidità sul mercato interno e quindi di domanda.
È proprio in questo senso che si spiega la recente decisione di Pechino di eliminare le restrizioni per gli investitori stranieri qualificati nel suo mercato dei capitali. Sarebbe però una forzatura pensare che il processo di de-globalizzazione sia stato inaugurato da Trump. Il forte aumento dei salari in Cina accompagnato dal processo di robotizzazione già da alcuni anni sta spingendo le multinazionali a rivedere la linee di produzione. Non è un caso se dal 2013 si stia assistendo a un generale deprezzamento delle valute dei paesi emergenti, proprio a testimonianza di quanto l’era della piattaforma produttiva a basso costo, lontana dal mercato di vendita di riferimento, stia volgendo al termine. Nel grafico in basso, estrapolato da un report di Goldman Sachs, si evidenzia come la Cina abbia assistito a un raddoppio del costo del lavoro unitario dal 2001 al 2017.
Con queste premesse verrebbe dunque da dichiarare gli Stati Uniti vincitori del braccio di ferro commerciale. Purtroppo per Washington le cose non stanno andando secondo i piani. Malgrado stia soffrendo in maniera evidente, l’economia cinese sta tenendo botta al di là delle aspettative americane.
La carta vincente di Pechino è stata quella di accompagnare al calo dell’export verso gli Usa la riduzione delle importazioni: una dinamica, questa, in parte subita e in parte voluta al fine di alimentare la fase di decelerazione dell’economia asiatica ed europea fortemente dipendenti dall’import di Pechino da cui però dipende il 30% dei profitti delle aziende quotate sull’S&P 500. La scommessa dei cinesi è chiara: produrre un avvitamento di Wall Street al fine di ostacolare i sogni di rielezione di Trump. Riuscirà Pechino nell’impresa? Per il momento sembrerebbe di no: l’S&P500 si mantiene alto, prossimo a testare i massimi storici toccati lo scorso mese di luglio a 3029 punti. Ma il selling (grafico in basso) avvenuto a cavallo delle festività natalizie nel 2018 (cavalcato secondo alcuni da fondi speculativi cinesi) ci ricorda che gli scenari possono cambiare molto velocemente.
Molto chiaramente dipenderà da quello che farà la Federal Reserve il cui verdetto di politica monetaria è atteso mercoledì prossimo. I mercati continuano a scommettere su un nuovo taglio ai tassi di interesse malgrado non se sussistano le condizioni oggettive in ragione delle crescenti pressioni sui salari ma soprattutto dell’attuale fase rialzista di Wall Street (che rimane il vero riferimento di politica monetaria per la banca centrale Usa, anche se è molto politically incorrect scriverlo).
Trump questo lo sa e non manca di attaccare ripetutamente su Twitter il presidente della Fed, Jerome Powell, colpevole a suo giudizio di non abbassare ulteriormente il costo del denaro per frenare l’apprezzamento del dollaro Usa sui mercati, dando così un’ulteriore spinta alla borsa Usa e partecipando in pieno alla nascente guerra valutaria tra le principali aree economiche mondiali, Europa in primo luogo. Una richiesta, questa, decisamente velleitaria in quanto il dollaro rimane forte sui mercati proprio per la divergenza di performance tra economia Usa e resto del mondo e quindi anche per effetto della politiche trumpiane.
La tattica di Trump finora è stata quella di forzare la mano della banca centrale Usa costringendola di fatto a mutare politica monetaria in senso espansivo, mantenendo alta la tensione con la Cina. Ma proprio la tenuta dell’economia Usa determinata dagli effetti del pacchetto di stimolo fiscale rende (almeno fino a oggi) non solo inutile ma anche rischiosa una nuova dose di allentamento monetario. Ecco dunque che lo scenario che si fa più probabile (secondo chi scrive, naturalmente) è quello di una concessione a metà da parte di Powell sulla falsariga di quanto fatto da Draghi ieri. Tagliare magari ancora una volta i tassi accompagnandoli da un comunicato meno dovish delle attese al fine di gestire la bolla che attualmente insiste sul comparto dei bond.
Il sentiero di ‘cerchiobottismo’ monetario rimane tuttavia pieno di insidie. Se ne è reso conto proprio il presidente della BCE Mario Draghi rappresentato ieri dalla Bild come un vampiro pronto a succhiare i soldi del popolo tedesco.
Insomma, sebbene sia considerato il banchiere centrale con le migliori capacità comunicative a livello mondiale, stavolta anche Draghi rischia di non vincere quest’ultima sfida, guastando il processo di canonizzazione dei mass media nei suoi confronti.
Al momento, se i mercati non hanno ancora reagito negativamente al QE versione light di Draghi è perché si attende il prossimo responso di politica monetaria della Federal Reserve in agenda mercoledì prossimo. Ma se anche l’istituto di Washington dovesse proseguire lungo questo sentiero, è probabile che gli investitori diano il via liberi tutti. Il rischio a quel punto si sposterebbe nell’immediato su Trump il quale potrebbe essere costretto a dover accettare un accordo con Pechino molto meno favorevole di quanto finora è stato ‘venduto’ all’opinione pubblica americana. Per l’Europa invece un’escalation di tensione sui mercati finanziari potrebbe spingere la Germania a utilizzare parte del surplus di bilancio per finanziare la domanda interna, concedendo un poco più flessibilità al tempo stesso all’Italia. Insomma è probabile che Berlino voglia vedere scorrere altro sangue prima di cedere alle pressioni. It will get worse before it gets better.
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legge ovvero dai presenti termini d'uso.
10. Limitazione di responsabilità
10.1 Il Fornitore è impegnato a fornire un Servizio con contenuti professionali e di alta qualità; tuttavia,
il
Fornitore non garantisce all'Utente che i contenuti siano sempre privi di errori o imprecisioni; per tale
motivo,
l'Utente è l'unico responsabile dell'uso dei contenuti e delle informazioni veicolate attraverso di
essi.
10.2 L'Utente riconosce e accetta che, data la natura del Servizio e come da prassi nel settore dei servizi
della
società dell'informazione, il Fornitore potrà effettuare interventi periodici sui propri sistemi per
garantire o
migliorare l'efficienza e la sicurezza del Servizio; tali interventi potrebbero comportare il rallentamento
o
l'interruzione del Servizio. Il Fornitore si impegna a contenere i periodi di interruzione o rallentamento
nel minore
tempo possibile e nelle fasce orarie in cui generalmente vi è minore disagio per gli Utenti. Ove
l'interruzione del
Servizio si protragga per oltre 24 ore, l'Utente avrà diritto a un'estensione dell'Abbonamento per un numero
di giorni
pari a quello dell'interruzione; in tali casi, l'Utente riconosce che l'estensione dell'Abbonamento è
l'unico rimedio in
suo favore, con la conseguente rinunzia a far valere qualsivoglia altra pretesa nei confronti del
Fornitore.
10.3 L'Utente riconosce e accetta che nessuna responsabilità è imputabile al Fornitore:
- per disservizi dell'Abbonamento derivanti da malfunzionamenti di reti elettriche e telefoniche ovvero di
ulteriori
servizi gestiti da terze parti che esulano del tutto dalla sfera di controllo e responsabilità del Fornitore
(per
esempio, disservizi della banca dell'Utente, etc...);
- per la mancata pubblicazione di contenuti editoriali che derivi da cause di forza maggiore.
10.4 In tutti gli altri casi, l'Utente riconosce che la responsabilità del Fornitore in forza del contratto
è limitata
alle sole ipotesi di dolo o colpa grave.
10.5 Ai fini dell'accertamento di eventuali disservizi, l'Utente accetta che faranno fede le risultanze dei
sistemi
informatici del Fornitore.
11. Modifica dei termini d'uso
11.1 L'Abbonamento è disciplinato dai termini d'uso approvati al momento dell'acquisto.
11.2 Durante il periodo di validità del contratto, il Fornitore si riserva di modificare i termini della
fornitura per
giustificati motivi connessi alla necessità di adeguarsi a modifiche normative o obblighi di legge, alle
mutate
condizioni del mercato di riferimento ovvero all'attuazione di piani aziendali con ricadute sull'offerta dei
contenuti.
11.3 I nuovi termini d'uso saranno comunicati all'Utente con un preavviso di almeno 15 giorni rispetto alla
scadenza del
periodo di fatturazione in corso ed entreranno in vigore a partire dall'inizio del periodo di fatturazione
successivo.
Se l'Utente non è d'accordo con i nuovi termini d'uso, può esercitare la disdetta secondo quanto previsto al
precedente
articolo 3.
11.4 Ove la modifica dei termini d'uso sia connessa alla necessità di adeguarsi a un obbligo di legge, i
nuovi termini
d'uso potranno entrare in vigore immediatamente al momento della comunicazione; resta inteso che, solo in
tale ipotesi,
l'Utente potrà recedere dal contratto entro i successivi 30 giorni, con il conseguente diritto ad ottenere
un rimborso
proporzionale al periodo di abbonamento non goduto.
12. Trattamento dei dati personali
12.1 In conformità a quanto previsto dal Regolamento 2016/679 UE e dal Codice della privacy (decreto
legislativo 30
giugno 2003, n. 196), i dati personali degli Utenti saranno trattati per le finalità e in forza delle basi
giuridiche
indicate nella privacy policy messa a disposizione dell'Utente in sede di registrazione e acquisto.
12.2 Accettando i presenti termini di utilizzo, l'Utente conferma di aver preso visione della privacy policy
messa a
disposizione dal Fornitore e di averne conservato copia su supporto durevole.
12.3 Il Fornitore si riserva di modificare in qualsiasi momento la propria privacy policy nel rispetto dei
diritti degli
Utenti, dandone notizia a questi ultimi con mezzi adeguati e proporzionati allo scopo.
13. Servizio clienti
13.1 Per informazioni sul Servizio e per qualsiasi problematica connessa con la fruizione dello stesso,
l'Utente può
contattare il Fornitore attraverso i seguenti recapiti: help@newslist.it
14. Legge applicabile e foro competente
14.1 Il contratto tra il Fornitore e l'Utente è regolato dal diritto italiano.
14.2 Ove l'Utente sia qualificabile come consumatore, per le controversie comunque connesse con la
formazione,
esecuzione, interpretazione e cessazione del contratto, sarà competente il giudice del luogo di residenza o
domicilio
del consumatore, se ubicato in Italia.