4 Gennaio
Un po' di conti sul Belpaese
È tutto Omicron e Quirinale? No, in pentola bolle molto altro e il 2022 è onesto e puntuale con l'agenda della realtà: inflazione al +3,9%, al massimo dal 2008, raddoppia il carrello della spesa (+2,4%). Ancora ecologismo insostenibile? Avanti un altro. Rivolta in Kazakistan per l'aumento del gas. Capitol Hill, un anno dopo. Rotture e svolte del grande romanzo americano
Che succede? La cronaca non è tutta Omicron (oggi ci sarà un Consiglio dei ministri per varare nuove misure su posti di lavoro e scuola), sta bollendo molto altro in pentola (e i numeri inglesi sul virus sono in linea con gli studi sulla minore forza letale), succedono cose di enorme importanza (sottovalutate) che hanno un impatto diretto sulla nostra vita, fatti vicini e lontani che s'intrecciano fino a materializzarsi in varie forme nella quotidianità. Accendi il gas, illumini la tua stanza, lo fai come un atto naturale e dimentichi che tutto questo è possibile solo perché esiste la tecnologia, un mercato delle materie prime, la produzione e distribuzione dell'energia. Nessuno se ne cura, nel frattempo ti raccontano che è in corso la rivoluzione green e tu devi essere naturalmente felice perché ti stanno apparecchiando un futuro migliore. Poi, improvvisamente, compare un presente peggiore. Che sorpresa. Andrà meglio, ma prima dovranno beccarsi in fronte il boomerang che hanno lanciato. È arrivato. E non è finita. Facciamo il nostro giro di giostra, seguite il titolare di List.
01
Inflazione a +3,9%, raddoppia il carrello della spesa
I prezzi corrono, spinti dall'energia. Secondo le stime preliminari dell'Istat a dicembre 2021 l'indice nazionale dei prezzi al consumo per l'intera collettività (NIC), al lordo dei tabacchi, registra un aumento dello 0,4% su base mensile, portando il tasso di inflazione al +3,9% (dal +3,7% del mese precedente). Il tasso del +3,9% è il dato più alto da agosto 2008, quando l'inflazione era al +4,1%. In media, nel 2021 i prezzi al consumo registrano una crescita pari a +1,9% (-0,2% nel 2020). Al netto degli energetici e degli alimentari freschi (l’inflazione di fondo), i prezzi al consumo crescono dello 0,8% (+0,5% nell’anno precedente) e al netto dei soli energetici dello 0,7% (come nel 2020)....
Che succede? La cronaca non è tutta Omicron (oggi ci sarà un Consiglio dei ministri per varare nuove misure su posti di lavoro e scuola), sta bollendo molto altro in pentola (e i numeri inglesi sul virus sono in linea con gli studi sulla minore forza letale), succedono cose di enorme importanza (sottovalutate) che hanno un impatto diretto sulla nostra vita, fatti vicini e lontani che s'intrecciano fino a materializzarsi in varie forme nella quotidianità. Accendi il gas, illumini la tua stanza, lo fai come un atto naturale e dimentichi che tutto questo è possibile solo perché esiste la tecnologia, un mercato delle materie prime, la produzione e distribuzione dell'energia. Nessuno se ne cura, nel frattempo ti raccontano che è in corso la rivoluzione green e tu devi essere naturalmente felice perché ti stanno apparecchiando un futuro migliore. Poi, improvvisamente, compare un presente peggiore. Che sorpresa. Andrà meglio, ma prima dovranno beccarsi in fronte il boomerang che hanno lanciato. È arrivato. E non è finita. Facciamo il nostro giro di giostra, seguite il titolare di List.
01
Inflazione a +3,9%, raddoppia il carrello della spesa
I prezzi corrono, spinti dall'energia. Secondo le stime preliminari dell'Istat a dicembre 2021 l'indice nazionale dei prezzi al consumo per l'intera collettività (NIC), al lordo dei tabacchi, registra un aumento dello 0,4% su base mensile, portando il tasso di inflazione al +3,9% (dal +3,7% del mese precedente). Il tasso del +3,9% è il dato più alto da agosto 2008, quando l'inflazione era al +4,1%. In media, nel 2021 i prezzi al consumo registrano una crescita pari a +1,9% (-0,2% nel 2020). Al netto degli energetici e degli alimentari freschi (l’inflazione di fondo), i prezzi al consumo crescono dello 0,8% (+0,5% nell’anno precedente) e al netto dei soli energetici dello 0,7% (come nel 2020).

L’ulteriore accelerazione dell’inflazione su base tendenziale è dovuta prevalentemente ai prezzi dei beni alimentari, sia lavorati (da +1,4% di novembre a +2,0%) sia non lavorati (da +1,5% a +3,6%), ai prezzi dei beni durevoli (da +0,4% a +0,8%) e a quelli dei servizi ricreativi, culturali e per la cura della persona (da +1,9% a +2,3%); i prezzi dei beni energetici, pur mantenendo una crescita molto sostenuta, rallentano (da +30,7% a +29,1%), a causa di quelli della componente non regolamentata (da +24,3% a +22,0%), mentre la crescita dei prezzi della componente regolamentata rimane pressoché stabile (da +41,8% a +41,9%).
Il carrello della spesa. Cose che hanno impatto sui nostri gesti di ogni giorno, i prezzi dei Beni alimentari, per la cura della casa e della persona raddoppiano la loro crescita da +1,2% di novembre a +2,4%. I prezzi dei prodotti ad alta frequenza d'acquisto invece accelerano da +3,7% a +4,0%.

Commento Istat. Nel 2021, dopo la flessione del 2020 (-0,2%), i prezzi al consumo tornano a crescere in media d’anno (+1,9%), registrando l’aumento più ampio dal 2012 (+3,0%). La ripresa dell’inflazione nel 2021 è essenzialmente trainata dall’andamento dei prezzi dei Beni energetici (+14,1%), diminuiti invece dell’8,4% nel 2020. Al netto di questi beni, nel 2021, la crescita dei prezzi al consumo è la stessa registrata nell’anno precedente (+0,7%). In base alle stime preliminari l’inflazione acquisita o trascinamento per il 2022 (cioè la crescita media che si avrebbe nell’anno se i prezzi rimanessero stabili fino a dicembre) è pari a +1,8%, diversamente da quanto accaduto per il 2021, quando fu pari a -0,1%
***
Chi tocca i fili, muore. I prezzi dell'energia toccano il portafoglio delle famiglie. E in Kazakistan stamattina è successo qualcosa che è un memento per chi governa, occhio alla bolletta e ai carburanti.
02
Rivolta in Kazakistan per il prezzo del gas
La storia è un motore potente, il rumore è affascinante, la velocità sconvolgente. Mentre l'Europa dormiva, in Asia Centrale il tempo giocava a dadi e buttava sul tavolo verde la bandiera del Kazakistan: è scoppiata una rivolta contro gli aumenti del prezzo del gas (che usano come carburante per le automobili). Le proteste si sono estese da alcuni centri del Mar Caspio fino alla parte sud orientale del paese, a Almaty, il principale centro finanziario, metropoli da 1,7 milioni di abitanti al confine tra il Kyrgyzstan e il Sinkiang cinese. Sarebbero in corso disordini in almeno otto province. Il palazzo del sindaco è stato preso d'assalto, sui social media circolano immagini di un incendio nella sede del Comune.
La rivolta innescata dal caro energia (il prezzo del gas per uso domestico) in un territorio ricco di giacimenti di gas, passaggio di oleodotti e gasdotti, che storicamente è sempre stato dominio della Russia è una notizia da monitorare con attenzione. Ovviamente, il gas è un pre-testo, alla base della protesta c'è il malcontento contro un regime che si perpetua.
E non a caso da Mosca il ministero degli Esteri ha commentato: "Stiamo seguendo da vicino la situazione". Vedremo presto quanto da vicino. Il portavoce del Cremlino, Dmitri Peskov, citato dall'Agenzia Ria Novosti, ha detto che il Kazakistan "non ha chiesto assistenza" alla Russia", che "è importante che nessuno interferisca" e che a Mosca sono "convinti che i nostri amici del Kazakistan possono risolvere i loro problemi interni in modo autonomo".
La polizia è intervenuta duramente contro la protesta (quello kazako è un regime autoritario, per la cronaca), vi sono stati 200 arresti, lanci di lacrimogeni, scontri, 95 agenti feriti e le manifestazioni non sono finite, si parla di agenti di polizia che a Aktobe (altra sede governativa presa d'assalto) si sono schierati con i cittadini, le immagini che circolano sui social sono eloquenti.
Il presidente del Kazakistan, Kassym Jomart Tokayev, vista la situazione, ha scelto le vie brevi: via il governo, stato d'emergenza, nuovo esecutivo provvisorio, fuori il primo ministro. Chi comanda? I presidenti e i capi dei governi passano, ma il potere vero in Kazakistan lo ha (o aveva, la situazione sembra essere fuori controllo) sempre lui, Nursultan Abishuly Nazarbayev, è lui il bersaglio della protesta, la folla urla "fuori il vecchio". L'attuale presidente Tokayev ha nominato un nuovo vice capo del comitato di sicurezza nazionale per sostituire Samat Abish, un nipote di Nazarbayev. Vecchie conoscenze di Mosca. Quanto vecchie?
03
Gli ultimi giorni dell'Urss e il nostro presente
Siamo di fronte a una storia che viene da lontano. Quanto lontano? Diamo un'occhiata agli archivi di Mosca e spostiamo il calendario a trent'anni fa, andiamo a pranzo in Spagna, rotta su Madrid.

Madrid, 29 ottobre del 1991.
L'Unione Sovietica è implosa, Michail Gorbaciov tenta di costruire una Federazione Russa, tenere unite le repubbliche, gli Stati Uniti sono preoccupati per il futuro dell'arsenale nucleare, vogliono "occidentalizzare" l'ormai ex impero comunista, trasformarne l'economia a tavolino (piano regolarmente fallito), i colloqui internazionali sono vorticosi, siamo in presenza di un'accelerazione della storia. Un documento pubblicato dal National Security Archive racconta un episodio di questa grande storia, è la sintesi di un incontro a Madrid, a tavola ci sono il re di Spagna Juan Carlos, il premier spagnolo Felipe Gonzalez, il presidente americano George Bush e il presidente russo Michail Gorbaciov che informa i presenti sulle mosse di Yeltsin (che considera inaffidabile, ma insostituibile) e a un certo punto parla della delicatissima situazione dell'Ucraina e del Kazakistan. Ecco la trascrizione di un brano di quell'incontro che era custodita negli archivi di Mosca:
Gorbaciov - Sono convinto che il popolo di una repubblica multietnica come l'Ucraina prenderà alla fine una decisione a favore dell'Unione, perché non possiamo semplicemente separarci gli uni dagli altri in un paese dove 75 milioni di persone vivono al di fuori delle loro unità etniche. Ci sono 15 milioni di russi in Ucraina, secondo le stime più prudenti. Solo il 40% del Kazakistan è kazako.
Juan Carlos - Solo?
Gonzalez - Il Kazakistan in quanto tale è solo un'assurdità.
Gorbaciov - A parte l'Unione, sì. Ed è per questo che Nazarbayev (primo ministro del Kazakistan dal 1984, figura "eterna" del regime, oggi presidente del Consiglio di sicurezza, il capo delle forze armate, ndr) è fermamente a favore dell'Unione. Non abbiamo mai avuto confini interni. Come è possibile dividersi, come si fa a tagliare tutto? L'Ucraina nella sua forma attuale è emersa solo perché i bolscevichi non avevano la maggioranza nella Rada, e hanno aggiunto Kharkov e Donbass all'Ucraina. E Khrushchev passò la Crimea dalla Russia all'Ucraina come gesto fraterno. E quando si iniziò a parlare della secessione dell'Ucraina, allora iniziò un potente movimento contro questo nel Donbass, nel sud, e in Crimea. La Crimea alla fine ha preso la decisione che o l'Ucraina sarà nell'Unione, o torneremo alla Russia. Kravchuk è andato in Crimea, ha cercato di calmarli. La situazione è resa ancora più difficile dalle incaute dichiarazioni di Eltsin e della sua cerchia sui confini e le rivendicazioni territoriali. Questo è un argomento esplosivo.
L'Ucraina, il Kazakistan. Ci risiamo. Come vedete, la storia non tira mai le sue frecce a caso, qui emergono scenari che sono familiari ai lettori di List. Trent'anni fa a Madrid si sperava di porre la prima pietra per la "fine della Guerra Fredda". I fatti erano ai blocchi di partenza per scattare, diventare futuro, il nostro presente.
***
Abbiamo evocato il presente e... gli Stati Uniti, il motore del mondo. Che ha qualche problema. Ieri, oggi, domani, è sempre America.
04
Capitol Hill, il 6 gennaio un anno dopo

Un anno dopo, il 6 gennaio. Tra 24 ore verrà ricordata la guerra incivile americana, l'assalto di Capitol Hill, una giornata incredibile (e una lunga notte per me, ero a Roma e stavo per partire a Washington per l'Inauguration Day di Joe Biden). Vedremo di nuovo schierate due Americhe, una nazione che non riesce a ritrovare l'unità, un sequel. Parlerà il presidente Biden e Donald Trump dopo aver convocato i giornalisti a Mar-a-Lago, ha deciso che parlerà più in là, il 15 gennaio in Arizone. Sarà ancora il duello del 2020, quello che sta per arrivare nelle elezioni di midterm di quest'anno, preludio del grande appuntamento del 2024. Ma non è detto che quest'ultima sfida sia per loro, Joe e Donald, sono entrambi anziani, consumati, in queste due figure si percepisce un anacronismo, le lancette di un orologio che resta indietro mentre il tempo corre. Tra i due, quello che è più sintonizzato con il suo elettorato è Trump, Biden fatica a sostenere la corsa, ha problemi interni con i Dem, ma ha mostrato tempra contro la variante Omicron, non ha ceduto alla pressione di chi voleva una nuova stagione di lockdown, poco fa (sono 22:00) ha confermato che non bisogna chiudere l'America e le scuole devono restare aperte. Saranno i sondaggi che lo vedono colare a picco, sarà quel che sarà, ma è un cambio di rotta.

Il 2022 sarà un altro anno accelerato della storia americana, l'appuntamento elettorale lo renderà incandescente, l'uscita dall'emergenza pandemica è appesantita da Omicron, ma ci sarà. Quanto dell'intreccio e della trama di Washington è già scritto? Quanto resta da raccontare? E come? Quanto è grande il rischio del 2022? È la domanda che pone Aspenia. Quello che segue è un mio articolo pubblicato sull'ultimo numero della rivista dell'Aspen Institute, il grande romanzo americano.
05
Rotture e svolte del grande romanzo americano

A che punto è l'America di Joe Biden? A leggere certe cronache, pare che gli Stati Disuniti siano ancora di Donald Trump, ma è probabile che la penna di molti reporter e analisti dopo 4 anni trascorsi sul fronte del never-trumpismo abbia un problema di rientro nell'orbita del presente. Parlare di Trump per il giornalista collettivo (per non dire dell'intellettuale engagè) è più semplice: s'intinge soavemente la piuma nel calamaio e l'incipit dell'articolo si auto-compone: va tutto male, è (sempre) colpa di The Donald. Questo è il primo metodo per vergare un articolo con il pilota automatico.
C'è un secondo modo per stare alla cloche e provare a atterrare con il carrello abbassato: affermare che con Biden "America is back" e - visto con le lenti appannate dell'intellighenzia europea - naturalmente il multilateralismo trionfa (tranne che in Afghanistan, ma sono inezie, in fondo parliamo "solo" del ritiro americano imposto agli alleati dopo 20 anni di guerra), dunque il mondo è finalmente (ri)aperto e "tout va bien à present". Di solito, questa interpretazione della realtà non fornisce un solo dato empirico, il carrello dell'aereo che punta verso la pista resta incastrato nella fusoliera e il lettore ha l'anticipazione della fine della storia: prima vedo la buccia di banana, poi chi ci passerà sopra. Manuale di sceneggiatura.
La terza carta da giocare per trovare il porto sicuro è dimenticare il primo caso (quello di Trump), puntare su Biden e fare esattamente il contrario del precedente, dunque proiettare la luce sul palcoscenico, illuminare con l'occhio di bue il presidente Biden e scrivere che questa amministrazione dopo un anno è in preda alle convulsioni. Il risultato è garantito, si atterra in pista regolarmente, la torre di controllo tira un sospiro di sollievo, ma nel frattempo i passeggeri con le cinture allacciate e la mascherina sul volto sono morti asfissiati di noia perché restiamo nel campo del clichè.
Scartati i tre modelli, che possibilità resta al cronista di sfuggire al dejà -vu? Il metodo "Ritorno al futuro", cioè piazzarsi al volante della macchina del tempo, andare indietro, avanti e poi planare sul presente, sperando di non restare intrappolato in qualche dimensione parallela, malattia professionale di chi scambia i propri desideri per realtà . Dunque, saliamo a bordo.
Prima tappa, il salto indietro. Anno 2008
L'America contemporanea è una pietanza di lunga cottura e profonda rottura. Qualcosa è andato storto nella parabola degli Stati Uniti e sul taccuino il dettaglio è fissato nel giorno in cui George W. Bush chiama alla Casa Bianca i due candidati alla presidenza, Barack Obama e John McCain, per parlare con gli esponenti del Congresso della crisi dei mutui subprime e del piano di salvataggio di Wall Street.
È il 25 ottobre del 2008, il vostro cronista è a Washington DC e 14 anni dopo quella scena in flashback è istruttiva, è l'ieri che ci parla di oggi: al meeting sono presenti Bush, Obama, McCain, Nancy Pelosi, Mitch McConnell e altri. Che cosa ne è di loro? Bush jr. fa il pittore, Obama fa il conferenziere, McCain è morto con tutti gli onori, Pelosi è la speaker della Camera, McConnell è il capo della minoranza repubblicana al Senato. Siamo all'eternità delle porte girevoli di Washington: i leader del Congresso di ieri sono ibernati a parti rovesciate in quelli di oggi, c'è qualcosa che non va. Nota di cronaca dal passato: quell'incontro andrà male, le voci furono sopra le righe, democratici e repubblicani si trovarono su sponde lontanissime, mentre la Corporate America stava fallendo e lo spettro della disoccupazione di massa avanzava nello Studio Ovale. Dopo qualche giorno, Barack Obama avrebbe vinto le elezioni. Il primo presidente nero della storia americana.
Seconda tappa, il salto avanti. Anno 2021
Rieccoci qua. Il Congresso ha dato il via libera ai piani presentati da Joe Biden: sono due filoni aurei, ricchissimi, vedremo in futuro quanto efficaci: "Infrastructure Law" e "Build Back Better" viaggiano in parallelo, a seconda degli umori, dei desideri, delle ascese e delle cadute dei gruppi che (s)compongono il parlamento americano.
L'Infrastructure Law, il piano di grandi opere da mille miliardi di dollari, è passato alla Camera con 228 sì e 206 no, 13 repubblicani hanno votato a favore, 6 democratici contro. Un segnale dei liberal a Biden: ci siamo anche noi, sei diventato presidente grazie al nostro consenso e devi tenerne conto. I democratici si sono divisi, i repubblicani hanno fatto altrettanto, Joe Biden parla di un voto bipartisan, ma i dissidenti del Gop sono stati una manciata, i malumori dei liberal non sono sopiti (e non è un solo un problema confinato nel gruppo "squad" guidato da Alexandria Ocasio-Cortez), il Congresso guarda alle elezioni di midterm con i dem che dopo la sconfitta in Virginia temono di perdere il già fragile controllo delle Camere. Si pattina sul ghiaccio e l'anno prossimo si vota.
Il pacchetto di riforme sociali, il Build Back Better da duemila miliardi di dollari (in 10 anni) è passato alla Camera con un altro voto rigorosamente dentro le linee dei due partiti (220 a 213), nessuna mano tesa, la politica americana è sulla via polverosa di Tombstone e tutti accarezzano il calcio della Colt. Il piano di welfare di Biden è frastagliato (passa dal cambiamento climatico all'assistenza scolastica, un bel salto onirico) e fa decollare il bilancio dello Stato verso rotte incognite, secondo i modelli di budget della Penn Wharton School la spesa complessiva potrebbe arrivare a 4.1 trilioni di dollari e il debito crescerebbe del 24,4%. "Volare", ma non si sa verso dove.
Tutto bene? Il piano è passato, ha vinto Biden. Quindi ha ragione lui e nell'amministrazione dicono che il momento di difficoltà passerà, verrà dimenticato il buco nero dell'Afghanistan, l'inflazione svanirà e Joe trionferà. È una narrazione consolatoria, in politica conta il tutto, maledetto e subito. Dunque ora c'è la realtà: l'intero piano della Casa Bianca è entrato nella fase di Apollo 13, "Houston, abbiamo un problema" . Quale? Prima di tutto, l'inflazione, la corsa dei prezzi ha steso i sondaggi del Presidente, Biden naviga su livelli di (dis)approvazione trumpiani, rasoterra, una situazione imbarazzante per un uomo che ha vinto le elezioni con la promessa di portare alla Casa Bianca competenza e stabilità. Biden confida che abbiano ragione gli economisti che descrivono questa inflazione come un fenomeno transitorio, ma se i prezzi s'inchiodano per un ritorno del Covid e una nuova recessione, allora siamo al tanto peggio tanto meglio.
Sul taccuino del vostro cronista è rimasto incollato uno sticker, un fatto simbolico, cose pop della società americana, dunque molto rilevanti. Alle pompe di benzina sono comparsi degli adesivi con la faccia di Biden: "I did that", l'ho fatto io. Il presidente ha fatto il pieno, è fermo alla stazione di rifornimento, vittima del paradosso che ha creato: ha promesso un'America "green", tutta e subito, ha decretato l'eutanasia degli idrocarburi, ha fermato la costruzione dell'oleodotto Keystone, introdotto norme che penalizzano le aziende del settore Oil & Gas, ma nel farlo ha dimenticato due dettagli:
1. L'economia mondiale va a idrocarburi non a cellule fotovoltaiche;
2. Il mercato del petrolio è il più affascinante e insidioso, comandano i produttori non i consumatori, perché nessun governo può sopportare la pressione del popolo affamato di energia.
Ci sono almeno tre lezioni per i posteri:
a. Nessuno investe in un settore che viene dichiarato morto in anticipo;
b. Chi produce ha tutto l'interesse a guadagnare oggi quello che non potrà incassare domani;
c. Dopo il crollo dell'economia durante i lockdown del 2020, la domanda della fase post-covid è robusta, c'è una forte competizione sul mercato delle materie prime, è tornato (non era mai andato via) il carbone, il gas è a prezzi stellari, i pochi che guardano il cruscotto della bolletta elettrica sanno dove stiamo andando (a sbattere), stanno fallendo decine di retailer dell'energia nel Regno Unito (nel silenzio generale), Londra e l'Europa rischiano una crisi del gas nelle prossime settimane.
Reazione? L'Europa fa l'Europa (sostanzialmente quasi niente sul fronte del gas e petrolio, non ha leve reali), mentre Biden chiede all'Opec e alla Russia di aumentare l'export di idrocarburi per abbassare il prezzo della benzina che gli ha rovinato il Thanksgiving con tanto di talk show sul prezzo del tacchino. Prima o poi finirà, dicono gli economisti che la sanno lunga, sono gli stessi che hanno passato un brutto quarto d'ora dalla crisi dei mutui subprime all'Armageddon della Brexit (non hanno azzeccato una sola previsione) ma sì, siamo d'accordo sull'ovvio: tutto prima o poi finisce, bisogna vedere le conseguenze.
E le contraddizioni che si sentono come lo stridore delle unghie sul vetro. C'è una Glasgow in Scozia dove 400 jet privati con il manuale del perfetto pilota ecologista (gli aerei vanno a kerosene, non a cellule fotovoltaiche) sono atterrati per discutere con il calice in mano delle emissioni di carbonio (le loro, in classe executive) e c'è una Glasgow nel Montana, al confine con il Canada, un posto nel nulla con circa 3 mila abitanti che è anche il più (s)popolato nel raggio di 177 chilometri. L'America è vasta, immensa, desolata come l'urlo e il furore di William Faulkner e magnifica come le foglie d'erba di Walt Whitman, fantastica e sul punto di esplodere come nei romanzi di Don De Lillo. Queste Americhe ci sono ancora tutte e tutte insieme.
Il problema (di Biden e dell'intero Occidente) non è solo quello di convincere le petro-monarchie a pompare petrolio e gas. Altre pietanze stanno bollendo in pentola, guardate l'indice dei prezzi dei veicoli motorizzati nuovi e usati negli Stati Uniti:

La crisi dei microchip ha messo in ginocchio il mercato dell'auto. Dove si fabbricano i semiconduttori? La fabbrica globale è in Asia e così si scopre - che sorpresa - che il cuore della manifattura americana, l'industria dell'auto, dipende dall'Oriente e che il principale obiettivo del presidente Xi Jinping sul quadrante del Mar della Cina, quella che i portoghesi chiamarono Formosa (bella isola), è il secondo produttore di microchip del mondo (il primo è in Corea del Sud, è Samsung). Chi controlla Taiwan, può accendere e spegnere il motore della tecnologia di oggi e domani. Guerra? Nessuno la vuole e poi che bisogna c'è di sparare un missile quando è già in corso una battaglia durissima, quella del controllo dei circuiti elettronici.
Il problema di Trump, la Cina, è diventato quello di Biden, non era un problema personale di The Donald (che ha il suo carattere sulfureo, certo), ma di competizione, ascesa (della Cina) e declino (degli Stati Uniti). Il fil rouge dell'economia, l'ascesa di Capital Confucio da Pechino, non basta a spiegare il sogno spezzato dell'America. C'è altro e ha a che fare con lo spirito di una nazione che si è smarrito.
Terza tappa. 2016, l'anno di Trump
Nel 2016 Barack Obama lascia la Casa Bianca dopo due mandati che si rivelano un falò quando Hillary Clinton perde le elezioni contro l'imprevisto della storia: Donald Trump. L'America di oggi non è il prodotto di lavorazione della fabbrica delle illusioni di Trump, era precedente alla comparsa dell'uomo con il cappellino rosso, la prova è nel fatto che gli strumenti del materialismo storico falliscono nell'impresa di (pre)vedere la vittoria di un tipo come The Donald. La storia non è tutta economia e non tutto si può spiegare con il reddito, il denaro, il dollaro. La vita è fatta di grandi desideri, irrefrenabili pulsioni, stupende illusioni e roventi delusioni. Trump fu l'emersione di un fiume carsico che scorreva nel sottosuolo americano da tempo, Obama lo portò in superficie, Trump fu il coperchio senza sicurezza della pentola a pressione che saltava per aria.
Le campagne presidenziali di ieri ci aiutano a capire l'oggi, basta evocare gli slogan per vedere come Obama e Trump siano più vicini di quanto dicano le cronache, sono i figli di un'America che tramonta. "Make America Great Again" e "America First" resteranno nella storia e lo stesso non potrà dirsi degli slogan di Biden-Harris. Chi se li ricorda? Il lungo silenzio, il non-ricordo è un altro indizio, la forza della comunicazione, il ritmo e il simbolismo della parola. Questo è un elemento di continuità tra Obama e Trump, il simbolismo del linguaggio, il primo un eccezionale rapper, capace di incantare la folla scandendo "Change" e "Hope", il secondo un tamburo nella foresta che recita "The Snake" di Al Wilson in un paese dove il ranch, i cavalli selvaggi, - e l'immigrazione, lo straniero - sono un elemento pulsante dell'immaginario. La crisi dei migranti che ha travolto l'amministrazione Biden e soprattutto la vicepresidente Kamala Harris, nel suo staff fioccano le dimissioni perché in presenza si nota solo la sua assenza. Cose che capitano.
Il recupero nello storytelling di Trump della metafora de "l'uomo dimenticato" di Roosevelt in un'America senza una depressione economica - ma con la depressione nello spirito - è il segno della continuità con Obama (l'eccezione che vince) e della discontinuità rispetto alla lettura mainstream di un trionfo di Hillary Clinton. Obama e Trump sono due elementi di "rottura" del racconto, due svolte del grande romanzo americano, l'apparizione del "game changer" (così Sergio Marchionne - l'uomo a cui Obama affidò il salvataggio di Chrisler - definì Trump dopo averlo incontrato alla Casa Bianca) in un paesaggio pre-confezionato. Obama raccoglie un paese sull'orlo del fallimento, Trump una nazione sull'orlo di una crisi di nervi. Entrambi offrono una ragione retorica per sperare, senza mai unire il paese, parlano a due Americhe, ne solleticano la fantasia, le schierano in piazza, l'un contro l'altro armati, amati e odiati.
Il 2008 di Obama e il 2016 di Trump furono la doppia fine dei clan: il tramonto dei Bush e quello dei Clinton. Sconfitti da due outsider, così diversi eppure così vicini. La storia li ha fusi, c'è uno strano oggetto che sorvola il cielo americano: "Trumbama".
Quarta tappa. 2021, il colpo rosso in Virginia
Le parole chiave di questa storia sono due entità: "noi e gli altri". Dove il "noi" è il Lego colorato della nazione obamiana che Barack nella campagna e nell'azione politica del secondo mandato plasma, curva, piega, chiama, carezza, mobilita, è la somma dei cluster elettorali (e degli algoritmi che lui userà nella corsa del 2012) contrapposta a tutto quello che è fuori da questo conteggio, "gli altri" , l'America bianca, quel che resta dell'antico nucleo dei Fondatori. Otto anni di Obama hanno prodotto la reazione degli "altri" , la fazione-nazione dipinta nelle università liberal come il nucleo dello schiavismo, del razzismo, il clan usurpatore del suolo dei nativi, l'alta educazione dei ricchi da sovvertire (destino curioso per il fu centrismo dei dem, puro distillato dell'establishment dei campus dell'élite). Quando nel 2016 entra in scena Trump, quelli del Tea Party avevano già messo a soqquadro il partito repubblicano, Joe The Plumber, l'idraulico, era il prototipo di quelli che Hillary Clinton (gaffe stellare che le costò la presidenza) chiamò poi "deplorables", i miserabili di un Victor Hugo trasferito in Pennsylvania che poi condussero Trump alla vittoria. Milioni di americani votarono Trump perché ebbero la conferma di essere considerati dei reietti, esclusi dal "noi", schiacciati ad essere sempre "altri", il primo germoglio di un nuovo manicheismo americano.
La Red Nation trumpiana fu seminata (in)volontariamente da Obama, dal suo linguaggio, dalla sua retorica, dalla sua iconografia studiata, fissata, sviluppata e socializzata per la prima volta in maniera capillare sulla Rete. Abile, intelligente, un fuoriclasse sempre "a tempo", Obama. Ma troppo lontano dall'altra America che stava preparando lo tsunami, l'onda rossa del 2016. The Donald fu la conseguenza di un processo di atomizzazione della vita americana, fu un catalizzatore dello smarrimento del siamo soli e tutti insieme della società contemporanea online e sconnessa (leggere "Alone Together" di Sherry Turkle, libro di qualche anno fa che con intelligenza anticipava la distopia dei "metaversi" di solitudine di cui oggi parla Zuckerberg, la vita ridotta a protesi digitale che sostituisce i sensi, dalla natura alla realtà aumentata). È l'America degli ansiolitici, degli oppiodi, della sfolgorante ricchezza e desolante povertà, tutti insieme in cerca di un pifferaio magico. Eccomi, sono qua, sono Io, sono nella mia casa, ho mangiato il mio Big Mac, mia moglie è con il personal trainer, io ho una Tesla da 100 mila dollari, sono elettrico, ma dove sono gli altri? Che domanda, idiota, sono tutti là, al comizio di Trump, scollegati e collegati, c'è una nazione (nuova) che ti aspetta. È la Red Nation che è già oltre Trump perché è stata nutrita dalla politica dei democratici di ieri e di oggi, "noi e gli altri" è un eccezionale fertilizzante, dove non c'è un seme trumpiano, lo fa crescere. E la notizia è che la chiamata alla mobilitazione nazionale contro Trump non funziona più.
Quasi tutte le surreali discussioni sulla leadership nel Gop non colgono questo aspetto chiave: chi tra i repubblicani propone una battaglia culturale per contrastare l'ossessione etica dei democratici, vince. E si tratta di una battaglia trumpiana anche senza Trump. Più statue si abbattono in nome della "cancel culture" (l'ultimo a cadere è stato Thomas Jefferson), più i repubblicani non voteranno l'ibernato Mitch McConnell (ancora lui) ma cercheranno la battaglia in campo aperto con i dem più oltranzisti. La politica polarizzata ha bisogno di un "nemico". Biden? In fondo è anche lui un imprevisto, un insperato vincitore della corsa presidenziale in condizioni eccezionali e irripetibili: pandemia, paura, morte, lockdown, voto postale di massa, una campagna presidenziale da pazzi sul dragster. Non accadrà un'altra volta. Di quel momento distopico, comunque la si pensi, resterà un ricordo pesante (la guerra incivile americana che arriva a Capitol Hill) e una "dirty campaign" di quattro anni condotta con qualsiasi mezzo (qualcuno ricorda oggi il falso dossier dell'ex spia Christopher Steele?), da una parte e dall'altra. In mezzo, il coronavirus, la fine del mondo come l'abbiamo conosciuto fino al dicembre del 2020, poi il buio e un bagliore sconosciuto proveniente dalla Cina, il Big Bang di Wuhan.
Cosa resta? L'eredità di quella lotta nel fango, la radicalizzazione dei movimenti. Da una parte i trumpiani, dall'altra il resto del mondo. Sullo sfondo, l'incendio del Black Lives Matter e i colpi di ruspa e piccone della "cancel culture" estesa a ogni aspetto della vita americana. Niente si salva dalla furia iconoclasta contemporanea. Sono arrivati a bandire i classici, hanno da obiettare sull'ideologia di Omero, i gusti di Virgilio, tutto ciò che è "altro" diventa un catalogo sragionato di razzismo, sessismo, istinto predatorio, schiavismo, una legione di non allineati da cancellare, incarcerare, un'ondata di revisionismo (a)storico, il kafkiano che sfocia regolarmente nell'assurdo. È in vigore il solo manifesto retroattivo del politicamente corretto, materiale fissile che ricorda le predizioni di Hannah Arendt. Quanto può durare? Non lo sappiamo, il vulcano continua a eruttare, la lava non fa in tempo a consolidarsi, ecco un'altra esplosione. Eppure i segni di logoramento ci sono tutti.
Prima o poi sarebbe arrivata una reazione nell'urna. Le campane hanno squillato in Virginia, qui Biden vinse le presidenziali con 10 punti di distacco, due anni dopo il nuovo governatore si chiama Glenn Youngkin, 54 anni, repubblicano, già ragazzo prodigio della finanza, un esordiente nel grande gioco della politica che fa centro al primo colpo. Sorpresa. Una sconfitta bruciante per i dem, fine dell'onda blu e colpo rosso dei repubblicani. Youngkin non ha vinto parlando di economia, lo ha fatto innestando il tema della libertà di opinione, ricordando agli elettori le basi della convivenza: l'insegnamento plurale e l'esercizio della critica, la scuola per tutti senza la dittatura del conformismo, il valore delle radici e l'identità, il sesso e la razza come dono e non come ossessione. Che cosa è questa? Una rivolta culturale.
America? "La France" del Signor Z.
Quando si evocano le rivoluzioni e le democrazie, le ascese e le cadute, bisogna sempre guardare alle due città che ne furono la culla, Washington e Parigi. Ieri, oggi, domani. La guerra culturale in corso in America è da raccontare in parallelo con quella della Francia odierna dove è comparso un altro imprevisto della storia, Eric Zemmour. Un altro Trump, dicono quelli che hanno un'etichetta buona per tutto, il "populismo". È davvero così? Parliamo di tipi distanti anni luce. Trump non legge libri, Zemmour li scrive, li vende, li presenta e li trasforma in materiale contundente di una campagna presidenziale dove sì, perderà la corsa all'Eliseo, ma rischia di vincere sul piano che più conta, quello delle idee che si depositano nell'immaginario. Monsieur Z. è da osservare perché segue e anticipa quello che vedremo in America. Esistono molti mondi e storie diverse, ma alla fine si ricompone sempre un quadro della Storia. Non a caso l'ascesa di una figura come Zemmour (ora non più un'ipotesi di lavoro anti-macronista, ma un candidato ufficiale all'Eliseo, un tipo che si presenta con le parole di Giovanna D'Arco: "Devo salvare la Francia") viene decrittata dalla penna di Christopher Caldewll sulla Claremont Review of Books, una delle più importanti riviste culturali della Red Nation. È il caso della Francia che va verso la "guerra civile", la collisione di due mondi. Scrive Caldwell: "La "guerra civile" di cui parla Zemmour potrebbe essere intesa come qualcosa di simile alla polarizzazione che ha segnato la politica americana dalla metà dell'amministrazione Obama. Da una parte ci sono i "vincitori" della globalizzazione - i super-ricchi e le minoranze protette. Dall'altra ci sono i perdenti della globalizzazione, le nuove classi medie e lavoratrici precarie.
Questo è in parte il modo in cui Zemmour lo interpreta: "Stiamo vivendo un momento del tipo che abbiamo vissuto spesso nella nostra storia", scrive nel suo ultimo libro, "dove il popolo non si riconosce più nelle élite, nei partiti politici, o... "nel sistema". Il punto di rottura che è al centro dell'attenzione di Zemmour è l'immigrazione, l'ondata islamista, il processo di assimilazione che non funziona più per esondazione dei numeri. Ancora Caldwell: "Il problema dell'Islam non è che domina le istituzioni ufficiali del paese, ma che la popolazione dei suoi aderenti cresce a passi da gigante. L'estate scorsa, la rivista Causeur ha pubblicato una serie di mappe che il gruppo di consulenza governativa France Stratégie aveva utilizzato. Mostravano una crescita delle popolazioni immigrate in tutte le città francesi che era quasi incredibile. In vasti tratti di Seine-St-Denis, luogo di sepoltura dei re e delle regine di Francia, il 70-80% dei bambini sotto i 18 anni sono nati da immigrati non europei. ("Ci sono 135 nazionalità diverse in Senna-St-Denis", ha osservato una volta con umorismo nero il ministro degli interni socialista Jean-Pierre Chevènement, "ma una di esse si è praticamente estinta"). Lo stesso vale per Limoges e altre città di provincia che, fino a poco tempo fa, sarebbero state considerate sonnolente. Le mappe hanno provocato onde d'urto in Francia quando sono state pubblicate, ma ciò che più colpisce è che l'indignazione ha colto di sorpresa i consulenti del governo. Avevano usato le mappe per due anni per sviluppare piani per combattere la segregazione residenziale. Apparentemente non avevano pensato che, nell'opinione pubblica, il problema principale non era la distribuzione della popolazione immigrata, ma la sua dimensione†. Ricorda qualcosa? Trump, il muro.
Macron guarda agli Stati Uniti con l'attenzione di un entomologo. L'uomo è colto, scaltro, veloce. Quando il Black Lives Matter e la "cancel culture" si sono manifestati sulle strade americane, quando le truppe del politicamente corretto hanno riscritto la storia e dipinto le origini "schiaviste" degli Stati Uniti d'America, quando i consigli delle università hanno cominciato a cancellare i nomi dei loro fondatori (l'università di Princeton che rimuove una targa del presidente Woodrow Wilson da uno degli edifici del campus), quando le statue sono cadute, Macron ha pensato ai Lumi, al Terrore, al movimento iconoclasta, alla patria in pericolo che è il pilastro del gollismo di cui "Le President" si rifornisce quando deve sterzare bruscamente rispetto al cosmopolitismo che è il suo ambiente naturale. Macro con intelligenza fiuta il pericolo della distruzione dell'identità (che per i francesi è tutto), se cade una statua di Lincoln in America, allora può succedere a Parigi con i suoi eroi, con Napoleone Bonaparte e con Charles de Gaulle, con i ponti sulla Senna e i capolavori del Louvre, con la letteratura e l'eccezionale galleria di uomini e donne che riposano nel Pantheon (ultima arrivata, Josephine Baker, una leggenda, un altro anello di congiunzione tra l'America e la Francia). Per Macron la furia che cancella la storia è un nemico, è una bomba a orologeria che può far crollare il suo blocco di consenso, il punto d'attacco che può scuotere i suoi sostenitori moderati di fronte a movimenti che ne mettono in discussione l'origine profonda, un'arma nelle mani della destra francese (e di Zemmour). In quel momento, nel lampo dell'intuizione, Macron pronuncia una frase che serve a coprirsi a destra: “La Francia non abbatterà nessuna delle sue statue". Da quel colpo di folgore macroniana le storie di Washington e Parigi s'intrecciano nel mai concluso romanzo popolare di una "nuova guerra civile" . Francia, America, Marchons! Quanto si diverte la storia a giocare a dadi.
C'è una stella solitaria, il Texas
Le "due Americhe" in rotta di collisione, questo è solo il primo dei bagliori, altro arriverà, perché la crisi è anche costituzionale, ha un sottotesto che parla di secessione strisciante, di idee che emergono a ondate negli Stati rossi e blu, oggi si parla di "Texit" per il Texas repubblicano, la stella solitaria, ieri di "Calexit" per la California. L'aborto-non-aborto del Texas e quello del Mississippi, la Corte Suprema conservatrice, le élite in progress e i media militanti, il casino americano è una "cosa" informe, potrebbe venirne fuori di tutto e non a caso il think tank Brooking Institution ricorda un sondaggio di quest'anno di John Zogby che rivela come il 46% degli americani creda plausibile una guerra civile in futuro (il 43% la giudica improbabile e l'11% non sa), una guerra che - attenzione - per i giovani è molto più probabile (53%), rispetto ai vecchi (31%), più alta tra coloro che abitano nel Sud (49%) e nelle regioni del centro e dei Grandi Laghi (48%), rispetto a chi risiede a Est (39%). La guerra civile, ci pensano.
C'è un'inquietudine di fondo nella società americana che qui abbiamo solo lumeggiato. È un dramma titanico che non a caso tracima dalla cronaca alle pagine di storia, accade nell'era della pandemia, dopo Wuhan, con l'ombra del Dragone della Cina che s'allunga sulla Statua della Libertà. È il romanzo dell'ascesa e del declino degli imperi. Allacciate le cinture e preparatevi all'atterraggio d'emergenza.
06
Il telescopio James Webb ha aperto l'ombrello (solare)
Il viaggio continua, il telescopio James Webb è diretto al Punto Lagrange e ha dispiegato l'ombrello solare, lo scudo termico che lo proteggerà dalla radiazione del Sole e manterrà in un ambiente termico stabile.

Il 'parasole' è composto da cinque strati ciascuno delle dimensioni di un campo da tennis, che sono stati accuratamente spiegati e allungati uno per uno. Le manovre di questa delicata operazione sono durate due giorni, la più difficile della lista di operazioni che deve compiere il telescopio per passare poi alla fase dell'osservazione del cosmo. Siamo vicini all'apertura dello specchio secondario (prevista per oggi) e poi dello specchio primario (il 7 gennaio). Chi vuole seguire il viaggio del nostro gigantesco occhio nello spazio può farlo qui. Il James Webb è un telescopio-origami, sembra tutto facile, scriverlo è un gioco da ragazzi, ma tutte queste manovre spaziali sono un grande rischio, non sono routine. L'impresa va avanti, cerchiamo risposte all'enigma del Big Bang. In terra e in cielo, viviamo tempi interessanti. Ho l'impressione che nel 2022 forse non sarà troppo.
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forma non
collettiva e senza scopo di lucro; l'Utente è inoltre responsabile per qualsiasi uso non autorizzato
dell'Abbonamento e
dei suoi contenuti, ove riconducibile all'account dell'Utente medesimo; per questo motivo l'Utente si
impegna ad
assumere tutte le precauzioni necessarie per mantenere riservato l'accesso all'Abbonamento attraverso il
proprio account
(per esempio, mantenendo riservate le credenziali di accesso ovvero segnalando senza ritardo al Fornitore
che la
riservatezza di tali credenziali risulta compromessa per qualsiasi motivo).
7.4 La violazione degli obblighi stabiliti nel presente articolo conferisce al Fornitore il diritto di
risolvere
immediatamente il contratto ai sensi dell'articolo 1456 del codice civile, fatto salvo il risarcimento dei
danni.
8. Tutela della proprietà intellettuale e industriale
8.1 L'Utente riconosce e accetta che i contenuti dell'Abbonamento, sotto forma di testi, immagini,
fotografie, grafiche,
disegni, contenuti audio e video, animazioni, marchi, loghi e altri segni distintivi, sono coperti da
copyright e dagli
altri diritti di proprietà intellettuale e industriale di volta in volta facenti capo al Fornitore e ai suoi
danti causa
e per questo si impegna a rispettare tali diritti.
8.2 Tutti i diritti sono riservati in capo ai titolari; l'Utente accetta che l'unico diritto acquisito con
il contratto
è quello di fruire dei contenuti dell'Abbonamento con le modalità e i limiti propri del Servizio. Fatte
salve le
operazioni di archiviazione e condivisione consentite dalle apposite funzionalità del Servizio, qualsiasi
attività di
riproduzione, pubblica esecuzione, comunicazione a terzi, messa a disposizione, diffusione, modifica ed
elaborazione dei
contenuti è espressamente vietata.
8.3 La violazione degli obblighi stabiliti nel presente articolo conferisce al Fornitore il diritto di
risolvere
immediatamente il contratto ai sensi dell'articolo 1456 del codice civile, fatto salvo il risarcimento dei
danni.
9. Manleva
9.1 L'Utente si impegna a manlevare e tenere indenne il Fornitore contro qualsiasi costo – inclusi gli
onorari degli
avvocati, spesa o danno addebitato al Fornitore o in cui il Fornitore dovesse comunque incorrere in
conseguenza di usi
impropri del Servizio da parte dell'Utente o per la violazione da parte di quest'ultimo di obblighi
derivanti dalla
legge ovvero dai presenti termini d'uso.
10. Limitazione di responsabilità
10.1 Il Fornitore è impegnato a fornire un Servizio con contenuti professionali e di alta qualità; tuttavia,
il
Fornitore non garantisce all'Utente che i contenuti siano sempre privi di errori o imprecisioni; per tale
motivo,
l'Utente è l'unico responsabile dell'uso dei contenuti e delle informazioni veicolate attraverso di
essi.
10.2 L'Utente riconosce e accetta che, data la natura del Servizio e come da prassi nel settore dei servizi
della
società dell'informazione, il Fornitore potrà effettuare interventi periodici sui propri sistemi per
garantire o
migliorare l'efficienza e la sicurezza del Servizio; tali interventi potrebbero comportare il rallentamento
o
l'interruzione del Servizio. Il Fornitore si impegna a contenere i periodi di interruzione o rallentamento
nel minore
tempo possibile e nelle fasce orarie in cui generalmente vi è minore disagio per gli Utenti. Ove
l'interruzione del
Servizio si protragga per oltre 24 ore, l'Utente avrà diritto a un'estensione dell'Abbonamento per un numero
di giorni
pari a quello dell'interruzione; in tali casi, l'Utente riconosce che l'estensione dell'Abbonamento è
l'unico rimedio in
suo favore, con la conseguente rinunzia a far valere qualsivoglia altra pretesa nei confronti del
Fornitore.
10.3 L'Utente riconosce e accetta che nessuna responsabilità è imputabile al Fornitore:
- per disservizi dell'Abbonamento derivanti da malfunzionamenti di reti elettriche e telefoniche ovvero di
ulteriori
servizi gestiti da terze parti che esulano del tutto dalla sfera di controllo e responsabilità del Fornitore
(per
esempio, disservizi della banca dell'Utente, etc...);
- per la mancata pubblicazione di contenuti editoriali che derivi da cause di forza maggiore.
10.4 In tutti gli altri casi, l'Utente riconosce che la responsabilità del Fornitore in forza del contratto
è limitata
alle sole ipotesi di dolo o colpa grave.
10.5 Ai fini dell'accertamento di eventuali disservizi, l'Utente accetta che faranno fede le risultanze dei
sistemi
informatici del Fornitore.
11. Modifica dei termini d'uso
11.1 L'Abbonamento è disciplinato dai termini d'uso approvati al momento dell'acquisto.
11.2 Durante il periodo di validità del contratto, il Fornitore si riserva di modificare i termini della
fornitura per
giustificati motivi connessi alla necessità di adeguarsi a modifiche normative o obblighi di legge, alle
mutate
condizioni del mercato di riferimento ovvero all'attuazione di piani aziendali con ricadute sull'offerta dei
contenuti.
11.3 I nuovi termini d'uso saranno comunicati all'Utente con un preavviso di almeno 15 giorni rispetto alla
scadenza del
periodo di fatturazione in corso ed entreranno in vigore a partire dall'inizio del periodo di fatturazione
successivo.
Se l'Utente non è d'accordo con i nuovi termini d'uso, può esercitare la disdetta secondo quanto previsto al
precedente
articolo 3.
11.4 Ove la modifica dei termini d'uso sia connessa alla necessità di adeguarsi a un obbligo di legge, i
nuovi termini
d'uso potranno entrare in vigore immediatamente al momento della comunicazione; resta inteso che, solo in
tale ipotesi,
l'Utente potrà recedere dal contratto entro i successivi 30 giorni, con il conseguente diritto ad ottenere
un rimborso
proporzionale al periodo di abbonamento non goduto.
12. Trattamento dei dati personali
12.1 In conformità a quanto previsto dal Regolamento 2016/679 UE e dal Codice della privacy (decreto
legislativo 30
giugno 2003, n. 196), i dati personali degli Utenti saranno trattati per le finalità e in forza delle basi
giuridiche
indicate nella privacy policy messa a disposizione dell'Utente in sede di registrazione e acquisto.
12.2 Accettando i presenti termini di utilizzo, l'Utente conferma di aver preso visione della privacy policy
messa a
disposizione dal Fornitore e di averne conservato copia su supporto durevole.
12.3 Il Fornitore si riserva di modificare in qualsiasi momento la propria privacy policy nel rispetto dei
diritti degli
Utenti, dandone notizia a questi ultimi con mezzi adeguati e proporzionati allo scopo.
13. Servizio clienti
13.1 Per informazioni sul Servizio e per qualsiasi problematica connessa con la fruizione dello stesso,
l'Utente può
contattare il Fornitore attraverso i seguenti recapiti: help@newslist.it
14. Legge applicabile e foro competente
14.1 Il contratto tra il Fornitore e l'Utente è regolato dal diritto italiano.
14.2 Ove l'Utente sia qualificabile come consumatore, per le controversie comunque connesse con la
formazione,
esecuzione, interpretazione e cessazione del contratto, sarà competente il giudice del luogo di residenza o
domicilio
del consumatore, se ubicato in Italia.