22 Luglio
Marchionne malato da più di un anno. Fca non lo sapeva
L'annuncio dell'ospedale di Zurigo: "Si recava da noi a cadenza regolare per curare una grave malattia". Fca commenta: "La società non aveva conoscenza dei fatti per motivi di privacy". Questi i fatti, resta il punto delicatissimo: era un fatto molto rilevante della vita societaria.
New. Fca: non sapevamo nulla. Fca commenta quanto rivelato dall'ospedale di Zurigo e la nota del gruppo fa emergere un problema di comunicazione e conoscenza, un fatto molto rilevante della vita societaria: "Venerdì 20 luglio la società è stata informata dalla famiglia del dottor Marchionne senza alcun dettaglio del serio deterioramento delle sue condizioni e che di conseguenza egli non sarebbe stato in grado di tornare al lavoro. La società ha quindi prontamente assunto e annunciato le necessarie iniziative il giorno seguente". Lo precisa un portavoce di Fca interpellato dall'Ansa. "Fca non è in grado di commentare le dichiarazioni dell'Ospedale di Zurigo. Per motivi di privacy sanitaria, la società non aveva conoscenza dei fatti". Nella gestione di una società di capitali di quelle dimensioni e importanza conoscere lo stato di salute del management è un dato importante per gli azionisti. La scomparsa di Marchionne fa emergere il problema.
New (26 luglio). Marchionne in cura da oltre un anno. "Da oltre un anno si recava a cadenza regolare presso il nostro ospedale per curare una grave malattia". Lo precisa l'Ospedale Universitario di Zurigo dove l'ex ad di Fca è stato ricoverato. "Nonostante il ricorso a tutti i trattamenti offerti dalla medicina più all'avanguardia, il signor Marchionne è purtroppo venuto a mancare", aggiunge esprimendo "il più accorato cordoglio" alla famiglia.
Sergio Marchionne è morto. Ricoverato nell'ospedale di Zurigo da fine giugno, il manager era in condizioni irreversibili. Il manager, per 14 anni amministratore delegato di Fiat-Chrysler, aveva compiuto 66 anni lo scorso 17 giugno. Accanto a lui la compagna Manuela Battezzato e i figli Alessio e Tyler. La sua scomparsa è una grande perdita per l'Italia.
Marchionne, l'Homo Faber
La cifra di un uomo è fatta di pensiero e azione. Una serie di mosse sulla scacchiera. Sergio Marchionne ha giocato la sua partita...
New. Fca: non sapevamo nulla. Fca commenta quanto rivelato dall'ospedale di Zurigo e la nota del gruppo fa emergere un problema di comunicazione e conoscenza, un fatto molto rilevante della vita societaria: "Venerdì 20 luglio la società è stata informata dalla famiglia del dottor Marchionne senza alcun dettaglio del serio deterioramento delle sue condizioni e che di conseguenza egli non sarebbe stato in grado di tornare al lavoro. La società ha quindi prontamente assunto e annunciato le necessarie iniziative il giorno seguente". Lo precisa un portavoce di Fca interpellato dall'Ansa. "Fca non è in grado di commentare le dichiarazioni dell'Ospedale di Zurigo. Per motivi di privacy sanitaria, la società non aveva conoscenza dei fatti". Nella gestione di una società di capitali di quelle dimensioni e importanza conoscere lo stato di salute del management è un dato importante per gli azionisti. La scomparsa di Marchionne fa emergere il problema.
New (26 luglio). Marchionne in cura da oltre un anno. "Da oltre un anno si recava a cadenza regolare presso il nostro ospedale per curare una grave malattia". Lo precisa l'Ospedale Universitario di Zurigo dove l'ex ad di Fca è stato ricoverato. "Nonostante il ricorso a tutti i trattamenti offerti dalla medicina più all'avanguardia, il signor Marchionne è purtroppo venuto a mancare", aggiunge esprimendo "il più accorato cordoglio" alla famiglia.
Sergio Marchionne è morto. Ricoverato nell'ospedale di Zurigo da fine giugno, il manager era in condizioni irreversibili. Il manager, per 14 anni amministratore delegato di Fiat-Chrysler, aveva compiuto 66 anni lo scorso 17 giugno. Accanto a lui la compagna Manuela Battezzato e i figli Alessio e Tyler. La sua scomparsa è una grande perdita per l'Italia.
Marchionne, l'Homo Faber
La cifra di un uomo è fatta di pensiero e azione. Una serie di mosse sulla scacchiera. Sergio Marchionne ha giocato la sua partita più difficile, sono le mosse che nessuno può vedere, fanno parte di un gioco per tutti noi misterioso, un incontro finale, in penombra, in riva al mare, quello del Settimo Sigillo di Ingmar Bergman. "Condizioni irreversibili". Un flash sul monitor delle agenzie: "È morto Sergio Marchionne". È una frase che nessuno vorrebbe leggere per nessuno. Tanto meno per uomo che si conosce. No, non è ancora il momento del ricordo personale, la disciplina dello scrivere impone di raccontare l'Homo Faber Marchionne.
La fine dell'era Marchionne nel gruppo FCA lascia una gigantesca eredità di pensiero e azione, la cifra di un uomo di prima grandezza. Il Marchionne capo-azienda non è mai stato scisso dal Marchionne uomo di pensiero. La sua avventura in Italia è stata in larga parte incompresa - questa è la verità, tristemente lo è anche oggi - perché le presunte classi colte erano e sono incolte e con questo fardello di ignoranza e lillipuziana invidia addosso hanno preteso con arroganza di separare le due figure senza mai comprendere né l'una né l'altra, senza mai volersi confrontare con la profondità del pensiero di Marchionne. Sindacati, Confindustria, partiti, intellettuali à la page, tutti a spiegare a Marchionne come si fa industria. Tutti maestri. Della bancarotta materiale e culturale.
La sua avventura in Italia è stata in larga parte incompresa - questa è la verità, tristemente lo è anche oggi - perché le presunte classi colte erano e sono incolte e con questo fardello di ignoranza e lillipuziana invidia.
Marchionne non ha salvato la Fiat, Marchionne ha ricostruito un'intera industria che stava tramontando per eccesso di cattiva finanza e assenza di immaginario. Marchionne era un punto di riferimento per tutti. "È stato l'amministratore delegato del secolo nell'industria automobilistica, almeno finora, e a 80 anni a partire da oggi potrebbe ancora esserlo", ha scritto Rick Johnson, direttore di Automotive News.
Un game changer, Marchionne, un duro negoziatore, un uomo d'industria e un visionario con i piedi saldamente per terra. Mentre Elon Musk non riusciva a far funzionare la sua catena di produzione per poche migliaia di modelli di Tesla, Marchionne ricostruiva l'impero dell'automobile americana e salvava una decotta industria italiana con una grande tradizione e nessun avvenire. L'auto non è quella che vedete sfrecciare in strada, è quella che viene pensata, concepita, disegnata, assemblata, testata nella mente del costruttore. Homo Faber Marchionne.
Questo lavoro è stato fatto mettendo al centro dell'opera una cosa dimenticata: l'uomo. Pensiero e azione. Questa sintesi Marchionne l'ha realizzata guardando lontano, avendo sempre un orizzonte davanti ai suoi occhi. La sua opera di capo azienda si basava non sul manuale operativo di un travet del capitalismo, ma sulle immateriali e solidissime basi della filosofia. Tutta la sua avventura può essere letta in questa chiave culturale, la più autentica, quella che ci consente di capire lo spirito di Marchionne, le sue motivazioni e spinte ideali.
L'auto non è quella che vedete sfrecciare in strada, è quella che viene pensata, concepita, disegnata, assemblata, testata nella mente del costruttore. Homo Faber Marchionne.
Un italiano tutto d'un pezzo, figlio di un Carabiniere (è un segno del destino - un "ritorno al padre", cercato e voluto da Marchionne - che la sua ultima uscita pubblica sia stata a Roma, lo scorso 26 giugno, nella sede del Comando generale dei Carabinieri), nato a Chieti e emigrato in Canada. La sua prima storia è quella di una vita dura - tutto diventa più difficile quando ti allontani dalla tua lingua, dal tuo immaginario - una partenza scartavetrata, quella di un self made man uscito da un libro di Daniel Defoe. "Lontano" ha il suo opposto nel "vicino" e quell'atlantica distanza con la sua terra - quella che batte nel cuore - Marchionne la colmava con le amate letture filosofiche e letterarie che tutto annullano, avvicinano, dilatano, smaterializzano e ricompongono.
Ogni sua presentazione era un discorso sulla natura creativa, ferma e responsabile della leadership. Per lui la parola "visione" era naturalmente sposata all'azione. La filosofia era il centro da cui partiva ogni sua riflessione. Che viaggio, Marchionne.
Partiamo dall'ultima sua presentazione, quella del 1° giugno scorso, capital markets day di Balocco, il nuovo piano 2018-2022. Le date del calendario e gli eventi s'intrecciano, quattordici anni dopo, Marchionne torna al suo nuovo inizio, ancora a Balocco, il luogo dove la sua avventura era cominciata nel 2004. Una circolarità della storia che ricorda "l'eterno ritorno dell'uguale" di Friedrich Nietzsche, il filosofo che Marchionne conosceva bene. La vita dell'uomo costruita, decostruita e ricostruita in una serie di "attimi". Così parlò Zarathustra, Nietzsche: "Da questa porta carraia che si chiama attimo, comincia all'indietro una via lunga, eterna: dietro di noi è un'eternità".
Per lui la parola "visione" era naturalmente sposata all'azione. La filosofia era il centro da cui partiva ogni sua riflessione.
Questa serie di attimi all'indietro Marchionne la fa scattare il 1° giugno scorso a Balocco con una frase e l'immagine di Oscar Wilde: "Una cravatta ben annodata è il primo serio passo nella vita". Vi è qui tutta l'auto ironia dell'uomo che solo nel ciclostile della cronachetta era ombroso. Lui, Marchionne, che la cravatta non la portava mai, usava la metafora del supremo tra i dandy, Oscar Wilde, per dipingere lo stato dell'arte dell'azienda, la sua intima e personale nuova condizione in quel momento - poco meno di due mesi fa - è quella di chi può finalmente indossare la cravatta perché ha raggiunto lo status di quello che deve essere preso sul serio. La cravatta ben annodata di Wilde-Marchionne era quella dell'azzeramento del debito e del raggiungimento di una posizione industriale netta di cassa, l'obiettivo di ogni uomo d'azienda, grande o piccola. Non un'operazione di taglio e risparmio, ma di investimento e innovazione, conseguibile solo "con il lancio dei nuovi modelli". Homo Faber Marchionne.
Quando Marchionne parlava della sua creatura, si sentiva vibrare tutta la forza dell'officina del Novecento, la potenza della tradizione della manifattura, il clangore del metallo fuso alla più alta tecnologia e ricerca. La carrozzeria. Il motore. Il suo amore per Detroit e le metropoli tentacolari di vetro e acciaio era l'irradiazione svettante della forme art decò del Chrysler building a New York. La sua proiezione non era né a destra né a sinistra né al centro né in basso, ma in alto.
Vi è un'immagine che racconta questa forza marchionnesca nella presentazione: una gigantesca àncora che viene sollevata in aria da una piccola mongolfiera rossa. Volontà. Potenza. Leggerezza. Nell'ascensione, ecco un'altra epifania letteraria: Ernest Hemingway alla macchina da scrivere e quella frase scolpita nell'anima di ogni uomo intento a forgiare quella materia incandescente chiamata romanzo: "Non c'è nessuna nobiltà nell'essere superiore a un altro uomo, la vera nobiltà e essere superiori a quello che eravamo prima". C'è in questa frase la tensione della disciplina, del duro lavoro su se stessi, lo sforzo per superare i propri limiti. È tutta la vita di Marchionne, un ragazzino italiano di Chieti emigrato nella fredda Toronto, Canada. Lo feriva esser chiamato "il manager canadese", anzi lo faceva "incazzare" per dirla con le sue parole. Anche questo abbiamo visto, cercare di strappare a una persona la sua bandiera.
Quando Marchionne parlava della sua creatura, si sentiva vibrare tutta la forza dell'officina del Novecento, la potenza della tradizione della manifattura, il clangore del metallo fuso alla più alta tecnologia e ricerca
La sequenza di attimi compare quando afferma che "non rivivremo mai lo stesso giorno (...) Non saremo mai compiacenti dei nostri risultati, perché l'unico approccio che conosciamo è quello di guardare sempre avanti a nuovi e migliori risultati". In Marchionne c'è lo stupore dell'Homo Faber, l'innata curiosità che lo conduce a trasformare la fabbrica inefficiente di Melfi in un caso industriale che vale il riconoscimento del World Class Manufacturing. Sono cose che prendono corpo solo quando c'è una tagliente sensibilità che vede l'impossibile - lo separa di netto con la spada di un samurai dall'utopia - e lo rende possibile. La solida concreta filosofia di Marchionne è quella di dare al capitale investito la giusta remunerazione. Il suo possibile è questo: "Il valore per gli azionisti di FCA è quasi raddoppiato, e questo esclude l'accrescimento del valore di Ferrari, e il ritorno degli azionisti per dieci dei nostri più grandi concorrenti automobilistici ha una media negativa".
Ancora in queste ore, nella gravità dell'ora senz'ombra, c'è chi non ha il pudore, la dignità e l'onestà intellettuale di guardare all'uomo e alla sua opera senza pregiudizio morale, difetto ideologico. La cosa più amara di questa storia grandiosa è che neanche di fronte alla cavalcata dell'irreversibile queste armate del peggiorismo si sono fermate. Mentre Marchionne affrontava "la più grande rivoluzione nel trasporto da quando l'automobile ha sostituito il calesse", loro erano ancora fermi al calesse. In un'era di shock e sorpresa, rottura economica e tecnologica, cambiamento rapido delle regole, in uno scenario di competizione durissima, Marchionne ha lasciato un'azienda dieci volte più grande rispetto a come l'aveva trovata.
Filosofia. E numeri. La capitalizzazione è passata dai 5,5 mld di euro del 2014 a circa 60 miliardi euro. I ricavi sono passati da 47 miliardi di euro del 2004 (Gruppo Fca) ai 141 miliardi di euro del 2017. In 14 anni il risultato netto è passato da -1,5 miliardi di euro del 2004 ai 4,4 miliardi di euro del 2017. Questi sono i risultati.
"Chi comanda è solo" ripeteva Marchionne. L'intima solitudine del comando e dell'uomo in anticipo. "A volte è meglio arrivare secondi", diceva Enrico Fermi. Si evita quella cosa lancinante chiamata incomprensione. L'Italia è maestra nell'offesa ai suoi uomini migliori.
Mentre Marchionne affrontava "la più grande rivoluzione nel trasporto da quando l'automobile ha sostituito il calesse", i suoi critici erano ancora fermi al calesse.
Nel 2014, durante l'investor day di Auburn Hills, nei suoi commenti conclusivi Marchionne fece ancora un viaggio tra i miti della letteratura e della filosofia per raccontare il suo disegno. Quattro anni fa cominciò il suo big bang intellettuale con un gigante, Leone Tolstoj, e un corpo a corpo con l'idea di realtà: "Si dice comunemente che la vera realtà è ciò che esiste, oppure che solo ciò che esiste è reale. Ma è tutto il contrario: la vera realtà, ciò che noi conosciamo realmente, è ciò che non è mai esistito". Eccolo, l'immaginario d'acciaio e vapore, il possibile che si cela nello scrigno dell'impossibile. Diceva Albert Einstein "chi dice che è impossibile, non dovrebbe disturbare chi ce la sta facendo". Non disturbateci, andate via, lontano. Siamo troppo impegnati a creare e amare per occuparci del vostro disfattismo, della vostra bancarotta culturale e morale.
Filosofia e letteratura. Quattro anni fa cominciò il suo big bang intellettuale con un gigante, Leone Tolstoj, e un corpo a corpo con l'idea di realtà.
Torniamo a lui, ancora una volta al punto centrale dell'opera in fieri di Marchionne: la realizzazione dell'idea, la materializzazione del sogno. Fu in quell'occasione che Marchionne mise il marchio Jeep al centro dei suoi interessi e sforzi per lanciare un brand globale, sviluppare la strategia di produzione e farne il cuore dell'azienda del domani. Quattro anni dopo, Jeep è il gigante e l'uomo responsabile di quel marchio, Mike Manley, è il successore di Marchionne.
Successione... no, nessuna successione. Ci sarà un altro inizio, un'altra storia, un'altra avventura, ma una figura come quella di Marchionne resta una singolarità, una sfida per chi vuole sapere, capire, umilmente scoprire quanto sia grande, potente e fragile la natura umana. Marchionne amava la tradizione, sapeva attraversare con l'immaginazione i secoli, coltivava la storia, la sua curiosità per ogni forma di creatività era la benzina del suo motore. Durante l'incontro di Auburn Hills ricordò questa storia: "Noi siamo diversi perché abbiamo l'esperienza combinata di due gruppi con un secolo di storia e abbiamo imparato a capitalizzare il meglio dei nostri rispettivi passati senza esserne limitati". Marchionne amava i Detroiters, gli abitanti della città-fabbrica dell'America e l'atmosfera dell'altra città-fabbrica, con quella storia immensa di lotta operaia, Torino. Per lui le metropoli erano l'emblema dell'officina della storia, non un racconto al rallentatore, ma un quadro futurista di Boccioni, dove le forse si sprigionano improvvisamente, l'energia si manifesta come un lampo, un dinamismo felino che compare con un balzo graffiante nel buio. Eccolo, racchiuso in potenza in questa frase di Friedrich Nietzsche da Umano troppo umano che compare nel suo intervento a Auburn Hills: " Arretra, ma a somiglianza di chiunque voglia spiccare un gran salto ...". Il salto dell'Homo Faber Marchionne.
RadioList. Storia dell'impresa più incompresa
"Chi comanda è solo", ricordava sempre Sergio Marchionne. L'avventura industriale e umana di un uomo raccontata dal titolare di List e Riccardo Ruggeri. I principi del management, la geniale intuizione di andare alla conquista dell'America e fondere Fiat e Chrysler, l'arte di combinare due aziende fallite e farne un gruppo mondiale. La differenza tra il capitalista filosofo Marchionne e il Ceo Capitalism senza umanità. Una cavalcata attraverso i 14 anni in cui Marchionne ha trasformato un'industria, l'incomprensione in Italia con le presunte classi colte che in realtà non conoscono la complessità del business dell'automobile. Ascolta RadioList.
Imported from Chieti
Quello che segue è un capitolo del libro di Mario Sechi "Tutte le volte che ce l'abbiamo fatta".
Sergio Marchionne il 26 giugno scorso, nella sede del Comando generale dei Carabinieri, insieme a Giovanni Nistri, Comandante Generale dei Carabinieri (Foto Ansa).Metterlo tra gli irregolari è troppo facile, giudicarlo americano è una corbelleria, l’ideale è non classificarlo e provare a raccontarlo. Sergio Marchionne è un personaggio balzachiano, un lampo tra gli «impiegati» del capitalismo, un miscuglio strano di economia, politica, irruenza, caratteraccio, malinconia, discorsoni, silenzi, numeri, filosofia. Di tutte le cose che è Marchionne, è quest’ultima che intriga davvero: la sua laurea in filosofia (che si aggiunge alla laurea in legge e al Master in Business Administration). In Italia un tale che di professione fa il martire-milionario televisivo trovò la cosa del tutto inadeguata per un manager e degna d’esser irrisa. Errore. In realtà qui sta la differenza tra Marchionne e gli altri: l’obiettivo aziendale non è solo il numero in fondo a destra del conto profitti e perdite; lui pensa all’impresa come narrazione, storia, romanzo epico, cosa in sé che ha un suo inesorabile destino nell’Essere nel mondo.
Messa così la faccenda, Marchionne ha il marchio di fabbrica di quello che divide: si ama o si odia. Niente vie di mezzo. E infatti siamo in presenza di un caso unico: candidato a essere un Eroe dei due mondi, l’ingegnere nato a Chieti il 17 giugno 1952 dal matrimonio tra il c arabiniere Cosimo Concezio e la signora Maria, è diventato un salvatore in America e un Nemico del Popolo in Italia. Obama lo chiama per nome e lo ringrazia: «Thank you, Sergio». In Italia il Palazzo passa dall’insulto al timido supporto, mai troppo convinto perché Marchionne è per l’oggi e per il domani un carattere scomodo, spigoloso, uno che scartavetra la sua verità in faccia all’interlocutore, chiunque egli sia.
Quando sul mio schermo in redazione «flesciano» i lanci d’agenzia di stampa con tre stellette e si tratta di Marchionne, è certo che non è mai aria fritta. Realtà scompaginata, impaginato assicurato, foto, titolo, visto si stampi e si dia il via al Gran Premio RissItalia nel nome della classe operaia, del colletto bianco, del manager perfetto, dell’affamatore di tute blu, della fiommizzazione, del social molto casual e poco factual, del dibattito in chiave inglese. La rimozione del Fordismo e la creazione del Marchionnismo da parte degli intellò al ragù, bisognosi di un Avversario su cui sparare palle di carta, ha una ragione asociale precisa: l’Amerika.
Per capire chi è Marchionne, bisogna guardare con attenzione lo spot pubblicitario che Chrysler sfornò in occasione della quarantacinquesima edizione del Super Bowl 2011, la finale del campionato della National Football League. Due minuti. Record di durata nella storia dell’evento più visto della televisione americana. Centoventi secondi. La narrazione di una storia di riscatto, tradizione, orgoglio, creatività, industria pesante, patria e forza. Accendiamo lo schermo. Comincia lo spettacolo. Chrysler metafora di Marchionne.
Un’auto passa sotto un ponte. Il cielo è grigio. Scenario da città industriale. Ciminiere. Colonne di fumo. Gru. Primissimo piano su un cartello stradale: «North Detroit». Musica. È Lose yourself, Eminem. Voce fuori campo. Una bandiera americana. Statue di bronzo. Un pugno chiuso. Ecco la voce narrante:
Ho una domanda per voi: che cosa ne sa questa città del lusso? Che cosa ne sa una città che è stata all’inferno e ne è tornata, delle cose più belle della vita? Ve lo dirò io: ne sa molto di più di ciò che pensate. Vedete, è dal fuoco più caldo che si ottiene l’acciaio più resistente. Aggiungete poi duro lavoro e convinzione e l’abilità, la capacità lavorativa che «manda avanti» le generazioni, profonda in ognuno di noi. Questo è ciò che siamo, questa è la nostra storia, che probabilmente non è quella che avete letto nei giornali, quella scritta da gente che non ci è nemmeno stata qui, che non sa ciò di cui siamo capaci, perché quando si tratta di lusso è importante sapere da dove viene così come per chi è. Ora noi veniamo dall’America, ma questa non è New York City, o la città ventosa o la città del peccato e certamente non siamo la città di smeraldo di nessuno. Questa è la città dei motori e questo è ciò che facciamo.
La voce sfuma. Nero. Slogan: «La nuova Chrysler 200 è arrivata. Imported from Detroit».
Il rilancio di Chrysler, simbolo dell’industria americana, trova sangue e battito grazie a un cuore italiano che pompa i valori degli Stati Uniti. Detroit centro del mondo. Non New York, la grande Mela; non Chicago, «la città ventosa»; non Las Vegas, «la città del peccato»; e non «la città di smeraldo», splendida citazione dal romanzo "Il meraviglioso mago di Oz", i cui significati affondano in un’altra crisi americana, quella della deflazione e del crollo dei prezzi alla fine dell’Ottocento. Non so con quanta consapevolezza, ma il riferimento al romanzo per bambini più amato d’America è un sottile e tagliente scavo nel Dna e nell’inconscio di una nazione. Il capolavoro di Lyman Frank Baum è un’allegoria monetaria, come ha spiegato Hugh Rockoff in uno studio del 1990 pubblicato dal «Journal of Political Economy». "Il meraviglioso mago di Oz" è la risposta al panico che nasce dal salto iperbolico della disoccupazione che dal 3 per cento del 1892 passa al 18,4 per cento del 1894, con la deflazione che fa crollare i prezzi del mercato agricolo, cuore dell’America di fine Ottocento.
Uno spot. Due minuti. Dietro la patina del lusso di Chrysler, l’eleganza delle svettanti forme Art Déco del Chriysler building, nelle parole e nelle citazioni emerge il corpo caldo e seducente dell’America profonda. La Motor City, Detroit, è un simbolo fumante d’acciaio che cola, colpisce e scolpisce l’immaginario come la balena di Melville, la sensualità da brivido di Poe, il West e la frontiera di Faulkner, fino ai cavalli selvaggi di Cormac McCarthy. Ecco perché Marchionne è un personaggio singolare, un contratto atipico nel mondo dell’industria e della finanza: perché nei suoi silenzi è racchiusa un’esperienza multiforme.
«Marchionne». I testimoni raccontano che Sergio chiamasse così il padre quando giocavano insieme al circolo dei carabinieri di Toronto. Papà Concezio decise nel 1966 di levare le tende dal Belpaese e raggiungere la sorella della moglie, Anna, nel quartiere di St Claire, a Toronto. La vita è un tiro di dadi, capita che nasci a Chieti, hai un’infanzia vicino alla Maiella, poi cresci sulle rive del lago Ontario, nelle foreste del comandante Mark, torni nel cuore delle Alpi, in Svizzera, a rifare aziende disfatte come letti stropicciati da notti di convulsioni senza amore, attraversi il confine, parli italiano, arroti un po’ la «erre», ti chiami Sergio Marchionne e ti danno da guidare la Fiat. Ma non ti basta e decidi che con quella macchinina «brum brum» vuoi tornare in America, cavalcare la crisi che si sta mangiando carrozzeria, ruote e pistoni della Motor City e far tua la bambola più bella. Nella testa di Marchionne ci sono un solo pensiero e un’azione conseguente, come in un noir di Horace McCoy: Strike the doll. Chrysler.
L’Amerikano, dunque. Ne siamo sicuri? A leggere bene la biografia, ci sono cose marchionniane che tornano e altre marchionnesche che non sono per niente vicine al mito del cowboy from Maiella Mountain. No, non ci si può credere alla sagoma costruita per fare il lancio di palle al Luna Park Italia. Ecco, tanto per cominciare Sergio cresce in Canada, non negli Stati Uniti. Ah, certo, sempre Nord America è. Sicuro. Ma passa la stessa differenza che misurate tra Milano e Venezia. E alla «Stampa» il Nostro conferma: «Ho avuto una formazione anglosassone e parlo inglese, ma mi sento italiano fino in fondo». E cos’altro potrebbe essere quell’uomo con il maglione blu? Sì, quello spettinato, proprio quello che sta stringendo la mano a Barack Obama in quel di Detroit? Un wasp prefabbricato dalla Yale University? No, è semplicemente un tipo strano che non si è trovato là per caso, un manager diverso Imported from Chieti.
Con quale idea in testa? Come nei film d’azione, le chiacchiere stanno a zero. Parlano i numeri. E i documenti. Centro Congressi del Lingotto, 4 aprile 2012. Assemblea degli azionisti Fiat. Intervento di Sergio Marchionne che illustra «il grande disegno d’integrazione tra Fiat e Chrysler, che ci sta portando alla creazione di una casa automobilistica globale». La relazione di Marchionne è un documento di enorme importanza che la classe dirigente italiana – ammesso che ve ne sia ancora una in grado di comprendere e agire – dovrebbe leggere e rileggere per agire bene. È un trattato di politica interna, mercato e globalizzazione. Descrive lo stato dell’arte nel nostro Paese, le dinamiche del mondo dei consumi e il futuro dell’industria. Marchionne in poche parole espone il suo «grande disegno», un’ambizione che nel Belpaese è considerata semplicemente, irrimediabilmente, inesorabilmente, mission impossible.
Il dibattito italiano su questo punto è più arido del deserto del Gobi. Pochi si sono resi conto di cosa sia accaduto realmente con il rovescio economico-finanziario cominciato nel 2008 con le insolvenze dei mutui subprime in America. Non si è aperta una normale e ciclica crisi economica, ma è cominciato un terremoto che sta spostando enormi masse di ricchezza da Occidente a Oriente e, prima di quanto si immagini, da Nord a Sud. È in corso una migrazione e trasformazione del capitalismo per opera della finanza, della velocità dei mercati e della globalizzazione. Un mondo di devastazione sicura per chi in Occidente resta immobile, ma anche di grandi opportunità per chi è rapido e intelligente. Distruzione/creazione e soprattutto fine della ricreazione per l’Europa.
Marchionne è uno di quelli che ha capito tutto e s’è tuffato in quel mare in tempesta con le fauci spalancate e lo sguardo lungo. Risultato: «Fiat e Chrysler insieme, nel 2011, hanno venduto più di quattro milioni di veicoli, diventando il settimo gruppo automobilistico mondiale. Oggi non siamo più un player marginale. Siamo diventati uno dei più forti e competitivi costruttori di auto, con un livello di tecnologia tra le più innovative e avanzate al mondo».
Il cuore pulsante della strategia non è solo l’integrazione del modello di produzione e di commercializzazione dei due marchi, ma il concetto di frazionamento del rischio, nella visione di un soggetto che si muove in mercato globale. Ecco come ragiona Marchionne: «Aver raggiunto un migliore equilibrio geografico ci ha permesso finalmente di porre rimedio all’eccessiva dipendenza della Fiat dal mercato europeo e ci rende, per questo, più solidi». Quel che è sconcertante è il livello di inconsapevolezza del Paese su questa trasformazione. Che cosa era la Fiat prima dell’arrivo di Marchionne? Lo facciamo dire a lui: «Fatturava 27 miliardi di euro, di cui oltre il 90 per cento in Europa. I dipendenti erano di poco superiori a 100 mila, di cui il 70 per cento in Europa e più della metà in Italia».
Un’azienda che era in profondo rosso. A livello operativo, le perdite, inclusi gli oneri atipici, erano di circa 1,3 miliardi di euro, tutte concentrate in Europa, con un sostanziale pareggio in America Latina. L’immagine del 2011, invece, parla di una Fiat che ha una presenza diversificata sui mercati del mondo. Il fatturato, se consideriamo Chrysler per dodici mesi, è salito a quasi 75 miliardi di euro. I dipendenti nel mondo sono 197 mila, di cui circa il 44 per cento in Europa, un terzo nell’area Nafta (dal nome dell’accordo di libero scambio nordamericano «North American Free Trade Agreement» del 1992) e quasi un quarto in America Latina. Oggi la Fiat è capace di generare significativi profitti operativi nonostante le perdite collegate ai marchi generalisti in Europa. Perdite che, peraltro, sono state più che dimezzate rispetto al 2004 e sono più che compensate da forti utili in America Latina e in Nord America. «Oggi la Fiat è un’azienda globale che macina profitti.» Se consideriamo che il consolidamento e l’integrazione con Chrysler sono ancora in corso, siamo di fronte alla più grande operazione industriale della storia del Paese, firmata da un italiano che in Patria non è compreso.
Lasciamo stare l’aneddotica costruita in questi anni. Badiamo al sodo e al soldo. Il marchionnismo è lontano anni luce dal marpionismo di gran parte dei cosiddetti capitani d’industria italiani. Imported from Chieti, forse un po’ Amerikano e magari brusco e non a suo agio nel Palazzo, ma di sicuro intelligente, svelto e deciso: via da Confindustria. Immaginate un po’ il significato di quella scelta. Mentre il governo, i sindacati, le cosiddette «parti sociali» parlavano, danzavano minuetti, insomma tiravano e mollavano sul bollito rito della concertazione, Marchionne in un paio di secondi sconcertava tutti: la Fiat fuori dall’associazione degli industriali. La vera rupture per l’Italia consociativa, associativa ma dissociata dalla realtà. Perché l’ha fatto? Un po’ per il sublime piacere di épater le bourgeois, ma soprattutto per una ragione che è nero su bianco, scritta nei documenti che costituiscono l’unica vera bussola del nostro viaggio. Parola chiave del passaggio: libertà. Ecco come la racconta Marchionne agli azionisti:
Abbiamo ... deciso di uscire da Confindustria per ottenere la necessaria libertà contrattuale di trattare direttamente con i sindacati e concordare insieme una serie di condizioni che ci permettano di ricomporre la capacità di competere dell’industria dell’auto italiana. Alla fine dell’anno, infatti, è stato siglato il nuovo Contratto Collettivo Specifico di Lavoro per tutti i dipendenti di Fiat e Fiat Industrial in Italia, che segna un significativo miglioramento per tutti. Si tratta di uno strumento moderno, in grado di assicurare la flessibilità e la governabilità degli stabilimenti necessarie per competere sui mercati mondiali. Inoltre, garantisce ai nostri lavoratori di mantenere inalterati tutti i diritti acquisiti e permette loro di beneficiare di evidenti vantaggi economici, legati all’aumento di produttività e a una maggiore flessibilità del lavoro straordinario.
Con buona pace della riforma del Lavoro, dell’articolo 18, della Cgil, della Fiom, della Cisl, della Uil e compagni e politici di destra, di centro, di sinistra, Marchionne con un colpo secco e una decisione storica, rivoluziona le relazioni industriali italiane, compie in solitudine una riforma vera e fa suo il ritornello di Rino Gaetano in Nuntereggae più:
I ministri puliti, i buffoni di corte / ladri di polli / super pensioni / ladri di Stato e stupratori / il grasso ventre dei commendatori / diete politicizzate / evasori legalizzati / auto blu / sangue blu / cieli blu / amore blu / rock and blues / nuntereggaepiù / Eya alalà / pci psi / dc dc / pci psi pli pri / dc dc dc dc / Cazzaniga / avvocato Agnelli Umberto Agnelli / Susanna Agnelli Monti Pirelli....
Dicono che a Marchionne in realtà piacesse il canto di De André, ma la carica dirompente di Rino Gaetano dà il colore giusto al contesto e soprattutto alla rottura di testa che ha provocato il numero uno di Fiat nell’ingessatissimo salotto del capitalismo alle vongole. Se Berlusconi è stato il benzene del carattere italiano nel pro e nell’anti, Marchionne è il Tnt piazzato dalla Storia sul sistema industriale del Paese. Mentre il Paese si perde in un dibattitone che è la solita rissa parolaia senza esito finale, qualcosa accade a Rimini il 26 agosto 2010.
Che non sarà un giorno qualunque lo si capisce subito. Sergio Marchionne sale sul palco del Meeting di Comunione e Liberazione. Spettinato in testa e shakerato dentro, camicia blu, le maniche arrotolate, l’orologio slacciato dal polso, sul tavolo, pronto a scandire i tempi di scoppio di un motore senza cilindri e con molti neuroni. Marchionne non delude la sua fama e sciorina il suo «parlare in modo chiaro e diretto». Un uppercut alla classe dirigente del Paese sferrato dal suo inizio di self made man:
Sono nato in Abruzzo, a Chieti, a circa duecentocinquanta chilometri da qui, ma, per ragioni familiari e per motivi di lavoro, ho vissuto all’estero la maggior parte dei miei anni. Ho dovuto abituarmi presto a cambiare casa, abitudini, amici. Avevo quattordici anni quando la mia famiglia si è trasferita in Canada. Vi confesso che non è stato facile. Non è mai facile iniziare tutto da capo, in una terra sconosciuta e in una lingua straniera, imparare a gestire la solitudine di alcuni momenti. Non è facile lasciare le certezze del tuo mondo abituale per le incertezze di un mondo nuovo. Aveva ragione Cesare Pavese quando disse che: “Viaggiare è una brutalità. Obbliga ad avere fiducia negli stranieri e a perdere di vista il comfort familiare della casa e degli amici. Ci si sente costantemente fuori equilibrio. Nulla è vostro, tranne le cose essenziali – l’aria, il sonno, i sogni, il mare, il cielo. Tutte le cose tendono verso l’eterno o ciò che possiamo immaginare di esso”.
Pavese. Campagna e città, gli stessi luoghi di un Marchionne che, intrecciando parole, fatti e simboli, fa rimbalzare la sua biografia. Le Langhe e Torino, il centro della vita di Pavese, l’epicentro del sisma Marchionne nel mondo industriale del Belpaese. Torino, cuore e mente del Gruppo Fiat. Torino, l’amante più vicina a Pavese che mai l’avrebbe scambiata per un’Arcadia. Un amore scolpito così nelle parole dello scrittore:
Ora io non so se sia l’influenza di Walt Whitman, ma darei ventisette campagne per una città come Torino. La campagna sarà buona per un riposo momentaneo dello spirito, buona per il paesaggio, vederlo e scappar via rapido in un treno elettrico, ma la vita, la vita vera moderna, come la sogno e la temo io, è una grande città, piena di frastuono, di fabbriche, di palazzi enormi, di folle e di belle donne (ma tanto non le so avvicinare).
Il viaggio di Marchionne nella contemporaneità è fatto di mondi lontanissimi dalla liturgia italiana, dalla ridondanza della «concertazione» che sconcerta l’uomo che ha calpestato il suolo di tre nazioni (Canada, Francia e Svizzera) per tornare a «casa», dove si hanno le radici. Ma nella storia di Marchionne vi è un retrogusto amaro nell’apprendere ogni volta la lezione del nemo propheta in patria, perché Marchionne, a Rimini, confessa:
A volte ho l’impressione che gli sforzi che la Fiat sta facendo per rafforzare la presenza industriale in Italia non vengano compresi oppure non siano apprezzati intenzionalmente. La verità è che la Fiat è l’unica azienda disposta a investire 20 miliardi di euro in Italia, l’unica disposta a intervenire sulle debolezze di un sistema produttivo per trasformarlo in qualcosa che non abbia sempre bisogno di interventi d’emergenza. Qualcosa che sia solido e duraturo, da cui partire per immaginare il futuro. La verità è che questo sforzo viene visto da alcuni con la lente deformata del conflitto. Non siamo più negli anni Sessanta. Non è possibile gettare le basi del domani continuando a pensare che ci sia una lotta tra “capitale” e “lavoro”, tra “padroni” e “operai”. Se l’Italia non riesce ad abbandonare questo modello di pensiero non risolveremo mai niente. Erigere barricate all’interno del nostro sistema alimenta solo una guerra in famiglia. L’unica vera sfida è quella che ci vede di fronte al resto del mondo. Quello di cui ora c’è bisogno è un grande sforzo collettivo, una specie di patto sociale per condividere gli impegni, le responsabilità e i sacrifici e per dare al Paese la possibilità di andare avanti. Questo è il momento di accettare il cambiamento come la possibilità per creare una base di ripartenza sana, come un’occasione per iniziare a costruire insieme il Paese che vogliamo lasciare in eredità alle prossime generazioni. Tutti noi esaltiamo il cambiamento come uno straordinario motore di progresso, come la più grande fonte di opportunità. Troppo spesso, però, l’elogio del cambiamento si ferma sulla soglia di casa. Va bene finché non ci riguarda. Siamo liberi di scegliere qual è il tipo di cambiamento che vogliamo: il nostro o quello degli altri. Nel farlo, dobbiamo essere consapevoli che il primo richiede energia, coraggio e determinazione nel costruire il nostro destino. L’altro, invece, ci condanna al ruolo di spettatori e potenziali vittime del processo. La Fiat – quella che è uscita con le proprie forze da una situazione che nel 2004 sembrava a fondo cieco; la stessa che oggi sta cercando nuove strade per diventare uno dei più grandi costruttori di auto al mondo – ha fatto la propria scelta. Ha deciso di stare al passo con la realtà.
È l’autobiografia di una nazione incapace di accettare la sfida: ripiegata su se stessa, una figura immobile sulla spiaggia che guarda lo tsunami in arrivo, ha la possibilità di spiccare il volo e salvarsi, non fa niente per evitarlo e fa di tutto per impiombarsi le ali. Come nel caso della sentenza che obbligava la Fiat ad assumere centoquarantacinque operai della Fiom a Pomigliano, solo e soltanto della Fiom, perché secondo il tribunale il gruppo torinese aveva discriminato gli iscritti alla sigla sindacale. Reazione marchionnesca: «Un evento unico che interessa un particolare paese che ha regole particolari che sono folcloristicamente locali». Folclore. E anche qualcosa in più. Applicazione da Azzeccagarbugli di regole affonda-aziende in un Paese che ha bisogno di mantenerle. Nelle parole di Marchionne la sinistra fiommizzata aveva letto «il disprezzo e l’insulto». No, in realtà emergeva l’amarezza dell’incompreso, il sussulto d’orgoglio e la rabbia di chi ha fatto l’impresa e non gli è stata riconosciuta dal suo Paese perché «essere liberi vuol anche dire trovare il coraggio di abbandonare i modelli del passato, le vecchie abitudini e le dipendenze. Le strade comode e rassicuranti non portano da nessuna parte e di sicuro non aiutano a crescere. Fanno solo perdere il senso del viaggio».
Marchionne continua il suo viaggio. Dentro di sé porta il Mago di Oz, Pavese e poi Hegel e Machiavelli. Il filosofo tedesco è quello che gli rammenta ogni giorno che «nel mondo nulla di grande è stato fatto senza passione», mentre lo scrittore fiorentino è quello che mezzo secolo fa ricordava la responsabilità dell’uomo per l’uomo, di se stessi verso gli altri, dell’opera propria come costruzione dell’Esempio, la parabola che è un memento per ciascun italiano che percorre la strada della vita: «Il ritorno al principio è spesso determinato dalla semplice virtù di un uomo. Il suo esempio ha una tale influenza che gli uomini buoni desiderano imitarlo e quelli cattivi si vergognano di condurre una vita contraria al suo esempio». La virtù di Marchionne, imported from Chieti.
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o
l'interruzione del Servizio. Il Fornitore si impegna a contenere i periodi di interruzione o rallentamento
nel minore
tempo possibile e nelle fasce orarie in cui generalmente vi è minore disagio per gli Utenti. Ove
l'interruzione del
Servizio si protragga per oltre 24 ore, l'Utente avrà diritto a un'estensione dell'Abbonamento per un numero
di giorni
pari a quello dell'interruzione; in tali casi, l'Utente riconosce che l'estensione dell'Abbonamento è
l'unico rimedio in
suo favore, con la conseguente rinunzia a far valere qualsivoglia altra pretesa nei confronti del
Fornitore.
10.3 L'Utente riconosce e accetta che nessuna responsabilità è imputabile al Fornitore:
- per disservizi dell'Abbonamento derivanti da malfunzionamenti di reti elettriche e telefoniche ovvero di
ulteriori
servizi gestiti da terze parti che esulano del tutto dalla sfera di controllo e responsabilità del Fornitore
(per
esempio, disservizi della banca dell'Utente, etc...);
- per la mancata pubblicazione di contenuti editoriali che derivi da cause di forza maggiore.
10.4 In tutti gli altri casi, l'Utente riconosce che la responsabilità del Fornitore in forza del contratto
è limitata
alle sole ipotesi di dolo o colpa grave.
10.5 Ai fini dell'accertamento di eventuali disservizi, l'Utente accetta che faranno fede le risultanze dei
sistemi
informatici del Fornitore.
11. Modifica dei termini d'uso
11.1 L'Abbonamento è disciplinato dai termini d'uso approvati al momento dell'acquisto.
11.2 Durante il periodo di validità del contratto, il Fornitore si riserva di modificare i termini della
fornitura per
giustificati motivi connessi alla necessità di adeguarsi a modifiche normative o obblighi di legge, alle
mutate
condizioni del mercato di riferimento ovvero all'attuazione di piani aziendali con ricadute sull'offerta dei
contenuti.
11.3 I nuovi termini d'uso saranno comunicati all'Utente con un preavviso di almeno 15 giorni rispetto alla
scadenza del
periodo di fatturazione in corso ed entreranno in vigore a partire dall'inizio del periodo di fatturazione
successivo.
Se l'Utente non è d'accordo con i nuovi termini d'uso, può esercitare la disdetta secondo quanto previsto al
precedente
articolo 3.
11.4 Ove la modifica dei termini d'uso sia connessa alla necessità di adeguarsi a un obbligo di legge, i
nuovi termini
d'uso potranno entrare in vigore immediatamente al momento della comunicazione; resta inteso che, solo in
tale ipotesi,
l'Utente potrà recedere dal contratto entro i successivi 30 giorni, con il conseguente diritto ad ottenere
un rimborso
proporzionale al periodo di abbonamento non goduto.
12. Trattamento dei dati personali
12.1 In conformità a quanto previsto dal Regolamento 2016/679 UE e dal Codice della privacy (decreto
legislativo 30
giugno 2003, n. 196), i dati personali degli Utenti saranno trattati per le finalità e in forza delle basi
giuridiche
indicate nella privacy policy messa a disposizione dell'Utente in sede di registrazione e acquisto.
12.2 Accettando i presenti termini di utilizzo, l'Utente conferma di aver preso visione della privacy policy
messa a
disposizione dal Fornitore e di averne conservato copia su supporto durevole.
12.3 Il Fornitore si riserva di modificare in qualsiasi momento la propria privacy policy nel rispetto dei
diritti degli
Utenti, dandone notizia a questi ultimi con mezzi adeguati e proporzionati allo scopo.
13. Servizio clienti
13.1 Per informazioni sul Servizio e per qualsiasi problematica connessa con la fruizione dello stesso,
l'Utente può
contattare il Fornitore attraverso i seguenti recapiti: help@newslist.it
14. Legge applicabile e foro competente
14.1 Il contratto tra il Fornitore e l'Utente è regolato dal diritto italiano.
14.2 Ove l'Utente sia qualificabile come consumatore, per le controversie comunque connesse con la
formazione,
esecuzione, interpretazione e cessazione del contratto, sarà competente il giudice del luogo di residenza o
domicilio
del consumatore, se ubicato in Italia.