12 Luglio
Pazzo per Gershwin
Nel suo mito c’è il mito stesso dell’America, il self made man che suona il pianoforte quasi da autodidatta, il genio che non è accademia. Marco Patricelli suona un pezzo veloce-lento-più veloce che racconta il padre della Rhapsody in Blue
di Marco Patricelli
La canzone più eseguita e col più grande numero di varianti è in realtà una “ninna nanna” e per di più un’aria d’opera: «Summertime», da Porgy and Bess. Si fa presto a dire capolavoro, quando si tratta della musica di George Gershwin (1898-1937): figlio di un ebreo russo immigrato, ha dato all’America la voce che arrivava dall’Africa attraverso gli schiavi, con l’ambizione incompiuta di nobilitare in chiave colta il jazz come espressione musicale caratterizzante del Nuovo mondo. Nel suo mito c’è il mito stesso dell’America, il self made man che suona il pianoforte quasi da autodidatta dopo essere rimasto folgorato dall’ascolto casuale dell’ Humoresque di Antonín Dvořák eseguita al violino da un ragazzino ebreo come lui, Max Rosenzweig, anch’egli destinato a una grande carriera; il compositore tutto istinto e niente tecnica, che inventa il glissando di clarinetto in apertura della Rhapsody in Blue senza sapere che prima di allora era ritenuto impossibile farlo e dopo di lui era impossibile rifarlo senza cadere nel plagio smaccato; l’orchestratore che, digiuno di strumentazione, scrive la partitura del Concert in F e poi, potendoselo permettere, noleggia un’orchestra per sentire dal vivo se quello che sente in testa è quello che voleva far sentire agli altri. Eppure Gershwin sfida le regole e la sorte, con lo spirito del pioniere alla conquista del west, lui che viene dal lontanissimo est.
Ha guadagnato i primi dollari suonando le canzoni di altri, salvo accorgersi che ne guadagnerebbe di più scrivendone di originali. La sua musica vende subito, e vende bene. È allora che il geniale Paul Whiteman lo spinge a volare più alto, incastrandolo con un annuncio di concerto, An experiment of modern music, nel quale si anticipa che l’apprezzato canzonettista Gershwin offrirà un saggio di jazz sinfonico. Mancano appena tre settimane al...
di Marco Patricelli
La canzone più eseguita e col più grande numero di varianti è in realtà una “ninna nanna” e per di più un’aria d’opera: «Summertime», da Porgy and Bess. Si fa presto a dire capolavoro, quando si tratta della musica di George Gershwin (1898-1937): figlio di un ebreo russo immigrato, ha dato all’America la voce che arrivava dall’Africa attraverso gli schiavi, con l’ambizione incompiuta di nobilitare in chiave colta il jazz come espressione musicale caratterizzante del Nuovo mondo. Nel suo mito c’è il mito stesso dell’America, il self made man che suona il pianoforte quasi da autodidatta dopo essere rimasto folgorato dall’ascolto casuale dell’ Humoresque di Antonín Dvořák eseguita al violino da un ragazzino ebreo come lui, Max Rosenzweig, anch’egli destinato a una grande carriera; il compositore tutto istinto e niente tecnica, che inventa il glissando di clarinetto in apertura della Rhapsody in Blue senza sapere che prima di allora era ritenuto impossibile farlo e dopo di lui era impossibile rifarlo senza cadere nel plagio smaccato; l’orchestratore che, digiuno di strumentazione, scrive la partitura del Concert in F e poi, potendoselo permettere, noleggia un’orchestra per sentire dal vivo se quello che sente in testa è quello che voleva far sentire agli altri. Eppure Gershwin sfida le regole e la sorte, con lo spirito del pioniere alla conquista del west, lui che viene dal lontanissimo est.
Ha guadagnato i primi dollari suonando le canzoni di altri, salvo accorgersi che ne guadagnerebbe di più scrivendone di originali. La sua musica vende subito, e vende bene. È allora che il geniale Paul Whiteman lo spinge a volare più alto, incastrandolo con un annuncio di concerto, An experiment of modern music, nel quale si anticipa che l’apprezzato canzonettista Gershwin offrirà un saggio di jazz sinfonico. Mancano appena tre settimane al 12 febbraio 1924, la data che rivelerà un talento naïf e purissimo, non imbrigliabile nell’accademia e nel rigore della forma. I fogli pentagrammati ancora umidi di inchiostro passano nelle mani dell’orchestratore del complesso di Whiteman, Ferde Grofé, che segue le indicazioni istintive di Gershwin a partire dal glissando di clarinetto che «non si può fare» sino a che uno strumentista scopre che, in effetti, quel che la tecnica costruttiva vieta l’estro dell’esecutore può ottenere con la gola. Non c’è tempo di terminare la partitura, e allora Gershwin, che sarà il pianista della Rhapsody in blue, lascia un serie di battute vuote, dicendo che a quel punto improvviserà. In platea c’è anche Sergej Rachmaninov, russo come lui ma stilisticamente lontano anni luce. È un successo. La Rapsodia tiene fede al suo nome, è frutto della creatività, e tranne l’idea di massima veloce-lento-più veloce, come ha efficacemente sostenuto Leonard Bernstein, può essere smontata e rimontata in qualsiasi altro ordine senza perdere in freschezza e in fascino.
Tra i tanti aneddoti che circolano su Gershwin, si dice che i gerarchi nazisti melomani tenessero ben nascosto il disco della Rapsodia sotto a quelli delle opere di Wagner. Il compositore di canzoni che ha trovato il perfetto paroliere nel fratello Ira, ambisce ad andare oltre lo schema strofa-ritornello che gli dà celebrità, fama, soldi, successo con le donne, non solo a Broadway di cui è il re. Ogni canzone è una hit, ogni musical un trionfo. Quando gli commissionano un concerto per pianoforte e orchestra, dice di sì e poi va in un negozio di musica per acquistare un libro sulle forme musicali, per capire come è strutturato un concerto. Nello schema entra a fatica ma ci entra con entusiasmo. D’altronde non tutti i grandi musicisti erano a loro agio con le forme, come insegna Čajkovskij che volava alto con i balletti e aveva le ali appesantite da sinfonie e concerti. Quando però un giornale metterà in dubbio che è lui l’autore dell’orchestrazione e non Grofé, pretenderà le scuse pubbliche e la pubblicazione in prima pagina dell’originale della partitura autografa. Gli è bastato per imparare come si fa.
Del viaggio in Europa e del contatto con Maurice Ravel, racconterà con compiacimento che il francese gli avrebbe detto che non gli avrebbe dato lezioni di composizione perché non aveva bisogno e perché non avrebbe dovuto essere un Ravel a scartamento ridotto quando era invece un Gershwin di prima qualità. Allo stesso modo Stravinskij avrebbe declinato di dargli lezioni, una volta saputo da lui quanto guadagnava con la musica: «Allora dovresti essere tu a dare lezioni a me». Che fosse divenuto bravo a orchestrare lo testimonia An American in Paris, poema sinfonico irresistibile e compiuto, con l’ object trouvé dei clacson delle automobili e il perfetto blues della nostalgia, imposto nel repertorio classico da Arturo Toscanini che sdoganò definitivamente l’autore scollandogli di dosso l’etichetta di dilettante leggero. Ma anche l’iridescente partitura della Cuban Overture, talmente scintillante da coprire una certa povertà di ispirazione, o la poco nota Second Rhapsody, talmente moderna da ingabbiare l’immediatezza. La musica moderna era la sua musica, quella che voleva scrivere oltre alle canzoni che non sbagliava mai e che gli davano popolarità e vagonate di dollari. Da una di esse, I got Rhythm, trasse affascinanti variazioni per pianoforte e orchestra, assai vicine cronologicamente al capolavoro inseguito e raggiunto: Porgy and Bess. Da un mediocre libretto di Edwin DuBose Heyward, grazie anche all’abilità di paroliere del fratello Ira, riuscirà a realizzare un’opera negra per la quale aveva investito tempo e guadagni: aveva scelto di confinarsi in un villaggio della Carolina del Sud per “entrare” nello spirito negro, senza citare e senza evocare: ogni nota di quella partitura è originale e ispirata, e nonostante le feroci critiche era opera, non musical: i puristi e gli accademici gli rimproveravano la preponderanza del folklore, i jazzisti di essere un ibrido, Duke Ellington che Porgy and Bess era «nera sulla scena e bianca fuori». La sua grandezza era anche il suo limite, perché il jazz non era musica da redimere dalle origini plebee ed equivoche del bordello, e il jazz bianco era un’altra cosa.
Gershwin, all’età di 37 anni, aveva deciso che Porgy and Bess era il punto di partenza per una nuova carriera. Voleva scrivere un’altra opera, aveva messo in cantiere un quartetto per archi, ma accusava continui mal di testa e disturbi che alcuni medici avevano imputato a un esaurimento nervoso. Era invece un tumore al cervello, ormai in fase avanzata. Un solo specialista, forse, avrebbe potuto salvarlo con un intervento chirurgico d’urgenza, ma si trovava su una nave al largo del Golfo del Messico, e poté limitarsi solo a dare consigli alla sala operatoria attraverso un ponte radio realizzato d’urgenza dall’esercito americano. George Gershwin moriva l’11 luglio 1937, nello stesso giorno in cui da Roma arrivava la nomina ad Accademico di Santa Cecilia. L’orazione funebre, alla sinagoga di New York, con una folla straboccante che i poliziotti a cavallo non riuscirono pienamente a gestire, venne tenuta da Arnold Schönberg, suo amico ma musicalmente agli antipodi: se non fosse stato convinto delle sue idee avrebbe potuto tacere, e invece spese pubblicamente parole di sincera ammirazione, e non certamente perché Gershwin, che era anche un abile pittore, gli aveva fatto uno splendido ritratto. I due compositori si ritrovavano spesso sui campi da tennis: da un lato l’austriaco con le dissonanze e i cerebralismi della dodecafonia, dall’altro l’americano con la facilità e la cantabilità. Alle Olimpiadi di Los Angels, nel 1984, 84 pianisti suonarono in simultanea sugli spalti la Rhapsody in Blue, ma per vedere Porgy and Bess al Metropolitan, superando giudizi e pregiudizi, occorrerà attendere il 1985, quando la Fenice di Venezia l’aveva messa in cartellone già nel 1954 .
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Fornitore.
10.3 L'Utente riconosce e accetta che nessuna responsabilità è imputabile al Fornitore:
- per disservizi dell'Abbonamento derivanti da malfunzionamenti di reti elettriche e telefoniche ovvero di
ulteriori
servizi gestiti da terze parti che esulano del tutto dalla sfera di controllo e responsabilità del Fornitore
(per
esempio, disservizi della banca dell'Utente, etc...);
- per la mancata pubblicazione di contenuti editoriali che derivi da cause di forza maggiore.
10.4 In tutti gli altri casi, l'Utente riconosce che la responsabilità del Fornitore in forza del contratto
è limitata
alle sole ipotesi di dolo o colpa grave.
10.5 Ai fini dell'accertamento di eventuali disservizi, l'Utente accetta che faranno fede le risultanze dei
sistemi
informatici del Fornitore.
11. Modifica dei termini d'uso
11.1 L'Abbonamento è disciplinato dai termini d'uso approvati al momento dell'acquisto.
11.2 Durante il periodo di validità del contratto, il Fornitore si riserva di modificare i termini della
fornitura per
giustificati motivi connessi alla necessità di adeguarsi a modifiche normative o obblighi di legge, alle
mutate
condizioni del mercato di riferimento ovvero all'attuazione di piani aziendali con ricadute sull'offerta dei
contenuti.
11.3 I nuovi termini d'uso saranno comunicati all'Utente con un preavviso di almeno 15 giorni rispetto alla
scadenza del
periodo di fatturazione in corso ed entreranno in vigore a partire dall'inizio del periodo di fatturazione
successivo.
Se l'Utente non è d'accordo con i nuovi termini d'uso, può esercitare la disdetta secondo quanto previsto al
precedente
articolo 3.
11.4 Ove la modifica dei termini d'uso sia connessa alla necessità di adeguarsi a un obbligo di legge, i
nuovi termini
d'uso potranno entrare in vigore immediatamente al momento della comunicazione; resta inteso che, solo in
tale ipotesi,
l'Utente potrà recedere dal contratto entro i successivi 30 giorni, con il conseguente diritto ad ottenere
un rimborso
proporzionale al periodo di abbonamento non goduto.
12. Trattamento dei dati personali
12.1 In conformità a quanto previsto dal Regolamento 2016/679 UE e dal Codice della privacy (decreto
legislativo 30
giugno 2003, n. 196), i dati personali degli Utenti saranno trattati per le finalità e in forza delle basi
giuridiche
indicate nella privacy policy messa a disposizione dell'Utente in sede di registrazione e acquisto.
12.2 Accettando i presenti termini di utilizzo, l'Utente conferma di aver preso visione della privacy policy
messa a
disposizione dal Fornitore e di averne conservato copia su supporto durevole.
12.3 Il Fornitore si riserva di modificare in qualsiasi momento la propria privacy policy nel rispetto dei
diritti degli
Utenti, dandone notizia a questi ultimi con mezzi adeguati e proporzionati allo scopo.
13. Servizio clienti
13.1 Per informazioni sul Servizio e per qualsiasi problematica connessa con la fruizione dello stesso,
l'Utente può
contattare il Fornitore attraverso i seguenti recapiti: help@newslist.it
14. Legge applicabile e foro competente
14.1 Il contratto tra il Fornitore e l'Utente è regolato dal diritto italiano.
14.2 Ove l'Utente sia qualificabile come consumatore, per le controversie comunque connesse con la
formazione,
esecuzione, interpretazione e cessazione del contratto, sarà competente il giudice del luogo di residenza o
domicilio
del consumatore, se ubicato in Italia.